5.6. (Under)represented cinema, video, stillness and moving image heritages. The visual media works of Mònica Saviròn and Radha May

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When, with the Trauerspiel, history wanders onto the scene, it does so as script.

History’ stands written on nature's countenance in the sign-script of transience.

The allegorical physiognomy of natural history,

which is brought onstage in the Trauerspiel, is actually present as ruin.

In the ruin, history has merged sensuously with the setting. And so configured,

history finds expression not as a process of eternal life, but rather

as one of unstoppable decline. Allegory thereby proclaims itself beyond

beauty. Allegories are, in the realm of thought, what ruins are in therealm of things.

Walter Benjamin*

Nella cornice di studi sui lavori tra cinema, video e/o le immagini statiche e in movimento (Cubitt 1993; Bellour 2007) in forme sperimentali (Dixon 2011; Hatfield 2015), espanse (Federici 2013, 2017) o exhibited (Erika Balsom 2013) ‒ che illuminano le diverse pratiche storiche, tecnologiche e artistiche che li investono mettendoli al centro delle proprie azioni ‒ si inserisce una corrente di attività, istituzioni, forme e artist* che fra ricerca, teoria e pratica provano a scavare la loro (im)materialità per confrontarvisi in modo collettivo e critico in dialogo con il sistema mediale coevo tecnico, sociale e culturale (Bennett et al. 2008; Alberea e Tortajada 2010; Assolin 2008; Vernallis et al. 2013; Ashford 2014; Sutton 2015; Stewart 2020) estrapolandone nuovo valore per il futuro prossimo. Questa tendenza si è manifestata con vigore in artiste vicine a una sensibilità femminista che sperimentano le relazioni materiali tra media, storia, ambienti e società (Blaetz 2007; Mondloch 2018).

Alcune di queste figure incrociano il lavoro artistico a una prolifica attività, oltre che curatoriale, anche di scrittura giornalistica, accademica e comunicazione mediatica (televisione, radio e web). Si tratta di un connubio, come nel caso di Mónica Savirón, che può dare indicazioni utili sulle scelte produttive, la trasversalità del circuito e i temi sviluppati dai network costruiti.

Experimental film maker e avant-garde & artist’s cinema ibero-americana, come si definisce, ha lavorato un po’ in tutte le vesti presso festival, spazi di archiviazione e musealizzazione e vari media. Esperienze che le consentono di contribuire in maniera organica al recupero di «under-represented film and video art legacies».

La formula ha una molteplice valenza. Il termine legacies (OED 2020), infatti, a differenza di inheritance, heritage o patrimony (Balsom 2013, pp. 34-37) sposta l’attenzione sul riconoscimento pragmatico di un’eredità passata, tangibile o intangibile, mantenuta viva o ancora in attività. L’attenzione dell’artista infatti è rivolta non solo al patrimonio visuale storico, mediale e artistico ‒ legato a «oppressed and suppressed histories» ‒ ma anche alla salvaguardia del percorso e delle opere di artist* anche recenti. Si tratta soprattutto di soggettività considerate minori o ai margini per questioni strutturali, di genere e/o etniche.

La formula under-represented, invece, può delineare l’invisibilità sistemica ma anche un’applicazione metodologica e creativa sul sostrato materiale, apparentemente non visibile (Grønstad e Vågnes2019), delle rappresentazioni in cui e con cui le opere si muovono. È un approccio che motiva, nei film dell’artista, un adattamento dei motivi e degli oggetti trattati sotto forma di «visual translations», procedimento con cui Mónica Savirón lavora sulla (ri)significazione degli elementi costruttivi, legati ai supporti, linguistici e compositivi recuperando come accade spesso in ambito sperimentale l’eredità avanguardistica (Sanchez-Biosca 1996).

Broken Tongue (2014), per esempio, realizza in 16 mm e poi in formato video digitale (HD) la ripresa e il montaggio di immagini raccolte dal New York Times dal 1851 al 2013. In bianco e nero, spesso invertite tra positivo e negativo, si susseguono incorniciate all’interno di un cerchio sull’audio della performance di sound poetry Afrika di Tracie Morris. Il loro susseguirsi sulla traccia sonora contribuisce al messaggio finale attraverso ripetizioni, transizioni associative, interruzioni nere o bianche e il movimento dato soprattutto dalla grana, gli effetti di rumore o i segni dei processi fisici.

[There is] the idea of film as something that speaks to us in its own materiality. For me Broken Tongue is a dialogue of contrasting voices: analog and digital; organic and distorted; slow and dynamic; broken and unity; and past and future. These three minutes of film touch many aspects of history and linguistics, including cinematic language. The images are seen through a circle […] a kind of peephole that emphasizes what is left outside (Brooks and Hunter 2014)

Dunque, in maniera polifonica e poetica, Mónica Savirón si appropria delle «different temporalities and textures» (Brooks and Hunter 2014) per costruire a partire dalle immagini di colonizzazione, migrazione, progresso (americano) e dei media un’«ode to the freedom» che coinvolge universalmente tutte le forme di espressione e gli spettatori. È un esempio, forse, di «archeologia critica» (Almeida 2016) che fa delle immagini un oggetto stratificato ma anche uno veicolo di pensiero, anche non lineare.

Questa moltiplicazione di immagini, che si conclude con una spirale caleidoscopica di figure umane, è racchiusa a cornice: da un countdown introduttivo, fino all’immagine PICTURE [fig. 1], e una chiusa finale rivolta al lettore-spettatore con l’immagine YOU, come se fossero delle ékphrasis. È un esempio del modo in cui Mónica Savirón realizza, in prospettiva benjiaminiana, una ricerca sulla costruzione profonda e relazionale del senso attraverso il carattere delle forme materiali di inscription tecnica (Benjamin2008) più che l’«incision» per assemblamento di un collage (Satchell-Baeza 2013). L’artista infatti lavora performativamente ai vari processi che forniscono «images that cannot be fully ‘seen’» (Bittencourt 2016): spingendo cioè lo spettatore in maniera sensibile e riflessiva dalla superficie verso «how deeply» (Yue 2014) anche la tecnica «challenges the way werepresentour narrative», come scrive la stessa [fig. 2]. Lo stesso vale per altre due opere dell’artista.

Wedding Song (2016) segue sull’omonima canzone di Janel Leppinper voce e mellotron ‒ uno strumento al tempo stesso meccanico ed elettrico ‒ i «rough marks» (Broomer 2017) di fotografie amatoriali, frammenti che si presentano come rovine e scarti (Benjamin 2008), e la grana cromatica data dalle pellicole Eastman Plus-X Negative 16 mm (7231) processate manualmente senza interventi chimici. Come suggerisce il testo, la selezione e l’operazione sulle immagini, che ritraggono anche materiali ‘corrotti’ nel loro contenuto [fig. 3], è significativo continuare a pensare in quanti modi è possibile trovare una ‘destinazione’ (alle immagini) anche quando qualcosa appare ‘rotto’, difficile o invisibile continuando a ‘scrivere’ (produrre cioè una traccia).

È un po’ il senso anche di AnswerPrints (2016). Qui la materialità è resa visibile nell’irreversibile dissolvimento dei colori verso il magenta delle pellicole di «discarded film rushes and camera tests», proiettate e riprese in 16 mm, e dal ‘rumore’ delle stesse a livello visivo e sonoro nel passaggio da un taglio all’altro. Nel lavoro ricreativo queste distruzioni restano comunque dei «vectors» (Guimarães 2017) vitali, che testimoniano e ci fanno sentire la loro influenza e la forza delle relazioni che mediano [fig. 4]. È importante notare che in questa liberazione di «formal energy» (Sicinski 2016), come nelle opere precedenti, ricorrano immagini storiche, figure e corpi uniti significativamente proprio dal gesto che si lega al movimento tecnico, produttivo e ricettivo.

In modo simile, ma con altri approcci, si collocano i lavori del collettivo artistico Radha May formato da Elisa Giardina Papa (artista e ricercatrice di origini siciliane), Nupur Mathur (digital media artist e designer di New Delhi) e Bathsheba Okwenje (artista del Rwanda). Anche le sue opere agiscono su «forgotten and ridde histories» legate a materiali d’archivio. Dal 2015, in particolare, avvia un progetto a più tappe di ricerca transnazionale sulle condizioni sociali e culturali della censura incarnata nel tempo in materiali filmici, documentari e informatici che rivelano, soprattutto in periodi di trasformazione, idee, norme e dinamiche legate a questioni di genere, sessualità o alla definizione del visibile.

La prima tappa di When The Towel Drops Vol 1 | Italy, 2015, in particolare, è stata dedicata alle scene rimosse nei film dal dopoguerra agli anni Sessanta conservati dall’Archivio della Censura Cinematografica Italiana (Cineteca di Bologna). I risultati hanno fatto emergere un susseguirsi di scene di carattere erotico e figure provocanti in cui spesso sono gli uomini ad apparire costretti nel loro ruolo. Al di là delle immagini, però, sono le negoziazioni contenute nei documenti ‒ sistematizzati nei database dei progetti Italia Taglia e Censura Italia ‒ a definirne il carattere ‘eccessivo’ o ‘osceno’ soprattutto quando si riferiscono al senso del limite della vitalità umana e artistica: con per es. momenti di parto (di cui era stato rinvenuto anche un parallelo con dei delfini), donne ferine, corpi danzanti o esotici, amori omosessuali, incestuosi o orgiastici e un momento finale di amplesso femminile masturbatorio. Questa selezione e il lavoro successivo, in chiave etica e biopolitica, ricorda l’attenzione di Agamben in prospettiva archeologica a un cinema «ex-centric»: umano e non umano, invisibile, potenziale e temporalmente anacronistico (Harbord 2016).

La problematizzazione dei materiali archiviati come opere, forme d’espressione artistica, dispositivi discorsivi e processi performativi (Fossati 2018; Parikka 2019) si traduce per Radha May nel bisogno di riflettere sulla loro natura, trovando il modo di renderle «available to anybody», in relazione al contesto contemporaneo. Da qui la scelta di una forma di disseminazione ongoing tra spazi di esposizione, centri di ricerca, università, eventi, pubblicazioni e online che «distills the material into fictional and surreal scenarios that complicate assumptions about history, borders and cultural and social formations».

Un primo inserimento dei frammenti su Youtube porta alla segnalazione di alcuni utenti e all’oscuramento per i minori (Becker 2018), episodio che rafforza in Radha May il bisogno di far riflettere sul rapporto fra tecnologia e circolazione dei contenuti.

Le scene riprese in 35 mm, nel frattempo, sono state montate in un film. La pellicola montata, che porta i segni materiali visivi e sonori dei tagli, diventa nel 2015 la base di una film installation di carattere scultoreo (Elwes 2015). In questa occasione viene fatta scorrere attraverso un complesso sistema meccanizzato di rulli, disposti su più piani in uno spazio espositivo, fino a un meccanismo di retroproiezione legato a un piccolo schermo [fig. 5]. Dell’opera facevano parte anche i documenti pubblicati dal gruppo in un opuscolo, resi disponibili successivamente anche online insieme ad altri lavori scritti.

Anche per ragioni economiche, data la complessità dell’installazione, l’opera diventa un group show (Labour of Love, 2015) che realizza sotto forma di performance un WikiStorm. All’interno di una mostra collettiva, il pubblico viene invitato a confrontarsi con i materiali e a contribuire per rendere disponibili online le giustificazioni sulla censura attraverso la modifica delle voci dei film su Wikipedia [fig. 6]. La scelta muove dalla pratica delle FemTechNet che hanno evidenziato i bias autoriali, tematici e di ricerca sul mezzo (Ulrich e College 2013). Il bisogno di interrogare ciò che «lurks underneath the gesture of concealing and censorship» trova ulteriori metamorfosi nella comunicazione social (anche tramite GIF), in ambientazioni performative [fig. 7] e videoinstallazioni in loop (The following Scenes Will Be Deleted) [fig. 8] precedute o inframezzate da workshop, laboratori, reading e seminari con studenti, donne o con visitatori. Queste metamorfosi sono indicative del modo in cui l’espansione e l’esposizione possano comunque realizzarsi in forme ‘minimaliste’, anche attraverso l’uso delle luci come in questo caso mantenendo la capacità di sollecitazione estetica emotiva e cognitive (Elwes 2015, p. 191). Il progetto proseguirà nei prossimi anni con altre due tappe dedicate all’India dopo l’indipendenza del 1947 e al Sud Africa nel periodo dell’Apartheid.

I casi presi in esame suggeriscono un lavoro sperimentale di ricerca, teoria e pratica artistica sulla trasmissione del patrimonio visuale, nel senso etimologico di trans-mittere, attento cioè ai processi comunicativi che si realizzano fra materiale e immateriale contribuendo alla valorizzazione pratica della loro ri-presentazione, cioè della loro ‘rappresentazione’, in chiave ecologica mediale, ambientale e relazionale (Fuller 2005; Herzogenrath 2009).

* W. Benjamin, The Work of Art in the Age of Its Technological Reproducibility, and Other Writings on Media, a cura di M.W. Jennings et al., trad. it. di E. Jephcott et al., Cambridge-London, Harvard University Press, 2008. L’epigrafe ripresa dalla raccolta degli scritti di Benjamin inglese, tratta da Trauerspiel del 1928, sembra tradurre meglio rispetto all’edizione italiana il valore dell’inscrizione in sé con la formula del «passage», della «transience» al posto della «migrazione» e della «contingenza». Cfr. Benjamin, Walter. Opere complete. Scritti 1923-1927, v. II, Torino: Einaudi, p. 213: «Se nel dramma barocco la storia emigra sulla scena, essa lo fa come scrittura. Sul volto della natura sta scritta la parola «storia» nei caratteri della caducità. La fisionomia allegorica della storia natura, che il dramma barocco trasporta sulla scena, è realmente presente come rovina. Con essa, la storia si è ridotta materialmente al palcoscenico. E, beninteso, la storia così conformata non appare come il processo di una vita eterna, ma come il progredire di una inarrestabile decadenza. In questo modo l’allegoria si pone al di là della bellezza. Le allegorie sono nel regno del pensiero quel che sono le rovine nel regno delle cose». Per lo stesso motivo, in riferimento ai concetti di «inscription», «script-image» e «ruins» riproposti da Bejamin in più sedi (On Language as Such and on the Language of Man, 1916; One-Way Strett, 1928; Trauerspiel, 1928; Graphology Old and New, 1930) si rimanda alla raccolta inglese. Cfr. W. Benjamin, (2008). The Work of Art in the Age of Its Technological Reproducibility, pp. 167-192.

Bibliografia

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