6.2. La pelle diafana del gotico italiano

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Negli anni Sessanta il cinema horror italiano si cimenta nella costruzione di un immaginario fortemente caratterizzato dai canoni della letteratura gotica del diciottesimo e diciannovesimo secolo, definiti in particolare dalle opere di Horace Walpole, Ann Radcliffe, Bram Stoker ed Edgar Allan Poe: castelli maledetti, vampiri, streghe, creature diaboliche e occultismo sono i protagonisti di racconti macabri e spaventosi.

Un’espressione simbolica nell’immaginario atavico e demoniaco della letteratura dell’orrore si concentra su dolore fisico, morte e smembramento, che sono al contempo fatti quotidiani ed incubi delle paure umane. Nell’immaginario gotico, il nesso tra soprannaturale e naturale è proprio dato dalla corporeità; sebbene Michail Bachtin definisca l’attenzione alla corporeità istintuale come una delle caratteristiche del comico e del carnevalesco, il gotico si inscrive in una più ampia decostruzione del senso tragico e del labirinto esistenziale della morte. Se però la tragedia è secondo Camille Paglia «the agon of male will» (Paglia 1991, p. 7), nel gotico ravvisiamo «the subordination of all living things to biological reality» (Paglia 1992, p. 104). Dunque, la percezione gotica è caratteristicamente carnale e riflette il contesto corporeo dei fantasmi e delle paure: «Films (...) imagine diabolical assertions upon the physical body of a young woman, suggesting an arch assault on the wellsprings of human life» (Morgan 2002, p. 6). Se si esclude la ricerca prodotta dalla critica femminista (Williams 1991; Clover 1992; Creed 1993; Pinedo 1997), la maggior parte degli studi sul cinema horror non si focalizza su questa priorità dell’elemento corporeo come fulcro narrativo e spettacolare. Secondo Judith Halberstam, «the emergence of the monster within Gothic fiction marks a peculiarly modern emphasis upon the horror of particular kinds of bodies» (Halberstam 1995, p. 3), al punto che la studiosa interpreta la devianza corporea nel romanzo ottocentesco europeo come pretesto razziale antisemita, mentre nel cinema dell’orrore l’idea della mostruosità si concretizza in un amalgama di sesso e gender che dimostra la necessità di leggere una storia dell’alterità al di fuori della storia della narrativa gotica (Ivi, p. 6).

Sulla falsariga del suo predecessore letterario intermediale, il genere cinematografico cosiddetto gotico è caratterizzato dalla presenza di ambientazioni cupe e da scene ed eventi finalizzati a suscitare nello spettatore emozioni di orrore e paura, spesso innescate da una presenza dell’ignoto e del soprannaturale in senso ostile. Dopo i successi targati Hammer e Universal alla fine degli anni Cinquanta, anche numerose produzioni italiane decidono di prendere in prestito dalla letteratura del brivido le atmosfere brumose e inquietanti che porteranno ad una definizione di alcuni stilemi del genere.

In particolare, nel confronto con il repertorio classico del romanzo gotico anglosassone, emerge una linea narrativa vicina al feuilleton italiano. Se l’estetica crociana e il moralismo cattolico non incoraggiavano gli indugi verso il macabro e il perverso nella letteratura decadentista, il lavoro dell’anglista Mario Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica (1930) ha promosso in Italia tutta una serie di testi fino ad allora negletti e proibiti, ovvero i classici del gotico inglese. Non si tratta però di una tradizione totalmente esogena ed estranea alla nostra cultura: infatti anche la letteratura italiana, in particolare il romanzo d’appendice, annoverava atmosfere gotiche. È il caso di varie opere di Carolina Invernizio, come Il bacio di una morta (1889), La sepolta viva (1896) e Il cadavere accusatore (1912); con le loro intense trame di amore e odio, questi lavori sono costruiti sulla netta antitesi fra eroi positivi e personaggi diabolici. La Invernizio propone una linea tutta femminile nella costruzione di un immaginario tenebroso spesso riferito alla città di Torino, nebbiosa e avvolta dalle tenebre, descritta quasi come stregata, funzionalmente opposta al focolare domestico borghese (Arslan 1999; Reim 1986). Nonostante le feroci stroncature dei critici  sappiamo che Gramsci la definì «onesta gallina della letteratura popolare»  siamo nell’ambito di una letteratura gotica al femminile. La codificazione di Ellen Moers del genere ʻFemale Gothicʼ (Moers 1978, p. 90) si riferisce all’espressione letteraria delle paure femminili sull’intrappolamento nell’ambiente domestico e nel corpo femminile, nonché nell’esperienza traumatica e terrificante del parto, in cui la letteratura interpreta l’insoddisfazione verso il patriarcato e in particolare verso il ruolo sociale della donna nel rapporto con la maternità. Secondo Emma J. Clery, parte della scrittura femminile del gotico è ravvisabile non solo nelle letture psicoanalitiche delle relazioni familiari con il patriarcato, ma anche nella legittimazione dell’immaginazione visionaria nelle scrittrici, nonché dei metodi di rappresentazione delle passioni (Clery 2000, p. 23).

Le opposizioni binarie tra bene e male, un certo dualismo manicheo nella scrittura dei personaggi e un compiacimento morboso nell’elemento carnale e materico sono elementi propri della struttura narrativa del cinema gotico italiano e delle sue trame ispirate al ʻFemale Gothicʼ nostrano.

Il vero leitmotiv del genere è dato dai volti e dai corpi delle protagoniste femminili, esili e pallide ma al contempo estremamente sensuali e voluttuose. L’incarnato esangue di Barbara Steele, Daliah Lavi o Hélène Remy rimanda al soprannaturale, connotando dei caratteri di abiezione, malvagia e mostruosità.

Secondo Julia Kristeva, l’abietto rappresenta ciò che non rispetta confini o regole, disturbando identità e ordine del sistema per la provenienza dal regno materno pre-linguistico, che riguarda il desiderio (Kristeva 1980, p. 4-5). Sulla mostruosità, invece, si riflettono la sensualità e la bellezza come in uno specchio capovolto: per Barbara Creed, infatti, i personaggi femminili dei film horror incutono un senso di minaccia nella natura ancestrale del ʻmostruoso femmineoʼ come forma del perturbante freudiano, che rimanda ad un duplice ruolo di castratrice e castrata (Creed 1993, p. 127). Donne malvagie e dominatrici sono le protagoniste de La maschera del Demonio (Mario Bava, 1960) e de L’amante del vampiro (Renato Polselli, 1960), che schiavizzano le controparti maschili secondo meccanismi di egemonia che richiamano le pratiche sadomaso. Le streghe e diavolesse di questi film sono spesso Doppelgänger, come ne I vampiri (Riccardo Freda, 1957), dove Gianna Maria Canale interpreta la giovane e bella Giselle e la duchessa Marguerite Du Grand, in realtà la stessa persona [figg. 1-2].

La magra fortuna commerciale ai botteghini rispetto ai coevi campioni di incassi nazionali e internazionali come il peplum e il western ha permesso di considerare I vampiri come una sfida coraggiosa al modello dominante in Italia, una sorta di esperimento portato innanzi in due settimane da pionieri illuminati e creativi (Guarneri 2017). I vampiri è antesignano e prototipo del genere in cui si propone una riflessione sul soprannaturale ribaltando lo stereotipo dell’arcano radicato in un passato remoto. Infatti, David Punter enumera i canoni essenziali del romanzo gotico insistendo sulle ambientazioni arcaiche, medievali o quantomeno non contemporanee (Punter 1996), ma si tratta di un dato che verrà superato dalle successive metamorfosi intermediali del genere. Freda ambienta il film nel proprio tempo; non solo per limitare costose scenografie, ma anche per attualizzare il mito del vampiro e combinarlo con la leggenda della contessa Erzsébet Báthory e con il mito di Frankenstein. La duchessa Du Grand è una presenza incombente e conturbante, il cui memorabile ingresso dalla scalinata è accompagnato da un simbolo che ne sottolinea il carattere malvagio: un grottesco demone-grifone alato, ma connotato da un ampio seno femminile. (Curti 2015, p. 25). Un’altra storia di vampirismo pervade la trama de La cripta e l’incubo (Camillo Mastrocinque, 1964), liberamente ispirato al racconto Carmilla di Sheridan Le Fanu, rivisto da Ernesto Gastaldi e Tonino Valeri: il conte Ludwig Kanstein (Christopher Lee), teme che Laura (Adriana Ambesi), la figlia della sua amante, sia posseduta da una vecchia strega di famiglia, Sheena Karnstein; dunque insieme a uno studioso comincia ad indagare tra le memorie del passato, conservate negli archivi familiari.

Il film più noto e acclamato del genere è forse La maschera del demonio [fig. 3], reso celebre dalle iconiche fattezze di Barbara Steele. Nella storia della strega Asa e della sua discendente Katia, ispirata al racconto Vij di Nikolaj Gogol’ (1835), Bava costruisce una tassonomia dell’orrore anche attraverso raffinati omaggi intertestuali, come la citazione del Nosferatu, eine Symphonie des Grauens (Friedrich Wilhelm Murnau, 1924) nella sequenza della carrozza di Iavutich che attraversa il bosco. «Più che I vampiri, dove l’elemento orrorifico era ancora timido e necessitava per di più di una spiegazione naturalista, La maschera del demonio è il film che fa nascere l’horror italiano» (Pezzotta 1995, p. 36). Già nell’incipit del film, la protagonista viene spogliata, marchiata a fuoco sulla schiena nuda e sottoposta ad una tortura efferata con una maschera di ferro inchiodata sul volto. Pochi mesi prima, in Messalina Venere imperatrice (Vittorio Cottafavi, 1960) si vedeva marchiare a fuoco la schiava interpretata da Paola Pitagora, ma la violenza del film di Bava era molto più feroce; la furia sul corpo, sulla candida pelle femminile, era qualcosa che i film di Hammer non avevano mai mostrato, qualcosa che poteva competere solo con l’efficacia brutale di Psycho (Alfred Hitchcock, 1960), distribuito nelle sale americane lo stesso giorno dell’uscita italiana del film di Bava. Così come gli inquisitori medievali esibivano gli strumenti di tortura, Bava esibisce il supplizio dilatando l’esecuzione di Asa in diciannove inquadrature che, attraverso un dolly, seguono la maschera fino al momento in cui viene inchiodata sul viso della donna (Curti 2015, p. 39).

Sebbene la narrativa gotica preveda stilemi, atmosfere e canoni piuttosto costanti dal diciottesimo secolo ad oggi, anche questo immaginario non si esime dall’esprimere problematiche di natura socio-culturale che appartengono al proprio tempo [fig. 4]; La maschera del demonio esce nel 1960, lo stesso anno de La dolce vita (Federico Fellini) e Rocco e i suoi fratelli (Luchino Visconti), due film iconici che dipingono modelli diversi e opposti di identità femminile. Modelli che rispondono alle formule coercitive o conquistatrici del patriarcato e al contempo alle nuove coscienze di donna dell’epoca del boom, tra sottomissione ed emancipazione. Nel film La maschera del demonio la protagonista nel suo duplice ruolo di strega e innocente è insieme vittima e carnefice, seduttrice vendicativa e carne lacerata.

 

 

Bibliografia

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