La configurazione della propria soggettività e la parallela costruzione di una comunità attraverso la condivisione online di aspetti della propria esperienza personale è un processo di grande complessità. Ma è esattamente il riconoscimento di un racconto quotidiano condiviso a produrre reti di relazioni digitali, nel caso di alcune delle comunità che gravitano attorno a YouTube ed altre piattaforme di scambi sociali. Attraverso la tessitura di legami digitali che affrontano la narrazione e la produzione del sé, le/i giovani propongono dei modelli esperienziali (Villa 2013), in cui coloro che fruiscono dei video possono riconoscere alcuni momenti salienti della loro quotidianità, senza che questo li caratterizzi in modo esclusivo. È piuttosto la diffusione di queste esperienze e la loro rifrazione in un consumo mediale comune a determinare la costruzione della comunità online, caratterizzata dall’elasticità e dalla permeabilità delle condizioni: essere al di qua o al di là dello schermo è dovuto a una contingenza, e non a un posizionamento fisso del soggetto.
1. Coabitare digitale
Lo scenario da cui parlano gli youtuber è spesso uno spazio privato e domestico: la cameretta, quasi sempre, oppure soggiorni e tinelli di case delle classi più popolari. Il privilegiare questi luoghi ovviamente non è casuale: da un lato c’è l’idea piuttosto evidente di condividere un’intimità; dall’altro diviene una ʻletteralizzazioneʼ del concetto di ʻco-abitareʼ, di condividere un ambiente, che sta alla base dell’atto stesso di ʻfare comunitàʼ. A fronte di distanze anche globali, si crea l’impressione di essere invitati nello spazio domestico delle persone coinvolte.
Come scrive Sara Ahmed (2006, p. 119), essere parte di una collettività ha a che fare con la condivisione di una serie di confini, che delimitano coloro che sono incluse o escluse dallo spazio comune. L’appartenenza implica appunto una co-abitazione in tale spazio, reale o metaforica, e al tempo stesso un allineamento delle proprie esperienze. In altre parole, si deve essere metaforicamente orientati/e in una stessa direzione, condividere il modo di guardare alle cose, il tipo di priorità, la scala di valori. Si tratta di abitare spazi ritenuti familiari, ovvero che non vengono notati perché simili a quelli abitati quotidianamente dalla comunità a cui i video si rivolgono.
Le comunità che si creano attorno alle giovani donne non sono soltanto online in senso mediale, ma soprattutto sono ʻallineateʼ in uno stesso orizzonte di esperienza e di riflessione sulla propria configurazione soggettiva. Con il suo primo piano largo, il video su YouTube diviene uno specchio con cui confrontarsi, ma anche attraverso cui orientare il proprio sguardo e il proprio immaginario. Il volto diviene strumento privilegiato di tale orientamento: nel muovere i nostri occhi sul volto di un’altra persona, diamo senso al suo posizionarsi rispetto a noi, comprendiamo il significato dei suoi messaggi e delle sue parole attraverso l’ʻappelloʼ che questo volto ci rivolge (Ahmed 2006, p. 171).
Ma «Internet è uno spazio relazionale ambivalente, si configura al tempo stesso come strumento per la sperimentazione di identità e di relazioni, e come un luogo di controllo e normalizzazione» (Cossutta et al. 2018, p. 17). Lo stato con-fusionale fra privato e pubblico innescato dalla videonarrazione del sé racchiude sia la spinta verso un posizionamento marginale consapevole, che il tentativo di essere incluse nel mainstream, inteso letteralmente come flusso principale di una soggettività digitale.
2. Generi e norme
In questo spazio permeabile, di mediazione, le narrazioni vengono negoziate tenendo conto anche delle intensità affettive innescate dalla dinamica relazionale; e le collettività che ne scaturiscono gravitano attorno alle attività e alle appartenenze culturali più disparate, così che le persone che vi si raccontano coprono numerosi ʻgeneriʼ: dopo i video che riguardano il gaming e quelli sulle industrie dell’intrattenimento mainstream, quelli di auto-narrazione nelle loro tante accezioni sono la tipologia più popolare su YouTube (Ault 2016).
Sono soprattutto le giovani donne a raccontarsi online, costruendo una narrativa popolare fatta di frammenti, consigli, pubblicità ma anche momenti di grande intensità e intimità; ma sono sempre loro a ricevere le critiche più feroci da parte degli utenti (Szostak 2014). Con estrema frequenza queste critiche riguardano proprio i corpi delle vlogger, e prendono di mira tutti quegli elementi non conformi all’estetica dominante; tali ʻdifettiʼ infatti renderebbero le donne inadeguate ad esporre la propria fisicità per il pubblico. In altre parole, la presenza di corpi identificati come femminili sul palcoscenico digitale produce facilmente forme di aggressività, a cui le giovani donne coinvolte si trovano a controbattere, contribuendo in modo più o meno consapevole e volontario al discorso pubblico su media, tecnologia, configurazione delle comunità, posizionamento dei corpi e performance soggettive.
È infatti in questa dialettica che si ritrova messa in scena la continua negoziazione coi micropoteri quotidiani, necessaria per la produzione di soggettività nel contesto neoliberista. Il nostro quotidiano incorporare la norma, dandole forma, viene raccontato esplicitamente da queste giovani, che ʻperformanoʼ sia la loro rabbia di fronte all’insulto che la vergogna che quell’insulto comunque innesca.
3. Le parole, il volto, il corpo: il caso di Clio
Uno dei casi più eclatanti e interessanti è quello che ha riguardato Clio Zammatteo, il cui canale YouTube ʻClioMakeUpʼ ha un enorme successo nel panorama italiano: dal 4 settembre 2008, data del primo video, ha raggiunto oltre 1 milione di iscritti su quella piattaforma, oltre 2 milioni di followers su Instagram e oltre 2,4 milioni di persone a seguire la pagina Facebook ufficiale. La community che negli ultimi dieci anni si è raccolta attorno a Clio e alle sue narrazioni digitali sul make-up è dunque vastissima e variegata, accogliente senza essere neutrale. La personalizzazione imprenditoriale legata a Clio ha fatto sì che il suo corpo e il suo viso divenissero molto famosi nel panorama italiano, riconoscibili e discussi [fig. 1].
Così, il 31 gennaio 2015, durante la diretta del programma di Radio2 Non è un paese per giovani, il conduttore e regista Giovanni Veronesi ha pensato di poter ʻscherzareʼ dicendo «ah, ClioMakeUp, non sapevo neanche chi era se non me lo spiegavano adesso, è una cicciona che fa […]», insulto su cui viene immediatamente interrotto dal co-conduttore Massimo Cervelli. La ʻbattutaʼ, in un programma che dovrebbe discutere i motivi per cui i giovani in Italia non hanno opportunità di mettere in pratica il loro valore, rivolta proprio a una di queste persone che è riuscita invece ad ottenere un certo successo nell’industria dell’intrattenimento, è particolarmente significativa. Non è necessaria una raffinata analisi per vedere la normatività del regime patriarcale e la violenza contro l’autonomia di una donna trasparire dalla semplicità con cui si associa a una figura come Clio l’epiteto ʻciccionaʼ, come fosse l’unico modo in cui possa essere definita.
Come sottolineato dai Fat Studies, l’essere persone grasse sembra essere una definizione auto-evidente, ed è associata automaticamente ad una serie di caratteristiche che è difficilissimo decostruire, anche perché il corpo grasso è stato spesso messo in scena come superficie che codifica e significa una psiche non-normata. Il corpo grasso, in altre parole, è un sintomo (Braziel, LeBesco 2001, pp. 2-3). Perciò, a quarant’anni dalla prima sistematica decostruzione femminista di questa prospettiva (Orbach 1978), è ancora facile usare ʻcicciona/eʼ come espressione giocosa, che nondimeno colloca la persona coinvolta in una prigione discorsiva molto rigida.
In interventi passati, Clio aveva accennato alle sue difficoltà con l’immagine corporea, spesso adeguandosi allo snodo di automatismi per cui viene data per scontata l’associazione fra magrezza e felicità; così come non aveva messo in discussione la definizione normata culturalmente e prodotta discorsivamente di ʻcorpo grassoʼ. Al contrario, aveva risposto alla lunga catena significante che questo specifico insulto porta con sé, che include la pigrizia, l’incapacità di provare autostima, l’autolesionismo, la mancanza di autocontrollo, l’ingordigia, l’immobilismo, etc.
4. #forseciccionamasicuramentenonstronza
La vlogger risponde subito a Veronesi con un post su Facebook, in cui sottolinea l’inappropriatezza del collocare il corpo di una donna di successo al centro di una rete discorsiva che la riduce alla sua non-conformità rispetto alla norma estetica dominante. La sintesi della ricerca di un modello esperienziale e soggettivo smarcato da tale norma avviene attraverso l’icastico hashtag «forse cicciona ma sicuramente non stronza». Ma questa non sarà l’ultima volta che Clio parlerà del suo modo di affrontare il rapporto fra bellezza, peso, salute e felicità, cercando di venire a capo di uno snodo discorsivo della rappresentazione della propria soggettività, che è anche punto di identificazione con migliaia di persone all’interno della sua community. Nel luglio 2016 [fig. 2] e nel luglio 2018 [fig. 3] posterà su Instagram delle sue foto in bikini; nel primo caso, l’immagine è accompagnata da una didascalia che recita fra l’altro «Il mio fisico sarà sempre così... Non ha senso odiarlo! Ci sarà SEMPRE chi ci dirà che siamo troppo grasse, troppo magre, senza tette o piene di cellulite... Quindi freghiamocene e questa estate NIENTE RINUNCE! Usciamo e divertiamoci!!». I post hanno innescato un ampio dibattito online su molteplici piattaforme, perché dicono pubblicamente che non tutti i corpi sono fatti allo stesso modo, e che non è sufficiente aderire a un regime comportamentale per produrre un corpo conforme alle regole. Le diete dimagranti e altre forme di manipolazione del fisico vengono dichiarate per essere parte di una produzione discorsiva sulla soggettività, simile ai discorsi sulla sessualità individuati da Foucault (1976) come irreggimentazione del soggetto novecentesco all’interno di un pensiero dominante, ma che non sono neppure efficaci nel produrre le loro conseguenze materiali. La disciplina alimentare a cui il corpo è sottoposto è strumento di sorveglianza culturale, parte del regime medico di controllo che è espressione del patriarcato (Wolf 1990). I discorsi pubblici innescati dalle immagini di Clio divengono, forse sorprendentemente, un punto di negoziazione e resistenza contro gli automatismi che permettono alle attività disciplinari di espletare le loro funzioni di normalizzazione e contenimento. Questo non vuol dire che Clio Zammatteo possa essere identificata come guerrigliera femminista; il suo discorso di ribellione infatti viene subito ricondotto alla ʻragione comuneʼ nel momento in cui è costretta a puntualizzare ulteriormente la sua posizione attraverso dei video (nel 2016 su YouTube, nel 2018 nelle più volatili stories di Instagram [figg. 4-5]. In entrambi i casi Clio appare in tenuta sportiva, senza trucco e con i capelli tirati all’indietro, appena tornata da una sessione di esercizio fisico. L’attività sportiva è raccontata come strumento per migliorare la sua vita, evidenziando come l’atto stesso di combattere la propria fisicità e modellarla divenga dichiarazione di appartenenza ai principi del neoliberismo, secondo cui ciascun/a individua/o è responsabile di plasmare ogni aspetto della propria esistenza in modo completamente volontaristico. Dall’altro lato, non smette di affermare una irriducibilità del soggetto rispetto ai principi della trasformazione stessa, per cui non è mai possibile corrispondere all’immagine normata dominante, e pertanto si ribella a coloro che riducono la sua complessità e il tessuto della sua vita alla misurazione ossessiva del suo corpo.
L’articolazione e la durata dei discorsi pubblici con cui Clio configura la sua persona sono dunque un punto di negoziazione di grande impatto nell’immaginario collettivo, e permettono l’emergere di una riflessione sicuramente contraddittoria ma costante sull’ossessione per la disciplina del corpo, alcune delle dinamiche di potere sottese al contenimento e al controllo dei corpi grassi – soprattutto riconosciuti come femminili – e la ricerca di un equilibrio nella costruzione di una soggettività che sia espressione e prodotto di agency individuale, tanto quanto di una rete sociale.
Bibliografia
S. Ahmed, Queer Phenomenology: Orientations, Objects, Others, Durham, Duke University Press, 2006.
S. Ault, ʻYouTube's Top Genresʼ, Variety, 330:29, 2016.
J.E. Braziel, K. LeBesco, Bodies Out of Bounds: Fatness and Transgression, Berkeley, University of California Press, 2001.
C. Cossutta, V. Grec, A. Mainardi, S. Voli, (2018), ʻDove i margini non sono confiniʼ, in Ead. (a cura di) Smagliature digitali. Corpi, generi e tecnologie, Milano, Agenzia X, 2018.
M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1. Milano, Feltrinelli, ed. italiana: 1978.
S. Orbach, Fat is a Feminist Issue, London, Arrow, 1978. Ed. rivista: 2016.
N. Szostak, ʻGirls on YouTube: Gender Politics and the Potential for a Public Sphereʼ, McMaster Journal of Communication, 10, 2014.
F. Villa, numero in Ead. (a cura di), Vite impersonali. Autoritrattistica e medialità, Cosenza, Luigi Pellegrini Editore, 2013.
N. Wolf, The Beauty Myth, New York, Random House, 1991. Ed. rivista: 2015.
Post di Clio Zammatteo citati (ultimo accesso 28/9/2018):
https://www.facebook.com/cliomakeup/videos/10152760897846051/
https://www.facebook.com/cliomakeup/photos/a.365032781050/10153893930416051/?type=3&theater
https://www.youtube.com/watch?v=SCuL1l1b-88&t=466s
https://www.instagram.com/p/BlVdoRQAprZ/?taken-by=cliomakeup_official