7.4. Metamorfosi, corpo, identità. Orlan e Cindy Sherman tra realtà virtuale e social network

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Tradizionalmente intesa come espressione del ‘divenire altro’ di un soggetto, la metamorfosi esibisce in sé il riferimento alla molteplicità dei corpi, delle identità e dei generi, configurando un medesimo essere attraverso forme diverse (‘meta-morphé’). Scandita da profondi mutamenti di segno, questa figura è un fenomeno del cambiamento che può conservare concretamente oppure soltanto alludere all’identità del soggetto di partenza, alla sua traccia materica, figurale e corporale. Nella visualità contemporanea la metamorfosi offre un paradigma in cui tale metafora ontologica e biologica enfatizza pratiche culturali e artistiche legate alla storia e alla tradizione del racconto per immagini della trasformazione, dell’ibridazione e del divenire. L’idea di una continua trasmutazione dell’essere e delle sue immagini rappresenta infatti un antico e tradizionale motivo, una sorta di «universale poetico» (Cometa 2017), che oggi sembra riflettersi nelle peculiarità della «società liquida» (Bauman 2000), incarnando l’identità mobile, eterogenea e instabile dell’individuo contemporaneo, spesso immerso in ambienti mediali (Montani, Cecchi, Feyles 2018). Nella sua figurazione e nel suo processo, la metamorfosi accoglie ed espone tecniche di manipolazione, pratiche e atti che ridiscutono regole, sistemi e confini strettamente connessi alle nozioni di corpo, identità, genere, tempo e spazio e alla loro rappresentazione. Arricchita da tali implicazioni, la metamorfosi è simultaneamente figura, processo e dispositivo del contesto mediale e visivo, che insiste soprattutto sui processi di manipolazione del sé e delle sue immagini.

Fra le artiste sperimentali, che scelgono di esprimersi attraverso il metamorfico divenire del sé, del proprio corpo e genere, enfatizzati dal ricorso ai nuovi media, Orlan e Cindy Sherman rappresentano due casi ormai storicizzati. Inizialmente espressione di due visioni contrastanti, talora opposte, della body art e delle sue derivazioni dagli anni Settanta in avanti, la loro esperienza artistica si ritrova oggi sul territorio comune e inaspettato della smaterializzazione e della virtualità, in un contesto nuovo e inedito, quello dello sciame digitale (Byung-Chul 2013) animato dalla tecnologia e dalla presenza ossessiva dei nuovi media. Da un lato, le opere di Orlan, contraddistinte da antiformalismo e anticonformismo, affrontano ed esplorano, sin dalla fine degli anni Sessanta, la dialettica fra l’io dell’artista e la moltitudine delle sue identità mutanti, oscillando fra «de-figurazione» e «re-figurazione» (si tratta dei termini utilizzati dalla stessa Orlan: «défiguration-refiguration») e rivendicando la riaffermazione di un corpo nuovo, diverso, emancipato, simbolo della libertà e della commistione con la tecnologia, un ‘software’ infinitamente aggiornabile e metamorficamente versatile. Dall’altro, Cindy Sherman, con i suoi progetti fotografici, rinuncia consapevolmente alla nozione e all’idea dell’immagine fotografica intesa come testimonianza e documento, realizzando e animando figure che esistono soltanto nel tempo e nello spazio dello scatto, nel suo universo chiuso e definito. Sherman sostituisce alla coppia formata dal corpo e dalla sua immagine la triade che si frammenta e articola in corpo, figura e immagine. Secondo questa prospettiva, la famigerata serie Untitled# sviluppa le possibilità del divenire, metamorficamente intese, lette alla luce di una dimensione iperrealista che de-mitizza la realtà, la sua messa in scena e il mito stesso (Baudrillard 1980; Krauss 1993). I gesti compositivi e l’estetica del peculiare rimontaggio dell’universo visivo e cinematografico operato da Sherman riecheggiavano all’inizio della sua carriera l’appropriazione artistica e l’idea che l’arte contemporanea debba e possa ridefinire l’arte in generale (Senaldi 2006), mentre oggi si schiudono alle pratiche ri-enunciative e post-produttive dell’immagine digitale. Dal 2017, ricorrendo all’atto compositivo del selfie, all’intervento di post-produzione sull’immagine del sé, coadiuvato da semplici applicazioni mobile, Sherman idealmente ri-colloca la sua sperimentazione artistica su Instagram. Al centro della riflessione estetica e teorica di Sherman, il corpo, il suo corpo, diventa il luogo privilegiato, reale e virtuale, attraverso cui plasmare trucchi, mascheramenti, trasformazioni e metamorfosi. Analogamente a quanto accadeva nel progetto Untitled Film Still (1970-1980), anche nel proprio profilo Instagram Sherman è modella di se stessa, ‘figura’ artefatta che interpreta personaggi grotteschi e comici. Allora come oggi non esiste un ritratto o un selfie dell’artista, mentre il ricorso smodato ed esibito alle applicazioni di editing rivela l’ironia e la consapevole discussione delle pratiche, delle strutture e delle convenzioni stabilite dai social media. Nei suoi selfie, Sherman ostenta il ricorso a Face Tune, You can Makeup, Face App, esacerbando l’artificiosa costruzione di un realtà simulata, basata sulla falsa corrispondenza fra immagine e referente [figg. 1-2]. Il profilo Instagram dell’artista sembra dunque in qualche modo proseguire quello che può essere definito uno studio sull’alterità, talvolta mostruosa, che si riflette sull’io e sul corpo di Sherman stessa, che ripete, interpreta, ‘incarna’ metamorficamente l’altro da sé. Persiste dunque anche sul social l’idea della serie, che contiene le nozioni di ripetizione e differenza (Deleuze 1968) di un medesimo corpo, quello di Sherman, che si svincola dal modello dell’identico, costruendo la propria singolarità e manifestandosi infine come pratica. Nella visualità contemporanea, il selfie può essere letto come un fenomeno di autorappresentazione di derivazione performativa, che mette in scena e incarna la rappresentazione dell’individuo esattamente come l’individuo desidera rappresentarsi: l’uso delle applicazioni e dei più comuni filtri da un lato concretizza «l’immagine immaginata» del corpo dell’individuo (Galimberti 2002), attraverso un movimento metamorfico gestito autonomamente che realizza ibridazioni di forme, corpi e generi, dall’altro manifesta la frammentazione e l’instabilità dell’identità digitale e delle sue immagini. L’azione, l’atto creativo di Sherman, avviene e ricade nella dimensione del virtuale, dell’universo dei social, realizzando rappresentazioni simboliche e simulacri del mondo e delle sue immagini che incidono sul reale, rilanciando una riflessione sulla donna, sul suo corpo e sulla sua identità; incidendo idealmente le viscere e le ferite già esposte in History Portraits (1989-1990), l’artista le trasforma in un irriverente e paradossale camuffamento, che con violenza si impone allo sguardo [fig. 3].

La drammatica manipolazione e alterazione del sé e del proprio corpo accomuna e avvicina, fra analogie e differenze, Sherman e Orlan. Quest’ultima, soprattutto a partire dagli anni Ottanta, esplora in modo radicale ed efficace il confine fra arte, scienza e biologia, avvalendosi di media e tecnologie diversi, affiancando alle opere di travestimento e camuffamento del sé e alla teorizzazione del Manifeste de l’art charnel (1984), una serie di performance metamorfiche irreversibili e reali, le operazioni chirurgiche, che incidono profondamente il corpo dell’artista (opération-chirurgicale-performance), meta-morphing virtuali (Self-hybridization, Entre Deux, 1994), installazioni e progetti di bio art (Le manteau d’Arlequin, 2007), e sconfinamenti nella realtà aumentata (Self-hybridations Masques de l’Opéra de Pékin, 2015). Se da un lato Sherman approfitta dello spazio e delle prassi dei social media, dall’altro Orlan occupa con la sua sperimentazione inquieta luoghi e circuiti espositivi internazionali, imponendo la propria riflessione estetica come punto di riferimento per l’arte contemporanea e il suo sistema critico e produttivo. Secondo questa prospettiva, appaiono particolarmente significativi i lavori presentati prima alla 55^ edizione della Biennale di Venezia (2013) e in seguito allo Shangai K11 Art Mall, esposti insieme a quelli di altri quattro artisti in una sezione emblematicamente intitolata The Metamorphoses of the Virtual. 100 Years of Arts and Freedom. Per quell’occasione, Orlan seleziona una serie di lavori che rivelano come l’artista, nel corso della propria sperimentazione, abbia costantemente manipolato, concretamente o virtualmente, il proprio corpo e il proprio aspetto, restituendo allo spettatore immagini, video, sculture e atti performativi diversi eppure simili. Nel video Flayed liberty and two Orlan bodies (breve estratto di tre minuti dal più complesso La liberté en écorchée, 2013) un perturbante avatar, senza pelle, produce e riproduce movimenti lentissimi, restituiti dal rallentamento dello slow-motion [fig. 4]. Il corpo messo a nudo di questo grottesco cyborg è modellato a partire da quello dell’artista ed espone, come in un postmoderno studio di anatomia, i fasci muscolari, i tessuti adiposi e le protesi artificiali che lo compongono e strutturano [fig. 5]. Orlan, privandosi idealmente della pelle, offre la propria intima e fisiologica natura, coniugando il registro del visibile riprodotto da una sui generis visione della macchina con dinamiche tipiche del gaming. Di fronte a questo video, realizzato con l’ausilio del 3D, lo spettatore esplora concretamente gli elementi costitutivi dell’estetica dell’artista (corpo, pelle, carne), e i codici di una mutazione che sia avvale di software, realtà aumentata, dispositivi di visione e «machines», considerate da Orlan «our allies».

All’interno e oltre il riferimento al corpo senza organi (Deleuze, Guattari 1972) e alla somaestetica di Richard Shusterman (2008), Orlan da qualche anno si avvale di avatar per realizzare trasmutazioni altrimenti impossibili: si pensi a questo proposito alla serie Self-hybridations Masques de l’Opéra de Pékin, che riprende la manipolazione sul sé inaugurata dalle Self-hybridations, associandola in questo caso all’azione performativa agita proprio dall’avatar dell’artista [fig. 6]. In queste opere, Orlan stravolge le tradizionali maschere dell’Opera di Pechino, riservate alla sola interpretazione maschile, esasperando il ricorso al virtuale e alla realtà aumentata intese come unica e ultima possibilità per contaminare e contaminarsi con queste antiche figure [figg. 7-8]. Il corpo dell’artista si smaterializza solo in apparenza per restituire un’esperienza che ancora una volta afferma la creazione di altri corpi, altri generi, altre identità.

La sperimentazione artistica e le teorizzazioni estetiche di Orlan e Sherman sembrano infine riconfigurare, attraverso l’esposizione e la manipolazione del sé realizzate con tecniche medium-based, il corpo, il genere e l’identità, in un vero e proprio viaggio esplorativo e conoscitivo, che dal particolare procede all’universale, dall’uno al molteplice.

 

Bibliografia

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