10.1. Cuore di mamma. Corpi materni nel cinema muto italiano di finzione

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1. La Mater dolorosa: uno stereotipo cinematografico di madre italiana

A partire dalla seconda metà dell’Ottocento anche in Italia la maternità, che all’inizio del secolo è ancora scomposta in ruoli e spazi diversificati, si ricongiunge nella sola figura della madre biologica e nella residenza domestica. Se il ruolo di madre dedicata confina la donna all’interno di uno spazio privato che le impedisce di essere al contempo cittadina, nell’Italia di Crispi e Giolitti, l’immagine stereotipata che ne consegue innesca una «mistica della maternità» (Bravo 1997, p. 141) di interesse pubblico, che trova la sua collocazione all’interno di una retorica non solo religiosa ma anche laica. L’iconografia della Madonna della Controriforma che si sovrappone a quella sacrale della madre italiana sacrificata e l’utilizzo della stessa figurazione, in chiave patriottica, da parte delle classi dominanti liberali, contribuiscono a formalizzare il mito della ʻmamma italianaʼ, angelo del focolare, disposta a immolare i propri figli in onore della patria. In questo periodo storico, dunque, si fortifica lo stereotipo della Mater dolorosa amplificato e ampiamente diffuso dal primo cinema italiano, attraverso la ricorrente rappresentazione della madre oblativa – interpretata, in questi termini, dalla stimata Mary Cléo Tarlarini nel film Mater dolorosa di Mario Caserini (Torino, Ambrosio, 1913)  destinata alla sofferenza e al martirio.

Questa è la sorte riservata alla protagonista di La madre e la morte (Torino Ambrosio, 1911) [fig. 1], che, tormentata dal decesso inaspettato del proprio bambino, nell’apoteosi finale, è dichiaratamente associata alla Madonna delle sette spade. I sette dolori rappresentati dall’iconografia di Maria trafitta indicano, infatti, la condizione di patimento connaturata nel ruolo materno: il dolore della donna del film è consustanziale al figlio, come nel caso dell’afflizione di ʻMaria delle Lacrimeʼ e di suo figlio Gesù.

L’alto tasso di mortalità infantile dell’Italia di inizio Novecento trasforma il tema del dolore materno connesso alla malattia grave e al decesso filiale in un leitmotiv cinematografico. L’amorevolezza della duchessa di Simorôse, madre di Mary in Il segreto del lago (Genova, Vidali Films, 1916), per esempio, è convertita in pena esistenziale alla morte della sua piccola, annegata nel lago della villa di residenza. La vocazione materna basata sull’immaginario della Mater dolorosa, tuttavia, è garanzia di redenzione per la duchessa di Simorôse (che, deceduta la figlia, ritrova il senno esercitando il maternage nei confronti della piccola Nelly), quanto per la mamma addolorata di L’orfanella di Messina (Torino, Ambrosio, 1909) [fig. 2]. Nel film che si ispira all’apocalittico sisma calabro-siculo del 1908, scomparsa la figlioletta per malattia, la donna orbata, in un momento di acuta disperazione assiste, attraverso l’apparizione della figlia, alla visione del terremoto che ha reso orfana la bambina destinata alla sua casa. Adottando una fanciulla bisognosa, la madre può dunque contenere la sofferenza e assegnare un senso alla perdita, assecondando il proprio spirito filantropico.

Quando, in caso contrario, la rappresentazione della madre non soddisfa l’immaginario della donna devota al proprio ruolo, il grande schermo non offre alcuna possibilità di riscatto. In Maddalena Ferat (Roma, Caesar Film/Bertini Film, 1920) [fig. 3], infatti, la protagonista infedele non ha diritto di esercitare la sua funzione di madre. Immersa nel senso colpa, il decesso della figlia Luisa la rende consapevole dell’epilogo penoso: «È la fine. Bisogna che sparisca…» (didascalia). Favorendo la sua caduta, pertanto, Maddalena si uccide avvelenandosi.

 

2. Il Maternal Dilemma tra borghesia e proletariato femminile

A condizionare la costruzione dell’immagine stereotipica della madre italiana, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio della Grande Guerra, è il «riconoscimento del bambino nella sua ‘inseità’» (Alovisio 2018): i fanciulli, con le proprie madri, divengono pertanto i protagonisti di un progetto pedagogico – decisamente ideologizzato – promosso dalle classi dirigenti orientate a creare una prospettiva morale socialmente condivisa di un’Italia da poco unita politicamente. Esattamente come accadrà a partire dagli anni Venti nelle produzioni amatoriali-familiari, «mostrata e immortalata come corpo relazionale e simbiotico, come identità femminile che esiste solo in relazione all’altro, al proprio figlio» (Cati 2007, p. 220), l’immagine della madre nella fiction italiana, perlopiù si sovrappone alla figura della dama borghese dedita al benessere filiale e maritale. Il modello accudente che si basa sulla prossimità fisica e sul contatto intimo tra madre e figlio, garantito, quindi, dallo stato sociale dei privilegiati, s’impone anche sulla popolazione femminile più bisognosa, che però struttura diversamente, secondo altri criteri di necessità, la relazione con la propria prole. La madre – povera – che lavora è, infatti, la cattiva madre per definizione. I film del tempo parlano chiaro: la presenza amorevole riservata ai propri figli in Il sogno patriottico di Cinessino (Roma, Cines, 1915) [fig. 4] e in Chi fu il colpevole? (Torino, Itala Film, 1910) si commuta nell’abbandono del figlio – oltretutto illegittimo – da parte di Rosalia, sventurata confinata sulle montagne del Gennargentu, dove, come recita una didascalia, «la parola crudele e la miseria spingono la madre a separarsi dal bambino» in Cenere (Torino, Ambrosio, 1916) [fig. 5]. La disgrazia familiare incombe anche su Giannina Fortier, madre, vedova e lavoratrice, protagonista di La portatrice di pane (Torino, Subalpina Film, 1923) [fig. 6]. La donna, che nell’incipit del film è costantemente rappresentata insieme al proprio figlio maschio, dichiarata pubblicamente responsabile dell’incendio presso la fabbrica di cui è custode e dove è stato assassinato il padrone dello stabilimento, per provare la propria innocenza si costituisce, assicurandosi la prigione e determinando così la tragica separazione, lunga più di vent’anni, dai propri fanciulli.

La relazione dicotomica che s’instaura tra la rappresentazione della madre martire del proletariato contadino e urbano, e quella della genitrice oblativa della borghesia favorisce, dunque, la formulazione di un quesito senza tempo: «Is it possible to be both a mother and an autonomous individual? This is what I will call the maternal dilemma» (Allen 2005, p. 1). Le tensioni ideologiche determinate dai repentini e contraddittori cambiamenti socio-culturali propri dell’inizio del Novecento si manifestano attraverso una rappresentazione della donna divisa tra le istanze della tradizione, da una parte, e quelle dello sviluppo, dall’altra. Come sottolinea Silvio Alovisio:

 

I fremiti della modernità che agitano le famiglie di queste e altre commedie non devono tuttavia far credere che il cinema muto italiano, anche nelle forme più libere del comico, riconosca a madri, mogli e figlie un ruolo al di fuori della famiglia o una condizione di parità rispetto agli uomini del nucleo familiare (Alovisio 2013, p. 20).

 

Anche all’interno della fiction, dunque, «ci accorgiamo che la rappresentazione della madre viene costruita seguendo delle strette convenzioni sociali» (Cati 2007, p. 220), basate sulla prospettiva prevalentemente maschile e maschilista che irradia la cultura italiana di inizio Novecento.

 

3. La madre invisibile. La gravidanza e il rifiuto del ruolo materno

La storia della medicina occidentale che, fin dall’antichità, è interessata allo studio dell’aspetto della donna e alle sue trasformazioni, condiziona una longeva «immagine dell’utero come elemento causa prima delle qualità e dei mali femminili» (Sironi 2008). Condizionato da questa concezione, ancora a cavallo del XX secolo,

 

prezioso come macchina da riproduzione e da lavoro, l’impuro corpo femminile non trova redenzione nella maternità. Dopo il parto, ha bisogno di essere rigenerato con il rito cattolico; durante la gravidanza, deve essere reso virtualmente invisibile. La donna incinta prova vergogna se in chiesa si sente male, nasconde la pancia sotto un grembiule annodato sempre più in alto (Bravo 1997, p. 161).

 

La visione non gradita della donna gravida, rende la sua rappresentazione un evento assai raro: il primo cinema italiano, infatti, tendenzialmente non concede al proprio pubblico immagini di donne incinta. Se il corpo contaminato della donna gravida deve rendersi invisibile anche sul grande schermo, nel cinema di famiglia «la madre è una specie di corpo ‘magnetico’, il cui compito è quello di proteggere e attrarre l’altro (il figlio), superando quasi impercettibilmente la liminarità filmica e fisica tra campo e fuori campo» (Cati 2007, p. 222); la mamma del cinema di narrazione, a differenza di quella delle produzioni amatoriali, si impone invece all’interno del quadro mediante le sembianze della madre accuditiva e addolorata. La rappresentazione diventa, però, ostentazione scenica della fisicità quando, a vampirizzare lo sguardo, è la donna ammaliatrice e immorale, definita altresì attraverso il suo rifiuto del ruolo materno. Nel film Il ritratto dell’amata (Film d’Arte Italiana, 1912), la protagonista fedifraga, trasformandosi in modella del pittore che la ritrae e rendendosi oggetto del desiderio, non può espletare la funzione sociale di madre e di moglie, antitetica a quella di amante infedele. In La moglie di Claudio (Torino, Itala Film, 1918) Cesarina, sposata con l’onesto ingegnere Claudio Ruper, abbandona un figlio illegittimo, la cui morte la lascia indifferente. Appresa la notizia del decesso dal marito stesso, Cesarina, donna avida e sessualmente disponibile, risponde: «E voi credete si possa amare la creatura che vi ricorda ad ogni istante la colpa, che vi fa sprezzare dall’uomo che si ama? A me sembra che da oggi soltanto, io possa essere tutta vostra…» (didascalia 707 – 26). Sconvolto dalla reazione della moglie, Claudio decide di conservare con lei il solo legame giuridico; le inclinazioni perverse di Cesarina che la portano a rigettare il ruolo materno la rendono un personaggio demoniaco, destinato a soffrire e a perire in condizioni infauste.

Infine, la condanna morale riservata alle donne che non accettano la carica di madre trova la sua massima espressione con le interruzioni procurate di gravidanza, in un contesto storico in cui «l’aborto si iscrive nei codici penali d’inizio secolo tra i delitti contro la persona» (Filippini 1997, p. 132). Nel film Maternità (Torino, Gladiator Film, 1917) una donna che non è disposta a sacrificarsi per il figlio non può far altro che morire lei stessa: Claudia, gravemente malata «tenterà di salvarsi almeno lei, con un aborto, ma quest’atto le costerà la vita» (Martinelli 1989, p. 182).

 

 

Bibliografia

A. T. Allen, The Maternal Dilemma. Feminism and Motherhood in Western Europe, 1890 – 1970, New York-London, Palgrave Macmillan, 2005.

S. Alovisio, ‘Allegri focolari. La famiglia nel primo cinema comico italiano’, Quaderni del CSCI, n. 9, 2013.

Id., ʻPiccoli martiri e sognatori. Immagini d’infanzia nel primo cinema italianoʼ, Fata Morgana, n. 35, 2018 (in corso di stampa).

A. Bravo, ʻLa Nuova Italia: madri fra oppressione ed emancipazioneʼ, in M. D’Amelia (a cura di), Storia della maternità, Roma-Bari, Laterza, 1997.

A. Cati, ʻ«Sorridi alla mamma!». Presenze materne nelle pratiche cine-amatorialiʼ, Comunicazioni Sociali, n. 2, 2007.

M. D’Amelia, La mamma, Bologna, Il Mulino, 2005.

M. E. D’Amelio, G. Faleschini Lerner (a cura di), Italian Motherhood on Screen (Italian e Italian American Studies), New York-London, Palgrave Macmillan, 2017.

N. M. Filippini, ʻIl cittadino non nato e il corpo della madreʼ, in M. D’Amelia (a cura di), Storia della maternità, Roma-Bari, Laterza, 1997

V. Martinelli, ʻIl cinema muto italiano. 1917ʼ, Bianco e Nero, nn. 3 – 4, 1989.

E. Mosconi, Lacrime silenziose. Scorci familiari nel mélo popolare del cinema muto, ʻQuaderni del CSCIʼ, n. 9, 2013.

V. A. Sironi, ʻMedicina al femminile: la salute della donna nei secoliʼ, relazione presentata al convegno Donna e salute: interesse pluridisciplinare e pensiero transculturale, Milano, 15 marzo 2003, ˂http://www.formazione.eu.com/_documents/cagranda/articoli/2008/0109.pdf˃ [ultimo accesso 19 agosto 2018].