8.1. Corpi in mostra. Il Festival di Venezia e la promozione della moda Made in Italy nel secondo dopoguerra

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Il 5 settembre 2018 il capolavoro di Alain Resnais, L’anno scorso a Marienbad, è tornato al Festival di Venezia. Nel 1961, anno della sua uscita, il film vinse al Lido il Leone d’oro; oggi, dopo 57 anni, la pellicola è stata presentata nella sezione Venezia Classici, grazie al sostegno della Maison Chanel, che nella costruzione del film ebbe un ruolo importante – erano infatti di Gabrielle Chanel gli indimenticabili abiti creati per l’attrice Delphine Seyrig. Con il restauro e la digitalizzazione del film, la casa di moda francese ha voluto restituire alla sala una delle pellicole più importanti dal punto di vista del rapporto tra moda e film, tra abito e personaggio. L’anno scorso a Marienbad non ci racconta soltanto un sodalizio importante che si instaura tra una maison di alta moda e la visione del mondo di un autore. Il film va ben oltre. Osservando i personaggi immobili che occupano gli spazi imponenti ed eleganti del residence in cui si svolge (o non si svolge) il loro arco narrativo, notiamo che questi vengono trattati, da un punto di vista estetico, come dei veri e propri manichini il cui scopo principale è quello di fungere da supporto all’abito che li veste. I corpi dei protagonisti dialogano con le statue che dominano i grandi giardini esterni di Marienbad perché sembrano essere fatti della stessa materia. Delphine Seyrig si mette in posa nella sua stanza circondata da specchi per dare visibilità alla preziosa vestaglia Chanel decorata con piume nelle maniche e sul decolté, si siede a terra circondata da molte paia di scarpe e le ammira, le tocca come a cercare in loro una qualche consolazione. Nella quasi assenza di una struttura narrativa, il film di Resnais invita lo spettatore a considerare gli oggetti e i corpi, lo spazio e il linguaggio come elementi simili, privati di ogni forma gerarchica come afferma la voce narrante: «tutti i corpi si somigliano, così come tutte le vestaglie, le piume, tutti gli alberghi, tutte le statue, tutti i giardini» (L’anno scorso a Marienbad, 1h 05’).

Ci pare di poter affermare che il sodalizio tra la moda e il cinema (nazionale, o internazionale come nel caso del film di Resnais) trovi il suo territorio d’eccellenza proprio nel festival lagunare a partire dal secondo dopoguerra quando la moda italiana, dopo anni di crisi, torna ad esprimere tutta la propria capacità di mobilitazione economica e culturale, e conquista in breve tempo, attraverso la costruzione di canali di promozione differenti e capillari, una leadership nel mercato statunitense ed una diffusione internazionale senza precedenti. Tra le tante strategie messe in campo dall’haute couture italiana, la sinergia con il cinema, il più potente e persuasivo tra i veicoli di comunicazione, si rivela nettamente vincente.

Se è vero infatti che già partire dagli anni ’20 e ’30 la moda era diventata via via sempre più indispensabile per il successo di un film, in Italia i primi frutti di questa ‘collaborazione’ tra cinema e moda arrivano solo alla fine del conflitto bellico. Il binomio tra le due forme espressive infatti – entrambe specchio di un immaginario sociale capace di assecondare e illusoriamente contraddire la divisione in classi, cerchie e professioni (come Georg Simmel aveva efficacemente indicato nel suo imprescindibile saggio La moda nel 1910) – diventa allora mezzo indispensabile per una ‘promozione integrata’ che oltrepassa i confini dello schermo o dell’atelier per invadere lo spazio pubblico (i red carpet, i Festival) e quello industriale. Non è evidentemente casuale che le prime riflessioni sui rapporti tra cinema e moda siano nate proprio all’interno di un contesto come quello di un Festival.

A Venezia la relazione tra le due forme espressive viene sancita in una data precisa: nel 1949 (in concomitanza con la Mostra cinematografica), viene organizzato il primo Festival Internazionale dell’alta moda e del costume nel film. L’evento, che consiste in una serie di sfilate organizzate all’Hotel Excelsior e al Palazzo del Cinema del Lido (dove le stelle del grande schermo brillano immortalate e raccontate da fotografi, paparazzi e giornalisti), è affiancato da convegni ed iniziative pubbliche promosse dal Centro Italiano della Moda. Non vi era sede più adatta della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, afferma Antonio Petrucci, per «mostrare agli uomini del cinema le cosiddette ‘creazioni’ dell’alta moda e della costumistica, e agli uomini, o alle donne, dell’alta moda, i film e i costumi» (A. Petrucci, ‘Le manifestazioni di alta moda e costume nel film a Venezia’, in Verdone 1950).

L’eco dell’evento rimbalza ovviamente su tutti i periodici femminili che di fronte alla prospettiva di un ingresso della Moda nei linguaggi dell’arte, anziché costruire un unico racconto in sequenza, enfatizzano la cornice storica creando un accostamento tra abito e architetture. Questo atteggiamento è evidente sia nel servizio del settimanale Grazia ‘Anche la moda al Festival di Venezia’, (n. 448, 24 settembre 1949) che nell’articolo del mensile Bellezza dal titolo ‘Quattro giorni di moda a Venezia’ (n.10, ottobre 1950) dove il corpo femminile dialoga con i luoghi della città legati al cinema. In quella occasione gli stilisti infatti – come ben fa notare la più importante giornalista di moda dell’epoca Irene Brin – non si limitano a far girare le loro mannequin contro un qualunque sfondo lagunare o una qualunque spiaggia, ma le spingono fino agli spazi della Biennale e del Festival Cinematografico dove è spettacolo consueto vedere donne scendere dalle gondole in abiti da sera. Ma il racconto continua. Lasciati alle spalle i luoghi dell’arte si procede per le vie della città. Qui visoni, redingote e abiti da cocktail sono accostati ai grandi manifesti cinematografici: l’occhio della lettrice è catturato in egual misura dai modelli proposti e dai titoli dei film che occuperanno le sale nella stagione cinematografica invernale.

L’anno successivo, sempre su «Bellezza» (n.10, ottobre 1951) di nuovo Irene Brin ci introduce nel “Prodigioso settembre veneziano” descrivendo un itinerario delle iniziative dedicate alla moda. Non può certo mancare, dopo la mostra di Tiepolo ai Giardini e la visita al Teatro, un accenno al «serissimo congresso» riguardante il futuro della moda nel cinema; la «Viaggiatrice» [ideale] si sposta poi verso i due luoghi simbolo del cinema veneziano, l’Hotel Excelsior e il Lido, dove, tra tavolini affollati e tappeto rosso, può sfoggiare gli ultimi eleganti modelli di Schuberth, Carosa, Fercioni e Antonelli mostrati nelle pagine stesse. I luoghi simbolo della Mostra cinematografica ritornano quindi ad essere palcoscenico per i romantici e moderni abiti Made in Italy.

Il culmine di questo processo di associazione tra cinema e moda si raggiunge in maniera esplicita in un articolo ancora del 1950 il cui titolo ‘Richiamo d’ottobre’ (Bellezza, n.10, ottobre 1950, pp.72-73) – che sembra un richiamo alla compostezza e alla quiete dei giorni autunnali in cui si chiude il sipario sugli show e si aprono le porte dei cinema – è una spia assai significativa. Esso si riferisce infatti alle proposte della stagione – i primi mantelli guarniti di pelliccia – ma anche al titolo italiano del film The Return of October (di Joseph H. Lewis, 1948) il cui manifesto fa da sfondo al racconto per immagini di «Bellezza» diventando co-protagonista della storia. Si crea qui un gioco di rimandi e di specchi.

Tra i titoli che leggiamo sullo sfondo, troviamo anche Cronaca di un amore di Antonioni, film che, nel lanciare l’immagine divistica di Lucia Bosè, collabora alla costruzione di una permeabilità sempre più evidente tra moda e cinema. Non è affatto casuale che la giornalista Elsa Robiola, in occasione del convegno veneziano sopracitato del 1949 (Festival internazionale dell'alta moda e del costume nel film, 7-9 settembre 1951. Atti del convegno, Venezia, Centro internazionale delle arti e del costume Palazzo Grassi, Milano, Pubblistampa, 1951), individui la giovanissima attrice come unica figura capace di veicolare la moda attraverso il cinema e viceversa nel contesto della nascente industria del Made in Italy. Il film di Antonioni non solo introduce – con l’aiuto dello scenografo e costumista Ferdinando Sarmi – una nuova rappresentazione della donna, ma conduce anche la moda all’interno del plot con l’obiettivo di raccontare un paese che, all’indomani del conflitto bellico, cerca di costruirsi una identità rinnovata. (si veda a questo proposito Campari 1984).

Come è stato a lungo evidenziato, l’indagine psicologica della donna gioca un ruolo chiave nella filmografia del regista, tuttavia l’attenzione alla sua rappresentazione estetica non è certo meno importante. Pensiamo per esempio al suo quinto lungometraggio Le amiche (1955) dove la donna non è mai un corpo da contemplare; è invece un soggetto da sviscerare e indagare nei suoi aspetti meno tangibili. A differenza di Pavese, Antonioni sceglie di ambientare il racconto in una Torino grigia e anonima. È nell’ambiente urbano che la donna trova la via per costruire il suo futuro (anche imprenditoriale). Clelia, inviata dall’atelier romano per cui lavora (implicitamente il riferimento è alla sartoria delle Sorelle Fontana che vive una fase di grande espansione a metà degli anni ’50 e firma i costumi del film) cerca di proporre a Torino un nuovo modello di donna: socialmente emancipata e portatrice della neonata moda italiana. Le amiche vince il Leone d’Argento al Festival di Venezia, non senza polemiche dato che l’adattamento all’opera di Pavese da parte di Michelangelo Antonioni, Suso Cecchi d’Amico e Alba de Céspedes si prende, com’è noto, diverse libertà, soprattutto in funzione dell’ambientazione della storia. Ci pare dunque di poter affermare che, almeno nel decennio preso in considerazione, la promozione integrata di cinema e moda trovi nella città lagunare il suo luogo di elezione. Come afferma, se vogliamo anche provocatoriamente, una didascalia al servizio fotografico di Bellezza: «si pensa che soltanto qui la moda abbia ragione di esistere» (Bellezza, n. 10, ottobre 1950, p. 31). La performatività intrinseca delle figure femminili interpreti dell’alta moda italiana, infatti, esce dagli atelier e dalle sartorie e si manifesta pubblicamente, scegliendo come veicolo principale la settima arte.

 

 

Bibliografia

R. Campari, ‘Le Fontana e il cinema’, in G. Bianchino, R. Bossaglia (a cura di), Sorelle Fontana, catalogo della mostra, Salone delle Scuderie in Pilotta, Parma, 1984.

V. C. Caratozzolo, Irene Brin. Lo stile italiano nella moda, Venezia, Marsilio Editori, 2006.

M.L. Frisa (a cura di), Lo sguardo italiano. Fotografie italiane di moda dal 1951 a oggi, Rotonda di via Besana, Milano, 25 febbraio-20 marzo 2005, catalogo della mostra, Milano, Charta - Firenze, Fondazione Pitti Immagine Discovery, 2005.

M.L. Frisa, A. Mattirolo, S. Tonchi (a cura di), Bellissima. L'Italia dell'alta moda, 1945-1968, Milano, Roma, MAXXI, Electa, 2014.

G. Simmel, La moda, a cura di L. Perucchi, Milano, Piccola Enciclopedia, 1996.

M. Verdone (a cura di) La moda e il costume nel film, Roma, Bianco e Nero, 1950

Festival internazionale dell'alta moda e del costume nel film, 7-9 settembre 1951. Atti del convegno, Venezia, Centro internazionale delle arti e del costume Palazzo Grassi, Milano, Pubblistampa, 1951.

 

Articoli

Erti,Anche la moda al Festival di Venezia’, Grazia, n. 448, 24 settembre 1949, pp. 24-25.

I. Brin, ‘Quattro giorni di moda a Venezia’, Bellezza, n. 10, ottobre 1950, pp. 20-27.

‘Richiamo d’ottobre’, Bellezza, n. 10, ottobre 1950, pp. 72-73.

I. Brin, ‘Prodigioso settembre veneziano’, Bellezza, n. 10, ottobre 1951, pp. 18-25.