10.2. Francesca Bertini e il falso mito della donna fatale

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  • [Smarginature] Pelle e pellicola. I corpi delle donne nel cinema italiano →

 

Nel silenzio tace il suono, non la parola.

Adriana Cavarero

 

La fidanzata, in quanto donna, si è definita mediante il suo corpo.

Tahar Labib Djedidi

 

 

1. Corpi muti, corpi eloquenti

Divina, fatalissima, sirena, vamp, ninfa, mantide, musa, regina; le attrici del cinema muto hanno avuto moltissimi appellativi, non sempre gratificanti, spesso sessisti, basati su stereotipi etici ed estetici. L’idea romantica della donna e la narrativa di fine Ottocento hanno inoltre contribuito a fissare un modello femminile imperniato su cliché maschilisti. Un modello di donna vista più che ascoltata, il cui prototipo sono le modelle nello studio dei pittori e le ballerine: corpi privi di parola che esistono per piacere e compiacere. Vittime di quei disequilibri che privano le donne di qualsiasi potere: oggetti, prima ancora che corpi, in balia di padri, fratelli e mariti. Di cosa ci parlano questi corpi che dalle balere, dai teatri e dalle tele dei pittori passano, silenziosamente, sugli schermi dei cinema?

«La Bertini impone ancor oggi l’ammirazione e il rispetto, perché – caso tutt’altro che frequente – fu attrice intensa e moderna, e non soltanto femmina fatale». Con queste parole Castello, nel 1957, sancisce un’idea già consolidata nell’immaginario popolare: quella della donna disinibita, capace di ammaliare, ma anche artefice di un modello femminile nuovo, in cui si intrecciano professionalità e fascino.

La donna come costrutto culturale e sociale è il risultato di un immaginario prevalentemente maschile: «La lingua materna in cui abbiamo imparato a parlare e a pensare è in effetti la lingua del padre, la donna non ha un linguaggio suo ma piuttosto utilizza il linguaggio dell’altro» (Cavarero 1987). Le dive del muto interpretano certi cliché e li trasmettono al pubblico; fissano con i loro corpi eloquenti i modelli preconcetti del femminile: la vamp, la spregiudicata, la vittima, la musa, la tentatrice e la ninfetta o la sedotta e abbandonata. Buone o cattive, queste figure femminili sono tutte «vittime di se stesse, della loro natura passionale che le spinge a perseguire il fantasma erotico di un impossibile sogno d’amore» (Cardone 2012) [fig. 1].

 

2. Il corpo piuttosto che il pensiero

Ormai lontana dall’epoca d’oro del cinema muto, nel 1961 per il programma televisivo Tempo che fu Bertini rispolvera le pose da donna fatale: mani, piedi, camminata contribuiscono alla messa in atto di una performance efficace e facilmente leggibile. Qualche anno più tardi, nel 1969, uscirà la sua autobiografia, Il resto non conta, una sorta di racconto romanzato che mescola aneddoti e ricordi, con lo stile di una sceneggiatura d’epoca muta. Nello stesso periodo, il regista di b-movie Sergio Pastore la scrittura per il film Una ragazza di Praga, pellicola mai distribuita in prima visione ma di cui esiste un filmato promozionale negli archivi dell’Istituto Luce.

La seduzione è uno dei pochi territori in cui alla donna viene dato un ruolo attivo e all’uomo uno passivo: la donna come testo e proiezione dei desideri maschili (De Lauretis 1984) diventa soggetto culturale incarnato dalle donne stesse. Le attrici del muto agiscono queste istanze con le pose, gli abiti, gli sguardi che paiono rivolti a ciascun spettatore, le mani spesso protese verso un fuori campo in grado di comprendere tutti. Priva com’è di un linguaggio proprio, la donna si lascia trasportare dall’altrui pensiero, come «corpo muto portato al mercato» (Cavarero 1987); al contempo però vive emozioni e desideri propri, bisogni narcisistici che non sempre reprime. Bertini è artefice della propria immagine divistica, e la sua storia è una continua mediazione tra i luoghi comuni e l’autorappresentazione [figg. 2-3].

 

3. Specchiarsi e fumare

In Una ragazza di Praga Bertini interpreta un’ex attrice che aiuta una giovane donna. Due figure femminili accostate attraverso il montaggio e il commento parlato: «Se Francesca Bertini rappresenta il passato – afferma il commentatore – Jeannette Len rappresenta invece il presente». La visibile distanza anagrafica è sottolineata anche dalle loro posture: Bertini è ripresa a «specchiarsi e fumare come allora», Len è sinuosamente sdraiata sul letto. Entrambe devono apparire frivole e superficiali.

Se, come ha evidenziato Jandelli (2006), l’immagine di sé che Bertini ha sempre voluto trasmettere è quella di «una vita principesca, incontri degni di un capo di stato, film memorabili, grandi successi», non c’è modo migliore per autorappresentarsi di quello di mettersi in posa, di atteggiarsi secondo quei canoni che la resero diva: salire e scendere le scale con eleganza, appoggiare delicatamente una mano, fumare tenendo la sigaretta fra due dita, mettersi di profilo, specchiarsi.

«Datemi uno specchio!» grida Assunta Spina dopo essere stata sfregiata dal fidanzato. Ma quando si specchia e si vede ferita alla guancia non condanna l’aggressore, anzi tenta di farlo assolvere con una falsa testimonianza. Avviene una trasformazione della realtà i cui risvolti sono ancora oggi tragicamente riscontrabili nelle storie di femminicidio che la cronaca ci narra: la vittima assolve il proprio carnefice non solo negando la violenza subita, ma assimilandola come parte integrante del proprio corpo. Guardandosi allo specchio, Assunta accetta la cicatrice come una nuova rappresentazione di sé; il gesto violento ha scalfito l’identità della donna, che da soggetto agente è diventato agito: «Il genere si realizza, diviene realtà concreta quando la rappresentazione diviene autorappresentazione, ossia viene assunta dal soggetto quale componente della propria identità» (De Lauretis 1999). Assunta Spina (1915) vista con gli occhi di oggi è una storia di stalking e di violenza di genere. La personaggia interpretata da Bertini è una donna incapace di difendersi dal predominio che i maschi esercitano su di lei. La trama racconta di un ex pretendente che la perseguita, e che con la menzogna scatena l’ira del fidanzato geloso, Michele, il quale per ripicca la sfregia. Dopo avere scontato parte della pena, Michele uccide l’uomo a cui nel frattempo lei si è legata. Ma anche quest’ultimo, Federigo, non è che un carnefice che ha trascinato Assunta in una relazione sconveniente sulla base di un accordo in cui la posta è il corpo stesso della ragazza. L’unico uomo che non la domina è suo padre, tuttavia anche lui è complice della rovina della figlia dato che la lascia andare a Napoli al seguito di un uomo iracondo. Inoltre Assunta non è sposata, il che la rende socialmente vulnerabile, un corpo che non conta, nell’accezione data da Judith Butler.

Nella maggioranza dei film interpretati da Bertini, la donna è sminuita e stereotipata. In Diana l’affascinatrice (1915) è una spia in azione, ma la sua missione pare soprattutto quella di essere una femme fatale. Sta sempre con il corpo in torsione e seduce la sua ʻvittimaʼ con lo sguardo: la copre, la travolge, la sovrasta. Fuma moltissimo, per sottolineare il suo essere nervosa e capricciosa, e anche se è una donna attiva perde di vista il suo incarico e si innamora della sua preda [figg. 4-5].

 

4. Statua e donna

Il processo Clémenceau (1917) si presta a un’analisi critica degli stereotipi di genere. Iniziando con il punto di vista del protagonista maschile, che racconta le sue memorie dal carcere, il film indirizza subito verso un giudizio negativo sulla donna. Francesca Bertini interpreta Iza, una giovane polacca, ricca ma diseredata da un padre autoritario e manipolata da una zia avida. Pierre Clémenceau è un giovane di umili origini che si realizza come scultore di talento. Le due figure sono da subito contrapposte: una donna corrotta incontra, seduce e porta alla rovina un uomo nato puro. Molte le inquadrature che lo ritraggono con la madre, tipica figura femminile dimessa ma dotata di infinita bontà. Gli altri tipi femminili sono negativizzati: le ʻallegre modelleʼ che popolano lo studio di Pierre e che lui neppure nota, la zia cattiva, e infine Iza, di cui si innamora a prima vista: «Da quel momento in poi la mia vita fu schiava della sua». Tutte le didascalie mirano a colpevolizzare la donna e a descrivere l’uomo come una vittima. All’inizio Iza è ancora ragazzina, vestita alla marinara, ma nonostante l’abito neutro si muove con pose civettuole, non sta composta, si protende con una esagerazione che rasenta la volgarità. Tuttavia Pierre è talmente coinvolto che non vede davvero la ragazza, ma un proprio fantasma erotico. Iza appare smodata, volubile, non conforme, si presenta in camicia da notte, fuma e si specchia continuamente. È conturbante perché simbolo di un’adolescenza irrequieta che scavalca i limiti della morale. Secondo il pensiero dominante, la seduzione è come un incantesimo che la donna esercita sull’uomo. Inoltre, Iza ambisce alla ricchezza e perciò cede alla proposta di un altro pretendente, il principe Sergio, che la conquista con denaro e gioielli straordinari. Si tratta di un film moralista anche nelle didascalie e con una fitta stratificazione di stereotipi: di genere, geografici, culturali. Iza e la zia sono donne pericolose, strane, superstiziose e inaffidabili anche perché straniere.

Nella seconda parte Pierre e Iza, ormai donna, si ricongiungono e danno alla luce un figlio, ma esplodono ulteriori cliché. Tanto lei è capricciosa e volubile quanto Pierre è paziente e razionale; in cambio Iza ispira la sua arte, è per lui contemporaneamente «statua e donna», il sogno di ogni uomo. Ma se la narrazione la dipinge in negativo, la recitazione di Bertini lascia intravvedere margini di redenzione. Nelle scene con il figlio, per esempio, è sinceramente affettuosa, così come nel finale, quando prova a riconciliarsi con Pierre dichiarando il suo amore.

Ciò nonostante lui la uccide a sangue freddo, come se fosse ineluttabile. Pierre agisce secondo un modello rigido: si innamora e si appaga della donna come di un accessorio o, appunto, di una statua; ma quando scopre che Iza lo tradisce, frantuma l’oggetto/donna. Il suo ego non gli consente di sopportare la scoperta di non essere unico, né di mettersi in discussione: così come ha distrutto il busto, ne uccide il corpo senza sensi di colpa.

 

5. Influencer

La diva è «ontologicamente attiva» (Pravadelli 2014), mix di dinamismo e bellezza, si batte per i più deboli, lavora instancabilmente, è sempre pronta per esporsi al pubblico, con il quale comunica attraverso la propria immagine stampata su centinaia di cartoline che la ritraggono in pose eleganti. Fotografie che concorrono ad affermare i cliché del femminile, e che fanno di attrici come Bertini delle vere e proprie influencer molti anni prima dell’avvento di Instagram.

Tra la metà degli anni Dieci e i primi anni Venti, Bertini è la più fotografata del cinema italiano. Si aggiudica il maggior numero di copertine, è seguita dalla cronaca cinematografica ed è protagonista di un centinaio di pellicole. Ogni suo vestito e ogni sua acconciatura sono oggetto di ammirazione e vengono imitati in ogni strato sociale.

Il matrimonio è per lei, come per altre attrici, una sorta di punto di arrivo ma anche di fine carriera. Bertini lascia il cinematografo quando è ancora all’apice del successo e quando, forse, avrebbe potuto lavorare negli Stati Uniti, per sposarsi con un uomo ricco. L’attrice non ha mai confessato ripensamenti, anzi di fronte alle telecamere negli anni Sessanta sostiene, un po’ sorniona: «Mi sono sposata improvvisamente e mio marito non ha voluto che io tornassi al cinematografo. A quell’epoca le mogli non si facevano lavorare». Anche in tarda età la diva è abile nell’aderire al cliché con eleganza, inserendolo nel suo discorso come qualcosa di ovvio. Ma la verità non è un cliché, e spesso non è neppure tanto elegante. Nel rileggere i pochi documenti che, al di là della sua autobiografia romanzesca, testimoniano degli anni successivi all’uscita di scena, emerge un profilo tutt’altro che spensierato. L’archivio del Museo Nazionale del cinema di Torino conserva una lettera che l’attrice scrisse nel 1935-36 ad Alberto Fassini, direttore della Cines, in cui gli chiede di aiutarla ad avere una parte, nonché un prestito in denaro. Tono, stile e contenuto della lettera ci restituiscono un profilo molto diverso da quello della diva forte e padrona della propria esistenza. Bertini confida a Fassini di avere passato un periodo difficile, parla di noie e di privazioni, ma si definisce anche «ancora bella ancora giovane», e poi scrive in francese: «J’ai un enfant que j’adore et bien, je dois refaire ma vie!». Da questa lettera emerge una donna sola, che si mantiene grazie ai prestiti e agli aiuti degli amici, che spera ancora di tornare al cinema e che resta nostalgicamente legata alla gloria passata, ai suoi sedici anni che cita come un’età dell’oro, ma dietro ai quali forse si cela anche qualche trauma. Chissà cosa avrebbero avuto da dire queste attrici se si fossero potute trovare nel pieno del movimento del #MeToo.

Si intrecciano qui questioni talmente complesse che diviene impossibile dipanarle mantenendo il filo del discorso. Da un lato c’è la grande attrice come soggetto, catalizzatore dei desideri popolari; dall’altro ci sono le donne che dietro la maschera da diva mantengono sentimenti di cui nulla sappiamo.

Fedele ai copioni recitati, Bertini si definisce una creazione di Fassini (gli scrive: «Un’opera ch’è tua non può morire così»). Era vicina l’epoca dei racconti incentrati su creature-simulacro: dalla donna androide in Eva futura (1886) di Villiers, alla bambola che prende vita in Coppelia (1870). Gli stessi topoi narrativi incarnati dalle dive (l’angelo del focolare, la donna fatale, la bella misteriosa, l’assatanata, etc.) a ben vedere sono costrutti assai vincolanti per l’immaginario femminile.

Eppure se analizziamo attentamente la recitazione di Bertini, se confrontiamo le battute che le didascalie le attribuiscono con i suoi gesti, ci accorgiamo che sovente vi è uno scostamento fra i pensieri e i comportamenti che vengono attribuiti alle sue personagge e quel che traspare dal suo agire sulla scena. Spesso definita cattiva, come in La Serpe, in realtà è isterica, sensibile, fragile, insomma si muove in un orizzonte di complessità che richiede strumenti analitici diversi da quelli dell’analisi testuale.

 

6. Le folle non hanno mai cattivo gusto, ma…

Una recensione francese del 1916 (citata in Brunetta 1998) esalta, forse involontariamente, un aspetto inconsueto della figura di Bertini: «È strana, è unica e si può dire che se qualcuno la eguaglierà un giorno, nella molteplicità delle sue metamorfosi, sembra impossibile che potrà superarla». In quella stranezza, e nella molteplicità delle metamorfosi, è racchiusa una possibile intuizione.

Il primo ruolo cinematografico di Bertini, quello che la lancia, è un Pierrot. In Histoire d’un Pierrot (1914), con connotazioni palesemente queer, interpreta il ruolo fiabesco e malinconico del personaggio innamorato della luna e di una ragazza [fig. 6]. Nella sequenza finale, grazie alla sua recitazione immersiva, Bertini prende le mani di Leda Gys e, traendola a sé, la bacia con tenerezza. Tutto è concesso sulla scena, ma questo ruolo esula così prepotentemente da ciò che significa diva, da funzionare come indizio di un possibile ribaltamento. All’inizio di Il processo Clemenceau, la figura di Iza è neutra, porta i pantaloni e non ha nulla di femminile a parte i lunghi capelli mossi; si muove sgraziatamente, è impulsiva, smodata, rozza persino. Di chi si innamora dunque lo scultore interpretato da Gustavo Serena? Di una ʻmaschiacciaʼ, di una ragazzina esuberante e acerba. Nel 1916 Louis Delluc scriveva: «Le folle non hanno mai cattivo gusto. Francesca Bertini è bella da vedere e possiede una forza selvaggia, infantile, che aggiunge uno charme necessario alla sua bellezza». Tralasciando la malizia che queste parole potrebbero celare, è vero che quando raggiunge l’apice del successo è una giovane donna di ventiquattro anni; ha talento ma anche un’indole spontanea e un’energia che la pellicola lascia solo intravvedere, tanto che viene da chiedersi come avrebbe potuto essere la vera Bertini senza la parabola del divismo [figg. 7-8].

In questo quadro così complesso, dove le dive sono donne nate dai cervelli di uomini bramosi e spesso misogini, e in cui le donne accettano destini tristi o nefasti per la sola colpa di avere cercato di emanciparsi, non ci restano che i corpi. Corpi che tuttavia sono solo ombre: proiezioni di un immaginario che ancora in qualche misura ci influenza e che solo comprendendo possiamo a poco a poco smantellare e riportare a una nudità primitiva in cui, come in una sorta di territorio naturista, ognuno è libero di essere com’è.

 

 

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