Io non “ho” un corpo,
io/noi tutte “siamo” il nostro stesso corpo.
Quindi non potrei dire che il corpo è il mio strumento,
direi piuttosto che è materia,
è linguaggio, è espressione artistica.
Silvia Calderoni
Riferendosi a Silvia Calderoni, dal 2005 musa ispiratrice di Motus, compagnia teatrale fondata da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, sovente si fa riferimento al suo «strepitoso linguaggio del corpo» (Celi 2007), che le consente di vivere fisicamente qualsiasi cosa faccia in scena. Il suo è infatti un corpo che, formatosi con la danza, si fa spazio e oggetto allo stesso tempo, lavorando su approcci trasversali, stratificazioni di memoria, campi associativi consci e inconsci in un rinnovato senso della condivisione tra esperienza della rappresentazione e pubblico. Calderoni, attrice ready made, diventa un tutt’uno con le sue performance, compiendo atti che declinano la vocazione di denuncia sociale, politica, storica peculiare di Motus; esplora, secondo la prospettiva queer, quell’orizzonte di possibilità che si aprono nel momento in cui la presentazione monolitica delle identità viene messa in discussione. La lettura dei suoi lavori non può prescindere quindi dai manifesti queer di Judith Butler e dal suo Gender Trouble, da Donna Haraway con il suo A cyborg Manifesto o da Paul B. Preciado e il Manifesto Contra-sexual; per lei essere queer è un’urgenza politica e il suo corpo altro non è che «una continua e incessante “materializzazione” di possibilità» (Butler 2012) culturali e storiche. In altre parole il suo è un corpo che attualizza, drammatizza e riproduce una data situazione storica e finisce con l’incarnare la rivolta di genere contro lo status quo sociale. Un corpo che alle parole preferisce gli atti e che attraverso questi dimostra
la natura corporea di ogni visione, e in tal modo rivaluta il sistema sensoriale che è stato usato invece per significare un salto che esce dai confini del corpo marcato ed entra in uno sguardo conquistatore che viene dal nulla. È questo lo sguardo che investe nel mito tutti i corpi marcati, e che permette alla categoria dei corpi non marcati di rivendicare per sé il potere di vedere e di non essere visti, di rappresentare e allo stesso tempo di sfuggire alla rappresentazione (Haraway 1995).
I lavori in cui troviamo la performer si collocano così tra le pratiche di ibridazione tecno-estetica ormai ben consolidate nell’ultimo trentennio. Il suo fare teatrale si realizza al di fuori dei circuiti tradizionali, evocando immagini in movimento e mettendosi all’ascolto delle urgenze contemporanee: un teatro di ricerca che per la potenza visiva che lo popola si avvicina al cinema, in cui Calderoni ha portato tutta la carica sovversiva del suo corpo scenico.
1. Il corpo narrante
Sia che si muova in teatro sia che lo faccia al cinema (o recentemente sulle passerelle d’alta moda), Calderoni si trasforma in superficie corporea sulla quale scrivere inni alla ribellione. Così Cristina Ventrucci la descrive:
[...] pianta selvatica nella scena italiana, un alberello cresciuto in una crepa dell’asfalto. Performer, mannequin, animale da scena, bussola randagia, sono alcuni degli spigoli picassiani che Silvia Calderoni offre al suo concetto di attrice. Efebica, conturbante, si nutre dello sguardo di chi segue il suo richiamo e a sua volta cattura prede eterodosse col proprio occhio mai pago. È un essere che permane negli spazi del passaggio, nelle soglie tra gli stati e gli stadi. Lì, in quella condizione di ragazza-ragazzo, infante secolare, felino-cane, calce viva-clorofilla, capta ed elabora l’umano restituendone le più remote dimensioni (Ventrucci 2008).
Un corpo sottilissimo, «giacomettiano» (Ventrucci 2008), in grado di far tutto meno che rimanere immobile. Sin da piccola, nonostante i tentativi paterni di renderla più femminile, la sua bellezza androgina la differenziava dalle coetanee. Poi al liceo avviene l’incontro con il teatro (Teatrino Clandestino e Teatro Valdoca), che consente al suo corpo di sperimentarsi e di convogliare in scena la sua ambiguità: poteva interpretare Ariel, un cane, una pianta, una femmina, un maschio. A distanza di tempo, dopo un’intensa attività dentro il collettivo Motus con cui oggi arriva quasi a identificarsi, la questione di genere esplode in MDLSX, vero e proprio spettacolo di culto sia sul versante della forma che sul piano dei contenuti. Il confronto tra Motus e la straordinaria fisicità di Calderoni segna un momento di cambiamento nella prassi artistica del gruppo, un’evoluzione della riflessione sulla società e la Storia che assume dei connotati specifici.
Calderoni, come un instancabile viaggiatore mai pago di porsi domande, fa dell’ibridazione la sua cifra stilistica, e questo la spinge, come vedremo, a scoprire anche il cinema (e i videoclip), quel linguaggio che l’ha sempre incuriosita e che le consente di mettere la sua capacità «autoriale “interna”» (Persico 2018) nelle mani dei registi e delle registe che la dirigono.
Per delineare i tratti della fisicità dell’artista tenteremo di rileggere la performance teatrale forse più rappresentativa, al momento, di Calderoni e le sue esperienze cinematografiche alla luce del suo «corpo-medium» (Gemini 2018), e della capacità camaleontica di adattarsi a contesti diversi.
2. «Sono nato due volte, prima una cosa e poi l’altra»
Partendo dalla spigolosa corporeità di Calderoni [fig. 1], MDLSX (2015) si presenta come un esperimento teatrale sulla (de)costruzione dell’identità di genere nella contemporaneità. L’ambito tematico dell’universo queer viene declinato secondo l’esigenza di offrire una possibilità altra rispetto al binarismo maschile-femminile. «Alla nascita è stato stabilito che io sono F ... senza coinvolgermi in nessun modo» pronuncia sul palco; l’obiettivo della performance è dunque quello di interrogarsi e creare domande rispetto all’assunto per cui il genere dell’individuo viene definito dal sesso genetico, manifesto, e dall’educazione derivante da questo.
Calderoni, che firma lo spettacolo con Daniela Nicolò, non porta in scena la sua vicenda personale ma una riscrittura di diversi testi intrecciati, in un abile gioco di montaggio e smontaggio, che coincidono comunque con una sua biografia emozionale. La dimensione fluida del discorso oscilla dalle riflessioni di Butler a Il pesciolino, commedia-monologo di Pasolini, dai lavori di Haraway e Preciado, già citati in precedenza, fino ad arrivare al riferimento più esplicito, già presente nel titolo, a Middlesex di Jeffrey Eugenides.
La parte realmente biografica di Calderoni è rimandata alla parte video in cui si alternano immagini di repertorio alle immagini live che con una telecamera da un cellulare l’attrice lancia sullo schermo, eppure in quello a cui assistiamo c’è una grande credibilità di fondo; esponendosi in prima persona la performer conferisce alla narrazione uno statuto di autorevolezza in cui il reale finisce con lo sconfinare nell’artistico e viceversa. La realtà gioca continuamente con il filtro della mediazione visuale combinando la storia di Silvia con quella di Calliope/Callie/Cal, protagonista del romanzo di Eugenides; entrambe sono cresciute come ragazze fino a scoprire, nell’adolescenza, un nodo irrisolto con la loro mascolinità.
Calderoni in scena fa da veejay e da deejay selezionando filmini della sua adolescenza e musiche tratte da una personale playlist. L’agile corpo si fa dispositivo narrativo: si veste, si spoglia, ondeggia seguendo il ritmo dei bassi e della batteria, balla, salta, corre decostruendosi fino alla liberatoria metamorfosi in sirena [fig. 2]. La gestualità è ostentata, la performance è tutta muscolare. Si presenta con barba e peli posticci in un’inesauribile opera di trasformismo [fig. 3], compie gesti ossessivi come quello dello spray di lacca spruzzato sui capelli, che si fa ‘segno’: la lacca ferma il ciuffo ribelle come la società cerca di ingabbiare l’identità in categorie, usa il laser [fig. 4] metaforicamente per segnare sul corpo un confine tra ciò che è noto e ciò che non lo è, un laser operatorio che richiama alla mente quella chirurgia incaricata di intervenire per riparare agli ‘scherzi’ della natura. Dall’esibizione violenta del proprio corpo nudo in opposizione alla timidezza e alla vergogna di cui a volte si carica la sua voce, alla condanna di non avere parole sufficienti ad esprimere tutte le emozioni, fino ad inserire testi fortemente connotati a livello politico e sociale, la sua corporeità mostra «lo spazio “plastico” della nozione di sessualità» (Tentorio 2017), l’ambiguità e allo stesso tempo l’ironia. La performance si fa così atto di ribellione verso una società claustro(omo)fobica che si nasconde dietro il valore esclusivo della ‘normalità’ per continuare ad esercitare il suo potere di controllo. La ricerca di Silvia/Cal in MDLSX non si limita alla definizione del proprio orientamento di genere ma va oltre riguardando l’accoglienza di coloro che sono «la diaspora rabbiosa […] i riproduttori falliti della terra, i corpi impossibili da mettere a valore nell’economia della conoscenza» (Preciado 2013).
Diverse sono poi le citazioni disseminate all’interno dello spettacolo che rimandano al cinema (lo spettacolo di per sè, per come è montato, ha una forte struttura cinematografica), punto di riferimento per il lavoro di Motus. Da La leggenda di Kaspar Hauser di Manuli, in cui compare Silvia protagonista e di cui a breve diremo, a un rimando a Gus Van Sant e al suo Cowgirl - Il nuovo sesso a una doppia citazione incrociata Hollywood/indie: Silenzio degli innocenti/Clerks II. Silvia sul palco ci dice di essere così e di non voler rinunciare a nessuna delle parti di sé per aderire a modelli, a categorie, che non le corrispondono e che rischiano di cancellare particolari della propria identità. Sulle note di Imitation of Life dei R.E.M. si opera l’accettazione paterna dell’identità di Silvia/Cal e le note finali degli Smiths chiedono solo Please, Please, Please, Let me get what I want.
3. Nuovi immaginari: Calderoni tra cinema e moda
Precedente all’esperienza di MDLSX è il film La leggenda di Kaspar Hauser (2012) di Davide Manuli, in cui Calderoni è protagonista. Il film dialoga intimamente con lo spettacolo di qualche anno dopo. In entrambi Calderoni rappresenta il fulcro della vicenda, o meglio è il suo corpo, la sua potenza motrice ad esserlo, un corpo che chiede spazio per un’esistenza libera.
Manuli sceglie il bianco e nero per la storia del fanciullo d’Europa, collocando la vicenda in un’atmosfera astratta, una Sardegna lunare, sconfinata e desolata (“luogo X”) di beckettiana memoria (non a caso Beket è il film precedente di Manuli), in un tempo indefinito (“anno zero”), dove i protagonisti sono abbandonati a loro stessi. «Un teatro disumano, che sta tra Bene e Grotowski e Murnau, si disegna sotto i nostri occhi» (Genna 2012). È Kaspar a far muovere tutti, un messia, un alieno, un performer che compie in loop il suo gesto artistico. Una vicenda che si snoda per capitoli molto lineari, sottolineati con titoli da film muto: l’arrivo di Kaspar Hauser, l’educazione di Kaspar Hauser, la sua uccisione. Così racconta Calderoni:
Davide è partito non dandomi uno spunto dell’esistente a cui assomigliare, ma da un’intuizione originaria di musica fatta carne, di un intreccio tra il divino e la techno. Un’invenzione radicale. Le tracce su cui abbiamo lavorato sono state il ritmo che diventava postura, l’ascolto che diventava autismo, e la condizione di animale, la beata ignoranza della bestia che pensa, ma diversamente (Persico 2018).
Silvia/Kaspar, biondissima/o, in tuta Adidas e cuffie nelle orecchie, è un essere indefinito, asessuato, probabilmente un portatore di vita, un essere da venerare o di cui servirsi (ricorda molto David Bowie ne L’uomo che cadde sulla terra, 1976). Il suo corpo approda sull’isola dal mare (“mare y”) e sul petto nudo ha scritto il proprio nome, unica cosa che ripete in continuazione come fosse la base per un pezzo dance «Io sono Kaspar Hauser», come se il corpo potesse divenire supporto sul quale scrivere la propria storia (elemento che ritroviamo anche in MDLSX) [fig. 5]. Un corpo sonoro, anomalo, adrenalinico, che si libera grazie alla potenza della musica. Sarà difatti la musica, quella elettronica di Vitalic, a rianimarlo e a far vibrare lungo tutto il film il suo corpo. Le uniche azioni che compie sono legate al mestiere di dj che lo Sceriffo (Vincent Gallo) prova a insegnargli [fig. 6], ma non appena Silvia/Kaspar entra in sintonia con la realtà viene ucciso divenendo così «carne di un’epifania» (Casi 2015). Un miracolo chiude il film: Kaspar, in tuta bianca con la scritta UFO, si ritrova in Paradiso in compagnia dello Sceriffo e della Veggente-Puttana (Elisa Sednaoui) per un dj-set assordante, in quanto «è proprio il dj-set l’essenza stessa di Kaspar: il suo destino, il suo paradiso, il suo unico mezzo di comunicazione» (Casi 2015). Il dj-set diventa alter ego del protagonista, sancisce, attraverso la combinazione di più opere, qualcosa di indefinibile, una diversità rivelatrice. Anche in questo caso, però, come in teatro, Silvia è se stessa, autentica, essendo nella vita anche dj (e ritorniamo nuovamente a MDLSX). In tutto il film, ma soprattuto nella scena finale, c’è quello che è stato definito da Giuseppe Genna, sceneggiatore insieme a Manuli, «accecamento corporeo» (Genna 2012). Gallo e Calderoni ballando non guardano; uno scatenamento corporeo a occhi chiusi, una declinazione orgiastica (nell’accezione di ‘ebbrezza travolgente’) vissuta attraverso il corpo sinuoso e snodato. Il corpo di Silvia/Kaspar va al di là del proprio confine, entrando in risonanza con quello dello spettatore (come accade anche in MDLSX), contagiato dal bombardamento di immagini sonore. Lo schermo, come il palco, è il luogo in cui Calderoni riesce a manifestare la sua corporeità in tutta la sua complessità. Una corporeità che però non tenta mai di ricreare dei caratteri verosimili, ma plasma, riuscendoci, degli universi paralleli.
Anche quando la presenza di Calderoni è circoscritta a brevi camei (Amori che non sanno stare al mondo di Cristina Comencini e Riccardo va all’inferno di Roberta Torre, entrambi del 2017), la sua presenza fisica catalizza lo sguardo dello spettatore. Flessuosa, barocca, sopra le righe, si muove in entrambi i film come a passo di danza (in Riccardo va all’inferno è addirittura protagonista di una caleidoscopica e coreografica parata [fig. 7]). Il suo corpo pop in bilico fra possibili identità si mette a completa disposizione nelle mani delle due registe e con la stessa curiosità di Alice nel Paese delle meraviglie entra nel mondo delle passerelle. La campagna Gucci per la Cruise 2018, una Roman Rhapsody dedicata agli abitanti di una Roma popolata da personaggi anticonformisti ed eccentrici e firmata da Mick Rock [fig. 8], ci restituisce una Silvia, di rosa vestita (con un cerchietto argentato sulla fronte che ricorda quasi una divinità antica), che ancora una volta gioca con gli stereotipi e si copre il volto con la mano privandoci della sua immagine, né maschio né femmina. E se Silvia/Cal e Silvia/Kaspar chiedevano allo spettatore «ora che mi guardate, ditemi chi sono?», la Silvia/modella in questa foto sembra negare ogni domanda mettendo ‘in scena’ la cancellazione, la reinvenzione della sua identità femminile in nome di una perenne metamorfosi.
L’ultima performance di Calderoni è invece un omaggio a quel cinema che l’ha sempre cibata di immaginari nuovi che convergono nel suo teatro. Si tratta di Chroma Keys (2018), presentato con Motus al Festival di Santarcangelo in piazza Ganganelli. La performer agisce su un tappetino verde con uno schermo di fondo dello stesso colore. A riprenderla è Daniela Nicolò (Enrico Casagrande è alla regia) e, mediante vecchi trucchi quali Truka e Chroma Keys, la rimanda su un grande schermo in un altro punto della piazza, inserendo la sua immagine in sequenze di film.
Da folli corse in macchina alla Godard, alla scena famosa de Gli Uccelli di Hitchcock si passa a paesaggi western, al volo sulle cime delle montagne o allo schianto in mare. Il cinema moltiplica la sua immagine senza limiti, creando identità illusorie, multiple, per cui si può essere chi si vuole in un inno «alle possibilità metamorfiche del lavoro d’attrice, della fantasia, dell’essere umano» (Marino 2018). Il cinema consente ancora una volta a Calderoni di sfidare il suo corpo e di scoprirlo mutevole, le permette di esprimere la sua totale libertà nel portare in scena il maschile e il femminile, pervenendo a quella perfezione che solo uno spirito con entrambe le componenti sessuali può raggiungere come ci ricorda Woolf in A room of One’s Own, facendo proprio un pensiero di Coleridge, secondo il quale «un grande spirito è androgino» (Franchi 2012).
Bibliografia
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