L’isteria ha rappresentato, nella storia culturale della modernità, un sistema di normativizzazione dell’eccentricità del soggetto femminile. Entrato nel lessico della clinica attraverso il lavoro di Charcot a partire dagli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento, sin dalla sua ʻinvenzioneʼ (Didi Huberman 1982) è stato intrinsecamente associato allo sguardo maschile che impone un principio razionalizzante – più artificioso che non di mera descrizione sintomatica – al corpo femminile. Nonostante in seconda battuta Charcot abbia attribuito la sintomatologia isterica anche a soggetti maschili (Charcot, Richer 1887), il binomio isteria-femminilità resta inalterato all’interno della storia della modernità, anche e soprattutto quando l’isteria smette di esistere come categoria clinico-patologica e sopravvive esclusivamente come costruzione culturale. D’altronde, essa trova terreno fertile all’interno di quei paradigmi attraverso cui l’immaginario maschile aveva tematizzato e cristallizzato la posizione di subordinazione femminile all’interno del campo socio-culturale. Come ricordano Sandra Gilbert e Susan Gubart (1984) la donna, soprattutto a partire da metà Ottocento, viene rappresentata o come ʻangelo del focolareʼ o come ʻmostroʼ. Il duplice paradigma, trascendente da un lato e simil infernale dall’altro, testimonia come la figura femminile possa collocarsi al di sopra o al di sotto della sfera culturale, ma mai al suo interno. In particolare
the monster-woman, threatening to replace her angelic sister, embodies intransigent female autonomy and thus represents both the author’s power to allay “his” anxieties by calling their source bad names (which, bitch, fiend, monster) and, simultaneously, the mysterious power of the character who refuses to stay in her textually ordained “place” and thus generates a story that “gets away” from its author (Gilbert, Gubar 1984, p. 28).
L’isteria sembra fornire un corrispettivo al paradigma del mostro sia sul piano eziologico (trovare una spiegazione al comportamento femminile ʻdivergenteʼ) sia su quello iconografico: la monumentale opera documentaria che produsse la scuola di Charcot, ovvero i tomi dell’Iconographie photographique de la Sapêtrière (1875-1880), si accosta alle rappresentazioni grafiche che gli stessi Charcot e Richer forniscono all’interno dell’indagine Les démoniaques dans l’art (1887), il cui titolo è stato significativamente declinato al femminile nella traduzione italiana Le indemoniate nell’arte (1980). Qui, ad una prima parte dedicata a una ricognizione della rappresentazione della possessione demoniaca (che secondo Charcot altro non è che una forma di isteria) nella storia dell’arte occidentale dal V sec. d.C. al Settecento, ne segue una seconda in cui vengono ricapitolati i principali momenti del grande attacco isterico, corredata da disegni illustrativi che ritraggono quasi sempre un soggetto femminile. La più spettacolare fra tutte le fasi è il cosiddetto arc de cercle, arco di cerchio: «il malato è fortemente incurvato all’indietro, soltanto i piedi e il capo poggiano sul letto, e il ventre costituisce il vertice della curva. L’arco di cerchio varia a seconda che il soggetto, anziché sorreggersi sul dorso e sui piedi, poggi sui fianchi o soltanto su un punto del ventre. […] nelle donne predominano [gli atteggiamenti] di flessione» (Charcot, Richer 1887, pp. 121-123) [fig. 1].
A partire proprio dall’attenzione visuale mostrata da Charcot e Richer, Didi-Huberman, sulla scorta di Sigrid Schade (1995), opera un collegamento tra la clinica dell’isteria e le Pathosformeln warburghiane, riferendosi in particolare alle menadi danzanti che nel Bilderatlas di Aby Warburg occupano un posto di rilievo tra le formule di pathos dionisiaco. Ma la differenza sostanziale, per Didi-Huberman, consiste nella diversa qualità epistemologica dell’isteria di Charcot rispetto alla Pathosformel di Warburg. La prima sarebbe infatti «una categoria clinica riconducibile a un quadro regolare a un criterio nosologico ben definito» (Didi-Huberman 2002, p. 271), a tal punto che Charcot avrebbe di fatto ʻinventatoʼ l’isteria, forzando gli elementi sintomatici manifestati dalle pazienti: attraverso non solo gli atlanti fotografici, ma soprattutto le famose lezioni del martedì durante le quali Charcot mostrava agli allievi casi esemplari, l’isteria sarebbe stata più performata che non dimostrata, suggerendo e instillando nelle recluse quegli atteggiamenti che sarebbero andati a comporre il grande quadro icono-patologico dell’attacco isterico. La seconda invece è «una categoria critica che fa esplodere il quadro regolatore della storia stilistica e i criteri accademici dell’arte» (Didi-Huberman 2002, p. 271), attraverso la quale rinvenire le complesse corrispondenze asincroniche tra le forme dell’arte classica pagana, e le apparentemente incongrue sopravvivenze nell’arte cristiana rinascimentale. Una corrispondenza che si basa sulla compresenza, mutata di segno, di forze conflittuali in perenne tensione fra loro: così la Menade antica può sopravvivere nelle Maddalene rinascimentali perché in entrambe «lutto e desiderio sono mantenuti nel loro conflitto» (Didi-Huberman 2002, p. 276).
Ma se nella lettura di Didi-Huberman resta saldo un orizzonte sintomatico che cerca di legare la formula di pathos al Symptombildung freudiano, è possibile ipotizzare un’interpretazione in chiave esclusivamente formale e culturale della formula di pathos per eccellenza dell’isteria, l’arco di cerchio, e immaginarne una possibile sopravvivenza nella contemporaneità? Ciò significherebbe privare l’arco di cerchio di ogni possibile sapere ʻdiagnosticoʼ, e piuttosto inquadrarlo come un costrutto semantico-formale capace di assumere i significati che vi si sono depositati nel corso della storia dell’arte, ma foriero anche di significazioni altre. L’arco di cerchio potrebbe dunque iscriversi all’interno di quelle Pathosformeln della modernità (Seligardi 2018) che abbracciano il femminile non più come semplice oggetto della visione, bensì come suo soggetto. E in particolare l’arco di cerchio sembra, nella contemporaneità, mutare di segno il significato originario che gli era stato attribuito: da ʻsintomoʼ prima dionisiaco e poi isterico di una possessione che invade il corpo femminile, e che proviene da una fonte esterna al soggetto – la potenza divina per la menade, le forze invisibili del mondo che passano attraverso la permeabilità dei nervi per l’isterica (Violi 2004, 2005) – esso si trasforma in una modalità di espressione della soggettività femminile, e soprattutto della sua capacità creatrice colta in un momento non solo di espressività, ma anche di lotta contro le costrizioni che ne vorrebbero irreggimentare l’atto.
Non pare un caso poter leggere questa formula di pathos all’interno di quelle narrazioni, verbali e visive, che mettono in scena l’artista femminile, soprattutto quando questa pratica la poesia: nella cultura occidentale la creazione poetica è stata accostata molto spesso al furor, un momento di ʻispirazioneʼ in cui l’essere umano entra in contatto con il divino (Casadei 2009). Ma la prospettiva che scaturisce dall’associazione tra arco di cerchio, corpo femminile e creazione poetica pare ribaltare questo punto di vista proprio richiamando, in modo paradossale, la figurazione della posseduta e dell’estatica: l’ispirazione allora non ha nulla di trascendentale, ma diventa immanente nella lotta, metonimicamente rappresentata dal corpo in movimento, che il soggetto femminile ingaggia con un mondo che la vorrebbe muta e silente.
Una rilettura in chiave contemporanea dell’arco di cerchio è offerta dal film Antonia (2015) di Ferdinando Cito Filomarino. Il film è incentrato sulla figura storica di Antonia Pozzi, poetessa morta suicida nel 1938 la cui opera è stata pubblicata interamente postuma. Oggetto di un’attenzione editoriale e mediatica che si è intensificata negli ultimi anni, Pozzi è stata raccontata, nelle biografie e nei documentari che su di lei sono stati prodotti, anche e soprattutto per due aspetti che la critica ha da sempre intrecciato fortemente alla sua produzione poetica: l’amore infelice per il professore di greco del liceo Antonio Maria Cervi, al quale sono dedicati molti dei suoi componimenti, e il suicidio all’età di 26 anni. Sotto la lente del ʻtragicoʼ il personaggio di Pozzi sarebbe stato perfettamente ascrivibile ad una rappresentazione che accentuasse i tratti depressivi – dunque patologici –, su cui ha insistito buona parte della critica psicanalitica che si è accostata alla sua opera (Borgna 2003). Non sceglie questa strada il film di Filomarino che, ripercorrendo le tappe della formazione poetica e sentimentale di Pozzi, ne esalta piuttosto la progressiva consapevolezza artistica e la tensione ineludibile con l’ambiente borghese e conformista che la circondava. Ed è proprio attraverso una rappresentazione audace e plastica del corpo, spesso nudo, di Antonia, che l’opera suggerisce una possibile re-interpretazione dell’arco di cerchio che schiude un nuovo significato psichico: quello, appunto, della presa di consapevolezza artistica da parte del soggetto femminile.
Che il regista abbia un occhio attento alla composizione dell’inquadratura, notevolmente influenzato dalla storia dell’arte, è chiaro sin dalla prima scena, apparentemente irrelata rispetto alla storia di Antonia: sullo schermo appare infatti Il pensatore di Rodin (1903), il cui atteggiamento pensoso introduce tematicamente la posa intellettuale di chi scrive. Ma l’elemento più interessante è che nell’inquadratura successiva viene isolato un particolare della statua: le gambe arcuate, nervose, che fanno da contrappunto in movimento alla staticità della posa pensante [fig. 2]. È questo dettaglio a costituire una sorta di prologo alla disseminazione di archi che si dipanano lungo il racconto visivo: archi che si costituiscono a partire dal corpo di Antonia, e che sempre di più vanno costruendosi come archi di cerchio.
I primi due significativi coinvolgono il corpo di Antonia quando è una studentessa di liceo. Il sentimento crescente nei confronti del professore di greco e latino Antonio Maria Cervi è sì presente, ma posto quasi in second’ordine rispetto alla progressiva attenzione che la protagonista rivolge alla parola letteraria. La scoperta di pulsioni erotiche va di pari passo alle letture dei classici: così il primo arco vede un’Antonia supina sul letto, vestita di una candida camicia da notte, che depone al suo fianco il passo del canto delle Sirene dell’Odissea; il secondo arco vede un’Antonia ancora prona, questa volta nuda, che si appoggia lentamente al letto inarcando profondamente la schiena. La scena del secondo arco è frapposta, significativamente, tra il dialogo muto con una cartolina inviata ad Antonio (con il quale ha instaurato una relazione sentimentale) e un’inquadratura dall’alto che vede la giovane donna intenta nella scrittura. Una scrittura nervosa, sicura e incerta allo stesso tempo, di cui la macchina da presa segue, con un primissimo piano, lo svolgersi sulla pagina. In questa prima fase, dunque, l’arco di cerchio si inserisce all’interno del processo di formazione, sentimentale e poetico, di Antonia; quasi a suggerire il movimento, corporeo e mentale, che ne contraddistinguerà le esperienze successive [fig. 3].
La scena indubbiamente più iconica, e sulla quale giustamente la critica si è soffermata, è quella che mostra un momento di autoerotismo decisamente significativo per due motivi: da un lato, la scelta di una colonna sonora anacronistica, ovvero la canzone di Piero Ciampi Va (1976); dall’altro, la corrispondenza – opportunamente segnalata da Stefania Rimini (2017, p. 14) – fra il movimento del corpo, in particolare della schiena dell’attrice, e quello rappresentato nella celebre poesia di Pozzi Canto della mia nudità, tanto da poter parlare di un «corto circuito fra corpo del testo e corpo dell’immagine» e di un’«incarnazione dell’essere di carta all’interno del fotogramma» (Rimini 2017, p. 14). Rileggendo la scena e la costruzione dell’immagine lungo l’asse dell’arco di cerchio, è possibile notare come anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una formula di pathos che si rifà esplicitamente alla storia dell’arte, ma ancora una volta mutandola di segno. L’arco di cerchio della scena si compone di due fasi: una prima, in cui il corpo della protagonista è colto di schiena, con la testa reclinata da un lato e visibile di profilo, e una seconda, in cui il corpo visto di profilo si inarca in un vero e proprio arc-de-cercle [figg. 4-5].
La prima posa richiama in modo esplicito quella di un’altra statua di Rodin, La Danaïde (1889), celebre per la corporeità fluida che metta in scena, come ha suggerito Rilke: un «volto che si perde nella pietra come in un pianto immenso fino alla mano che anche questa volta parla sommessamente di vita» (Rilke 2004) [fig. 6]. Rodin ha rappresentato un momento specifico della vicenda della Danaide, colta nel dolore di realizzare la pena eterna cui è stata sottoposta da Zeus: riempire continuamente d’acqua un recipiente al quale sono stati approntati dei fori, e che dunque non si colmerà mai. Anche in questo caso, come per la menade dionisiaca e l’isterica, ci troviamo di fronte ad un soggetto femminile in balia di una forza esterna: la divinità punitiva. E la stessa struttura arcuata ritorna anche nella Danae di Gustav Klimt (1907-1908) [fig. 7] in cui la figura femminile appare dimentica di se stessa mentre subisce l’amplesso di Zeus, trasformatosi in una pioggia d’oro.
Nel caso di Antonia la situazione è ben diversa: la giovane poetessa non è posseduta da alcuna forza sovrannaturale, ma sta esperendo una conoscenza sempre più approfondita dei propri desideri soggettivi. Contestualizzare la scena all’interno della sequenza narrativa ci aiuta a capire come l’arco di cerchio per eccellenza del film si collochi, ancora una volta, tra un momento di esperienza emotiva e sentimentale – il bacio appassionato tra Antonia e l’amica del cuore – e la progressiva presa di coscienza dell’essere una poetessa – la decisione di raccogliere alcuni suoi componimenti nel libello La vita sognata e di consegnarlo al Prof. Banfi per avere un riscontro –. Anche i versi della canzone di Ciampi che accompagnano l’inquadratura fissa evocano una figura femminile libera, che cammina per la città, capace di vivere ed esperire innanzitutto attraverso il corpo.
L’ultimo arco di cerchio della nostra indagine – ma ce ne sarebbero altri da prendere in esame – si colloca all’incirca a metà del film. Si tratta di un’immagine altrettanto iconica, tanto da essere stata utilizzata anche per la distribuzione pubblicitaria della pellicola. Nell’inquadratura vediamo solo una parte del corpo di Antonia, le sue gambe, arcuate, che spuntano da una sottoveste trasparente parzialmente coperte da pesanti calzettoni da montagna [fig. 8]. Le gambe si muovono nervose e sinuose allo stesso tempo, e accompagnano Antonia dal divano al tavolo, luogo di scrittura per eccellenza. Anche qui la macchina da presa indugia sulla parte inferiore del corpo della protagonista, sui piedi che a poco a poco si liberano delle calze con movimenti energici. La posizione delle gambe non può non richiamare quelle del penseur di Rodin dell’incipit, a sottolineare come al movimento del pensiero ne corrisponda uno del corpo, dominato dall’ormai consueto arco. E nuovamente l’arco di cerchio si inserisce all’interno di due momenti altamente significativi della vita di Antonia: il rapporto sessuale con l’amico Remo Cantoni, inizio di un confronto maturo e consapevole con la propria sessualità, e la frase, scritta sui fogli del tavolo di lavoro e su cui la macchina da presa insiste con una vignettatura: «oggi accetti di esser poeta». Si tratta di una chiara e definitiva presa di coscienza di sé, del proprio valore di donna e di poeta insieme, benché entrambi gli aspetti debbano confrontarsi con i limiti e le ottusità della borghesia milanese entro la quale Antonia è immersa, e contro i quali la giovane donna ingaggia una lotta interiore e corporea allo stesso tempo.
L’arco di cerchio si fa dunque formula di pathos che punteggia ritmicamente il racconto visivo di Filomarino, e si rende protagonista di una semiosi capace di trasformare i significati culturali del passato, senza cancellarne le tracce ma suggerendone una possibile risemantizzazione.
Bibliografia
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