7.1. Violenza di genere e ricerca sociale: l’opera artistica di Shu Lea Cheang

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Shu Lea Cheang (1954), artista poliedrica, filmmaker e networker di origine taiwanese, è considerata una delle pioniere della NetArt e figura di rilievo nel gruppo cyberfeminism (Chardonnet 2019). Studiosa attenta al proprio tempo, laureata in storia presso la National Taiwan University (1976) e conseguito un master a New York in cinema e new media (1980), i metodi di Cheang includono la creazione di contesti per lo sviluppo di nuovi linguaggi artistici a partire dall’attualità: cifra che l’ha portata ad esporre, spesso su commissione, dal Solomon R. Guggenheim Museum di New York al Walker Art Center in Minnesota, dal Palais de Tokyo di Parigi alla Transmediale di Berlino [fig. 1].

La sensibilità creativa e visiva è motivo che vede impossibile cristallizzare la sua poliedrica opera all’interno di un’unica espressione, o una definita poetica, in costante progresso. Sin dai primi lavori degli anni Novanta, l’evoluzione del suo pensiero offre una lettura interessante per due aspetti. Il primo è un’attenzione e studio delle recenti pratiche di strumentazione tecnologica: dall’uso di siti web ai QR Code, dai software di identificazione facciale ai dispositivi di videosorveglianza. In secondo luogo, spicca per un’indagine continua sull’uso di tali dispositivi sociali quali forma di narrazione di identità frammentarie. La ri-costruzione mediata di queste, per cause connesse a dimensioni perlopiù geopolitiche, è una costante che lega ogni intervento della sua azione artistica. Motivo che segnala biografia di Cheang stessa: solo una volta fuggita da Taiwan nel finire degli anni Settanta, trova a New York luogo in cui attuare quello che lei stessa ha definito un processo di self-acknowledgment e affermazione sia della propria identità di genere, sia della sua identità artistica, attraverso l’uso di social networking e tecnologie scopiche.

Per chiarire i due punti accennati, si potrebbero analizzare diversi lavori contenuti nel diario di sguardi dell’artista taiwanese tra installazioni in rete, interfacce, film, opere di arte digitale; ma si sceglie di leggere due opere interconnesse tra loro in quanto riconosciute tra le più complete e rappresentative delle tendenze estetiche dell’artista: la prima degli anni Novanta, Brandon (1999) e una più recente degli anni Duemila, 3x3x6 (2019).

Nel 1999, il Guggenheim Museum di New York commissiona il primo lavoro di Net Art della collezione a Cheang. Brandon è monumento a Brandon Teena, transessuale del Nebraska violentato e assassinato nel 1993. Il progetto mira a raccontare la storia della trasformazione dell’identità del giovane in cinque fasi – bigdoll, roadtrip, mooplay, thatrum anatomicum e panopticon – corrispondenti a cinque interfacce digitali che percorrono una time line. La linea del tempo non rappresenta il susseguire di fatti ma la fenomenologia identitaria, in un evento artistico polifonico per raccontare anche di storie andate a influenzare quella di Teena [fig.2].

Soffermiamoci sull’ultima sezione. Cliccando si accede a un diagramma composto di 12 celle, il cui schema ricorda inevitabilmente la struttura della prigione ipotizzata da Jeremy Bentham nel 1791. Come l’occhio sorvegliante panottico ha la capacità di focalizzare l’attenzione sul comportamento deviato del singolo detenuto, così l’occhio della Cheang si sofferma nell’analizzare i casi di carcerati considerati, dal proprio paese di provenienza, sessualmente devianti e quindi punibili per crimini sessuali. Lo sguardo è sopraffatto dall'interferenza di medici, psicologi, autorità giudiziarie, dalle incarnazioni di potere che speculano e decidono su come modificare i corpi dei dodici detenuti.

Mappare esperienze e porre in connessione esistenze, per mezzo di sistemi mediali, è una cifra che l’artista adotta nella sua intera produzione: come lei stessa, nel suo divenire cittadina nomade e trovare luogo sicuro nello spazio mediale, anche i protagonisti delle sue antologie sono fortemente connessi nell’ecologia mediatica in cui vivono esperienze individuali e sociali.

La connotazione, secondo l’artista, delle relazioni proprie della società dell’ultimo ventennio, è un’architettura narrativa che ritorna fortemente nella trilogia Locker Baby (2001-2012) nata con il pretesto di raccontare come in paesaggi di rifiuti elettronicisi consumi il desiderio; o ancora I.K.U., classificato uno Sci-Fi Porn, ambientato in un presente utopico, in cui i consumatori provano orgasmi senza alcun contatto fisico.L’opera più articolata e complessa risulta a oggi il progetto 3x3x6 esposto in occasione della Biennale Arte di Venezia del 2019. Lavoro che l’ha consacrata prima donna a esporre per il Taiwan, fortemente voluta dal Taipei Fine Art Museum.

La serie di opere che costituiscono l’installazione si basa sulla decisione dell’artista di rispondere alla storia dello spazio architettonico per cui è stata pensata, il Palazzo delle Prigioni, proprio a partire dall’ultimo capitolo di Brandon relativo al Panopticon. Affacciato sul bacino di San Marco, su progetto di Giovanni Antonio Rusconi nel 1563, i locali del Palazzo furono destinati sin da subito a funzioni carcerarie, con sale ad uso dei magistrati. A differenza di quanto affermato nel catalogo dell’esposizione dal curatore, il filosofoPaul Preciado (Preciado 2019), lo spazio espositivo non fu la scenografia architettonica del famoso episodio della fuga dai Piombi di Giacomo Casanova, avvenuta invece dal sottotetto di Palazzo Ducale, ma è stata comunque di ispirazione al site specific proposto sulla tematica della carcerazione.

Sin dal titolo, 3x3x6, Cheang fa riferimento allo spazio abitativo costrittivo, di nove metri quadrati e controllato da sei occhi sorveglianti, tipico delle carcerazioni di massima sicurezza. Il percorso espositivo racchiude in sé la storia della punizione e delle attuali prigioni virtuali cittadine, predisponendo la divisione dello spazio così come segue.

Nella Sala A impera una torre di sorveglianza, invertita. Le telecamere del controllo proiettano i ritratti di dieci prigionieri accusati di crimini sessuali – da Foucault, a Casanova, dal Marchese de Sade a casi dell’attualità taiwanese e sudafricana – [fig. 3] protagonisti dell’intera installazione. Ma anche la scansione dei corpi dei visitatori:siano quelli immortalati all’entrata del padiglione per mezzo di un sistema di videosorveglianza, o chi, per mezzo di un’app appositamente creata dall’artista, ha inviato un proprio video al server di rielaborazione, parte integrante dell’opera.

L'interpretazione di Cheang sul sistema di controllo compie un’evoluzione: lo sguardo panottico della torre centrale diviene un proiettore multicanale che riferisce dell'ambivalenza di essere dei corpi-immagine in una massificazione del guardare,localizzabili in quella sottile linea tra l'osservazione e la costruzione del soggetto all’interno di regole precise di identificazione. A partire dalle proiezioni dei corpi sulle pareti bianche riflettenti, gli occhi del controllo attivano un morphing sui corpi [fig.4], interrompendo la tradizionale forma di identificazione antropocentrica, che vede una sua storia a partire dagli studi della fotografia criminale di Alphonse Bertillon nel XIX secolo e trova suo culmine nelle odierne tecnologie di riconoscimento facciale. Quella del morphing è una tecnica digitale usata già in passato da Shu Lea Cheang, come successivamente da molte artiste ascrivibili al gruppo della cyberfeminism, per sovvertire le tecniche di identificazione. Tale sistema porta i corpi rappresentati a divenire spogliati di ogni identità sociale, di razza, di inclinazione sessuale, proponendo una alternativa all’attuale capacità pervasiva dell’occhio del controllo.

Il motivo viene discusso nelle sale successive, B e C. I dieci casi protagonisti vengono raccontati in dieci film in 4k, realizzati dall’artista e proiettati in loop in altrettanti schermi. Ogni postazione è dotata di cuffie e un QRcode – che rinviano a schede e materiale informativo sui protagonisti. Lo spazio diventa un labirinto di narrazioni e cronologie dalla Venezia del XVIII secolo alla Taiwan contemporanea, riccorrendo a documenti, resoconti storici e attualità, nonché alla narrazione finzionale dei fatti, con forti tratti fantascientifici; tratto distintivo della regista. I protagonisti dialogano e raccontano l’esigenza di voler essere ‘altro’ rispetto alle categorie imposte dal proprio tempo e dal proprio Paese. Cheang sceglie di raccontare questo aspetto lavorando nei dialoghi quanto nello studio dei corpi degli attori: il Marchese de Sade è interpretato da una donna (Liz Rosenfeld), la privazione identitaria di Michel Foucault (Félix Maritaud) viene mostrata nella rasatura dei capelli.

A chiudere il percorso, l’ultimo spazio è la sala D ispirata a una sala di controllo. Si trova una scatola nera, un groviglio di schermi e fili, da cui si manovra l’atto del guardare e la registrazione delle azioni che si svolgono attorno e all’interno dell’opera [fig. 4]. Cheang offre la possibilità di fuggire da quello che il filosofo post-foucaultiano Giorgio Agamben afferma essere l’attuale dispositivo fautore di un processo di de-soggettivazione (Agamben 2006), quindi generatore di ‘passività e sottomissione’ dell’individuo. L’omogeneità a cui siamo inevitabilmente ridotti e a cui non possiamo fuggire può essere occasione per ritornare a un’attenzione sull’individuo e un’accettazione e riconoscimento dell’Altro nel distinguere autonomamente la propria identità.

Sfidando l’estetica del capitalismo globale che non permette la ricomposizione di un nuovo soggetto se non in forma larvata e spettrale, affrontando la visione centrica molto attenta a un massivo controllo sui suoi cittadini, raccontando un così forte e imperante obbligo all’essere guardati, nell’ottica dell’artista c’è però una possibilità di ribellione all’attuale ‘società della trasparenza’ (Byung Chul 2014). Nelle sue rivisitazioni punk, i protagonisti incarcerati si fanno esempi di trasgressione all’occhio del controllo, esponendo volontariamente il proprio corpo – questo da intendersi in una visione pornografica, di estrema nudità – per tutelare la propria identità, per mostrare ciò che si è. Fuggire dalla percezione di essere oggetto di un sistema di sur(sous)veillance (Mann, Ferenbok 2004).

L’eterogeneità dei dispositivi usati, l’originalità nella convergenza di questi con il proprio linguaggio sperimentale, l’interesse rispetto a limiti sociali, politici e geografici sono elementi che hanno permesso all’artista di origini taiwanesi di entrare a pieno titolo nelle principali compagini museali e festivaliere americane ed europee. Ma quello che più contraddistingue il suo lavoro, divenendo punto di riferimento per le nuove generazioni di artisti sperimentali, sono le modalità in cui Cheang ha fatto dialogare, negli anni, media e arte, riconoscendo un forte potere sociale alla narrazione per immagine: caricando costantemente i dati dei visitatori e inserendoli nel flusso dell’opera, i lavori dell’artista scardinano i confini, offuscando i limiti tra il museo e la quotidianità, ma anche tra artista e visitatore.

Shu Lea Cheang, abituata a combattere disuguaglianza sociali, trova il modo con la sua arte di raccontare sé stessa, di raccontare la società e combattere contro ogni disillusione dettata dagli episodi di disparità che lei stessa ha vissuto, in quanto orientale, in quanto artista, in quanto donna.

Occorre esporsi per poter rivendicare una propria autonomia.

 

Bibliografia

G. Agamben, Che cos'è un dispositivo?, Roma, Nottetempo, 2006.

H. Byung Chul, La società della trasparenza, trad. it. di F. Buongiorno, Roma, Nottetempo, 2014.

H. Byung Chul, Nello sciame. Visioni del digitale, trad. it. di F. Buongiorno, Roma, Nottetempo, 2015.

E. Chardronnet, ‘Venice Biennale: sex, prison and digital sousveillance in the Taiwan Pavilion’, Makery. Media for Labs, 2019 <https://www.makery.info/en/2019/06/09/biennale-de-venise-sexe-prison-et-numerique-au-pavillon-taiwan/> [accessed 31.08.2020].

L. Chua, ‘Shu Lea Cheang’, BOMB, 54, 1996, pp. 60-63.

V. Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui, e della società, Torino, Bollati Boringhieri, 2007.

M. Deseriis, G. Maano, Net Art: l’arte della connessione, Milano, Shake Edizioni, 2003.

M. Foucault, Sorvegliare e Punire. Nascita della prigione [1975], trad. it. di A. Tarchetti, Torino, Einaudi, 2014.

M. Foucault, Sécurité, Territoire, Population: Cours au Collège de France (1977-1978), Paris, editions Gallimard, 2004.

M. Fuller, Inhabiting High-Density Realities: On Shu Lea Cheang’s Artistic Language, in P.B. Preciado (a cura di), 3x3x6. Shu Lea Cheang, catalogo della mostra, padiglione del Taiwan, Taipei, Taipei Fine Arts Museum, 2019.

S. Lischi, La lezione della videoarte. Sguardi e percorsi, Roma, Carocci, 2019.

S. Mann, J. Ferenbok, ‘New Media and the Power Politics of Sousveillance in a Surveillance- Dominated World’, Surveillance & Society, 11 (1/2), 2013, pp.18-34.

P.B. Preciado (a cura di), 3x3x6.