Apro questo intervento dichiarando prontamente il mio debito nei confronti del lavoro di Barbara Le Maȋtre Zombie. Una favola antropologica, che – edito di recente – ha affrontato con uno sguardo profondo e originale la figura dello zombie nella cultura visuale dal Rinascimento ai giorni nostri. Delle tante sollecitazioni proposte da Le Maȋtre, il corpo senza organi, l’automa, la Vanitas, scelgo come punto di partenza l’affinità tra il corpo zombie e il tema figurativo dello scorticato, così come viene elaborato dalla cultura medico-scientifica del Sedicesimo secolo e da Vesalio in particolare. Riflettendo su questo percorso iconografico proposto dalla studiosa francese, mi sono interrogata sulla possibile ascendenza della figura della vampira, sviluppata all’interno della breve ma prolifica stagione del gotico italiano degli anni Sessanta, la quale si distingue nettamente dall’immagine più consolidata del suo corrispettivo maschile, Dracula.
Azzardo l’ipotesi che l’iconografia sottesa all’immagine della vampira appartenga anch’essa alla tradizione del Teatro anatomico, ma sia più affine ai modelli femminili in ceroplastica prodotti principalmente in Italia nel Diciottesimo secolo e poi diffusi in tutta Europa. La tecnica del modellamento della cera fiorisce fin dal 1200 in particolare a Firenze, ed è legata prima alla ritrattistica e alle effigi funerarie (dal Trecento durante le cerimonie mortuarie il cadavere è sottratto alla vista e tendenzialmente sostituito da una maschera funeraria, un calco di cera del volto del morto) e in seguito alla tradizione degli ex-voto che rappresentavano parti umane e ritratti ma anche oggetti e animali, basti pensare ai tre ritratti di Lorenzo il Magnifico scampato alla congiura dei Pazzi. Con Lorenzo Cardi, detto il Cigoli, la ceroplastica incontra la scienza medica, nella persona dell’anatomico fiammingo Maiering, dando vita alla prima cera dello scorticato. Le prime cere anatomiche conservano un colore bronzeo che si rifà alla tradizione medica del cadavere disseccato, al quale intendono sostituirsi. Le iperrealistiche cere colorate, che imitano perfettamente sia la consistenza sia le nuances dei tessuti, si devono al siciliano Gaetano Giulio Zumbo sul finire del Seicento. Alla scuola bolognese, ricordiamo Ercole Lelli e i coniugi Manzolini, si affianca ben presto quella fiorentina e nel Settecento la tecnica si diffonde oltralpe, in Francia e in Inghilterra, dando vita a numerose collezioni di cere anatomiche. Contemporaneamente, gli ex voto lasciano il posto a ritratti a grandezza naturale di uomini illustri, esposti non più nelle chiese ma nelle mostre itineranti e nei Gabinetti di Cere.
La ʻvampiraʼ, così come è codificata dal gotico italiano, trae linfa vitale (scusate l’impreciso gioco di parole) dalle ʻVeneriʼ, cere anatomiche a figura intera e grandezza naturale del corpo femminile [fig. 1]. La prima è creata da Clemente Susini tra il 1780 e il 1782 per il Museo di storia Naurale La Specola di Firenze; è una statua smontabile alta 1 metro e 64 centimetri, che prende in seguito il nome di Venere De Medici, particolarmente apprezzata è immediatamente riprodotta per il Museo di Storia Medica Josephinum di Vienna, ma anche a Budapest, Pavia, Bologna, etc. Poste in teche di vetro come i corpi dei santi, le ʻVeneri anatomicheʼ (ʻVeneri scomponibiliʼ, ʻVeneri smontabiliʼ ma anche ʻsleeping beautyʼ) replicano, con minime variazioni, l’inconsueta posa supina di donna dormiente mollemente adagiata su cuscini e materassi finemente decorati, i capelli lunghi, gli sfavillanti occhi di vetro, il sorriso appena accennato, il filo di perle che impreziosisce il collo. In questi elementi si consuma tutta la distanza tra il modello ceroplastico femminile e quello maschile dello scorticato: vigoroso, eretto o in pose atletiche desunte dalle statue dell’antichità classica, senza capelli, senza occhi, senza monili. Come già suggerisce Ludmilla Jordanova, registriamo qui come il discorso medico-scientifico (ricordiamo che le Veneri sono ideate a scopo didattico per contesti specialistici) costruisce immagini del corpo umano non neutre, ma intrise di una precisa connotazione di genere. Dei modelli di cera colpisce, oltre allo straodinario realismo, la posa passiva e conturbante, inoltre da più parti si è sottolineata la somiglianza tra l’espressione facciale delle Veneri e la Santa Teresa del Bernini, rapita dall’estasi religiosa. Al cadavere della lezione anatomica si sostituisce un modello vibrante, pronto a farsi sfogliare strato dopo strato per rivelare, secondo la concezione del corpo umano come meccanismo, il segreto della vita. In questa logica, le cere si configurano come oggetti ossimorici in grado di condensare tensioni opposte: sono al contempo cadaveri e scrigni della vita, corpi inanimati e palpitanti, modelli anatomici e bambole seduttrici, che mescolano il sacro della reliquia con il profano della Venere.
Il tema figurativo della ʻsleeping beautyʼ ricorre in numerose pellicole del gotico italiano, come in I vampiri (R. Freda, 1957), La maschera del Demonio (M. Bava, 1960), L’orribile segreto del dott. Hichcock (R. Freda, 1962), I lunghi capelli della morte (A. Margheriti, 1964), per citare le più note. Fa eccezione Il mulino delle donne di pietra (G. Ferroni, 1960), che tuttavia mi sembra confermare l’ipotesi dello stretto legame con il Teatro anatomico facendo esplicito riferimento ad un’altra forma di conservazione dei cadaveri, la pietrificazione, eseguita tra i primi da Segado nel Settecento, e poi da Paolo Gorini nella seconda metà dell’Ottocento.
Senza disperderci, saggiamo l’ipotesi della sopravvivenza del modello iconografico della Venere scomponibile analizzando qualche sequenza. Ne I vampiri, le Veneri sono le giovani e avvenenti vittime rapite e dissanguate per mantenere in vita e senza età la splendida contessa Marguerite/Giselle du Grand, interpretata da Gianna Maria Canale. Nella sequenza che rivela la terribile sorte delle ragazze rapite le vediamo distese, estatiche sul letto operatorio, che spirano mentre il volto della vecchia Marguerite (vampira e Venere), abbandonato sul guanciale si rigenera, ritrovando l’elasticità e la perfetta levigatura del corpo di Giselle [fig. 2]. Nonostante l’ambientazione contemporanea, l’improvvisata sala chirurgica nel castello parigino della contessa, con colonne e bassorilievi mostruosi, così come il boudoir con il pesante baldacchino, ispirano un’atmosfera sepolcrale, definitivamente suggellata dall’orologio, dagli specchi e dall’illuminazione di candele a cera, e dalle allegorie pittoriche della Vanitas e dei Memento Mori.
Per affrontare un altro esempio, ne La maschera del Demonio Barbara Steele, anch’essa in un doppio ruolo come Asa e Katia, assume più volte la posa delle cere anatomiche [fig. 3]. Inizialmente come Asa, quando in due sequenze distinte la donna è progressivamente riassemblata: prima, attraverso un ricercato effetto speciale, sotto l’occhio impassibile della macchina da presa il teschio scarnificato si rimpolpa strato dopo strato, e le orbite vuote sono riempite dal bulbo oculare completamente bianco. In seguito Asa, con ancora impressi i buchi della machera di ferro, è inquadrata ansimante e distesa su un sarcofago di pietra. Da un lato notiamo che disseminati in queste sequenze ritornano una serie di indicatori simbolici della Vanitas, come il teschio nella nicchia del muro e la candela ardente, e dall’altro che, non a caso, il personaggio è intrappolato in un sarcofago con una inusuale teca di vetro sul volto ed è ʻrisvegliatoʼ da due medici: il dott. Kruvajan (Andrea Cecchi) e dal più giovane dott. Andrej Gorobec (John Richardson). Infine, nella sequenza finale in cui avviene una sorta di scambio di linfa vitale tra Katia e Asa, ritroviamo la scomposizione e la ricomposizione della Venere. E’ interessante rilevare che entrambe assumono uno sguardo estatico: Katia rifà, con le braccia e la testa reclinata all’indietro con la bocca semiaperta, la posa del’Estasi di Santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini [fig. 4]; le fa eco il personaggio di Asa, la quale, distesa supina alla sua sinistra, rimanda alla statua di Ludovica Bertoni, sempre del Bernini. Inoltre in questa scena, quando sopraggiunge Andrej, il drappo nero che avvolge Asa si sposta per errore e svela la schiena del cadavere non ancora ricomposta, le costole avvolte da un leggero strato di carne si offrono alla vista [fig. 5]. Ancora lo svelamento, la scomposizione, l’iconografia delle cere anatomiche e il rimando alla tavola Anatomia della spina dorsale di donna di Jacques Fabien Gautier d’Agoty [fig. 6], e anche ad alcuni Memento Mori in avorio, che mostrano di fronte il ritratto di un personaggio e sul restro il suo scheletro o il corpo in decomposizione; possiamo citare ad esempio quello di un busto femminile, probabilmente parte di un rosario di un anonimo francese o belga del 1500 circa esposto al Philadelphia Museum of Art.
Le Veneri e il medico, la scomposizione e la ricomposizione corporea, le marche pittoriche del Memento Mori, tutti elementi che attestano non solo la straordinaria permeabilità dell’iconografia delle cere anatomiche femminili tra discorso medico-scientifico e rappresentazione artistica, ma anche la sua sopravvivenza (o l’eterno ritorno) nel filone cinematografico del gotico italiano. Le forme, diversamente rielaborate e sicuramente annacquate nelle pellicole horror, mantengono come elemento ancora simbolicamente produttivo la conturbante sensualità della rappresentazione del cadavere femminile, in bilico tra la morte e l’estasi, l’inviolabile e il profano, il mistero della vita (ma anche della donna, l’Altro per eccellenza) e lo svelamento conoscitivo. Notiamo che le Veneri, come cadaveri senza vita e come modelli ceroplastici, sono donne-oggetto per eccellenza, figure femminili senz’anima, esposte passivamente allo sguardo dell’anatomista (e non solo), destinate ad essere smontate e indagate fin nelle viscere. Nel gotico italiano è proprio la sensualità che invece riscatta i personaggi femminili, vampire e vittime, trasformandole anche narrativamente in figure attive e potenti, angeli della morte terribili e vendicatrici.
Bibliografia
J. Ebenstein, La Venere anatomica, Logos, 2017.
L. Jordanova, Sexsual Visions. Images of Gender in Science and Medicine Between the Eighteenth and Twentieth Centuries, Madison, University of Wisconsin Press, 1993.
B. Le Maȋtre, Zombie. Una favola antropologica, Roma, Armando Editore, 2016.
D. Toschi, ʻVittima o carnefice? La rappresentazione della donna nel gotico italianoʼ, Comunicazioni Sociali, 2, 2007, pp. 255-260.