L’attore non-professionista ‘preso dalla strada’ è stato al centro del cinema neorealista italiano. L’uso di questa pratica ebbe implicazioni particolari per le giovani donne che al tempo si avvicinarono alla cinematografia: in tale contesto, infatti, l’identità dell’attrice e quella della prostituta in parecchi casi si confusero nel discorso sulla sessualità femminile pubblica, come da sempre. Questa continuità discorsiva fra la recitazione e la prostituzione – (ciò che Danielle Hipkins chiama ‘identità borderline’) – per le ragazze e per le donne si radicalizza nel dopoguerra, quando l’industria cinematografica italiana ne accoglie in grandi quantità senza preparazione teatrale o cinematografica. In questo articolo mi concentrerò in particolare sul caso di Carmela Sazio, la ragazza contadina reclutata da Roberto Rossellini per la produzione di Paisà (1946), ormai divenuto un classico neorealista. Il caso di Carmela sarà poi contestualizzato entro il fenomeno più ampio del coevo processo di femminilizzazione del divismo italiano; nello specifico, mi preme qui metttere in rilievo il fatto che le ragazze che desiderano recitare nel cinema vengono considerate sia pericolose che patetiche, e quindi, secondo Kirsten Pullen, risultano essere allo stesso tempo tanto minacciate dall’industria cinematografica quanto una minaccia per i produttori.
Carmela Sazio fu scoperta da Rossellini mentre camminava per la campagna vicino al suo villaggio di Santa Maria la Bruna, in Campania. Già nel genniao del 1946 l’immagine del suo volto, e soprattutto la notizia di essere stata ‘scoperta’ da Rossellini, furono impiegati nella promozione del film ancor prima dell’inizio delle riprese, come conferma un articolo in ʻCinetempoʼ: «La protagonista sarà una semplice fanciulla scoperta ipso loco; una ragazzotta del Napoletano, tutta furia, dai tratti marcati, arcigna e rude» [fig. 1].
Il linguaggio utilizzato dall’estensore anonimo dell’articolo colpisce per la sua schiettezza, in particolare quando l’enfasi viene posta sulla rudezza della ragazzina, allora quindicenne. Questa retorica si ripete nelle valutazioni degli uomini, italiani e non, chiamati a descrivere Carmela. Qui basteranno alcune citazioni. Giorgio Salvioni, sulla rivista ʻStarʼ del marzo del 1946 la descrive così: «La ragazza selvaggia, che Rossellini è riuscito a trovare per il film Paisà, è una popolana semplice, scontrosa, che solo adesso scopre i segreti della “vita civile”»; comunque Salvioni rassicura i lettori che Carmela possiede una bellezza tutta naturale: «Senza sapere che cosa fosse il cerone o il più piccolo tocco di belletto» la pelle ha «una straordinaria freschezza e luminosità». Si fa esplicita anche una narrazione in cui Rossellini assume il ruolo di Pigmalione nei confronti della giovane Carmela: «Lentamente nella troupe di Rossellini è nata una “signorina” Carmela [...] Carmela è nata veramente solo qui». Rossellini stesso, in un’intervista rilasciata nel 1973, dichiarò perfino che per lui «Carmela […] era come una specie di animaletto che non capisce, che si muove solo per impulso».
Massimo Mida, aiuto-regista sul film, fornisce la descrizione più dettagliata della ragazza meridionale: «Ragazzotta quindicenne, dai muscoli di cavallerizza, impegnava a testa bassa, veri e propri combattimenti taurini». Secondo lui, Carmela avrebbe avuto «una bambinesca mentalità, retrograda, ma non insensibile ad una maniera di vita civile», malgrado il fatto venisse da «un vero e proprio villaggio troglodita». Carmela viene dipinta come un essere selvaggio, con ‘reazioni violente’, e Rossellini fu costretto a minacciarla fisicamente per farla recitare bene. Anche qui affiora un topos che evoca la trama di Pigmalione: «Carmela si è poco a poco svezzata in mezzo alla troupe […] anche il suo passo si è fatto leggermente più spedito e meno pesante» [figg. 2-3].
In più, traspare dal discorso critico una forte fissazione sul corpo di Carmela, il quale risulterebbe perturbante e quasi minaccioso: secondo Brunello Rondi «il corpo gonfio, sgraziato di Carmela Sazio, quella massa arruffata di capelli, quegli occhi orlati dal nero delle immense occhiaie e la bellezza che si indovina segreta di quei lineamenti». La ‘naturalezza’ del suo fisico (il quale, per Mida, è essenzialmente meridionale: «quel corpo tutto d’un pezzo, naturale del resto alle donne meridionali, larghe di fianchi») per lo spettatore straniero, invece, è scioccante. Il critico americano Robert Warshow, nel suo saggio su Paisà del 1948, dichiarò che il corpo della ragazza era «per un americano quasi ripugnante nella sua mancanza di fascino, e allo stesso tempo perturbante nella sua suggestione insistente che il fascino sia irrilevante. […] Alla fine della sequenza, quando si intravede il corpo morto disteso sulle rocce, appena più sgraziato di quando era vivo, esso raccoglie nella sua presenza visibile il significato drammatico dell’episodio».
Il suo corpo diventa un feticcio del reale: lo studioso americano Peter Brunette ne constata l’effetto nel 1987:
Quando lo spettatore (mi limito qui necessariamente al punto di vista maschile) si trova di fronte una donna “reale” sullo schermo, un’attrice non-professionista senza glamour, viene stabilita una sensazione involontaria di rischio. […] A me sembra che la stessa presenza della ragazza – sciatta e direttamente sensuale, in una maniera che nessuna vera attrice avrebbe rischiato – fa sì che l’incontro con Joe sembri fuori controllo.
Lo spettatore è pienamente consapevole che Carmela non recita, o almeno che la sua recitazione non è il prodotto di una formazione professionale. Carmela rappresenta un ‘rischio’ per lo spettatore, nel senso che lui è costretto ad abbandonare il paradigma della recitazione cinematografica convenzionale. Ma c’è anche un rischio per la ragazza, che qui si assume ‘l’identità borderline di attrice/prostituta’. Inoltre, i pericoli trovano ulteriori sviluppi in quello che sarebbe successo alla ragazza durante e dopo il suo incontro con l’apparato cinematografico. Ed è proprio in questo contesto che l’esperienza di Carmela assume tratti di esemplarità caratteristici della situazione dell’attore non-professionista, più comunemente coinvolto nelle pratiche di produzione del neorealismo. Che cosa le succederà dopo quella che, secondo André Bazin e altri, dovrebbe essere un’esperienza unica, irripetibile?
Per Carmela il ‘dopo’ fu difficile; secondo Mida:
Era un problema scottante: che cosa ne faremo di lei, una volta finita la parte. Con Rossellini ne parlammo come di un caso psicologico, caso umano, probabilmente irresolubile. Aveva incontrato un mondo nuovo, toccato con le proprie dita comodità e conforti. Carmela purtroppo diventò un caso pietoso. Così, tornata in famiglia nel suo borgo sperduto, non si riadattò alla più dura realtà del paese. Forse qualche giovanotto di poco scrupolo ne approfittò […] Qualche anno dopo venimmo a sapere che, tornata in mezzo ai suoi diseredetati, Carmela si era data alla vita.
Mida descrive Carmela in modo molto suggestivo come «la prima vittima, dunque, del neorealismo. Purtroppo non fu la sola».
L’esperienza di Carmela viene descritta da uomini potenti, attraverso racconti i cui contenuti ormai non sono più verificabili. La sua storia finisce lì, e non sono riuscita a trovarne altre tracce dopo la sua partecipazione in Paisà. Per l’attore non-professionista il doversi ridattare alla vita normale dopo l’esperienza sul set rappresenta un problema, che perdura da Ladri di biciclette fino ai nostri giorni, con esempi clamorosi come Slumdog Millionaire. Ma per le ragazze e le donne dell’epoca di Carmela questa mancata riconciliazione era particolarmente grave. Il sottotesto del commento di Mida – a proposito del fatto che forse qualche giovanotto si fosse approfittato di Carmela quando la ragazza fece ritorno fra i suoi ‘diseredetati’ – è che la gente probabilmente la considerava ‘contaminata’ per via dei suoi trascorsi nell’industria del cinema. È un pregiudizio che si nota anche nei commenti di Francesco Rosi a proposito delle riprese di La terra trema di Visconti ad Aci Trezza nel 1948: le donne difficilmente si lasciavano convincere a stare davanti alla macchina da presa. Questa modestia riguardava in particolare due ragazze del paese, Nella e Agnese Giammona (Mara e Lucia nel film), che non volevano recitare per paura di essere considerate ‘perse’. Timori analoghi si verificarono per le riprese di Due soldi di speranza di Castellani, girato nel napoletano nel 1952.
Il contesto più ampio di questi casi individuali non va però trascurato: come ha dimostrato Lucia Cardone, una rivista di sinistra come Noi donne rappresentava il cinema come un pericolo morale per ragazze. Un passaggio di un articolo della scrittrice Fausta Cialente apparso sulla rivista nel 1950 esprime bene questa idea: «Appena una ragazza è ben piantata su due gambe dritte e snelle ed ha una grazioso visetto, eccola che sogna […] cinema e teatro, la notorietà prima, poi la celebrità, e onori, e lusso sfrenato, tutte altre donne morte d’invidia […] proprio come nei fumetti». L’articolo riguardava il caso di Isolina Cipriani, una ragazza diciasettenne suicidatasi dopo aver raggiunto Roma per seguire il sogno di diventare attrice. Isolina, sentenzia Cialente, «non ha saputo resistere alle menzogne d’un mondo corrotto» e il suo esempio «dovrebbe rammentare alle ragazze, alle mamme, alle famiglie, che invece di sognare le Anna Magnani e le Silvana Mangano, o addirittura le Ingrid Bergman, dovrebbero decidersi a rappresentarsi la vita teatrale e cinematografica quale essa è in realtà».
Soltanto che per molte giovani il cinema rappresentava, in quel momento difficile del secondo dopoguerra, un’occasione preziosa per guadagnare denaro. In più, il fenomeno delle Miss come Sophia Loren and Gina Lollobrigida, arrivate alla fama cinematografica attraverso i concorsi di bellezza e dunque qualificate per il cinema soltanto per via della loro avvenenza fisica, venne commentato negativamente da molti giornalisti. Queste attrici improvvisate «si rovinano come donne e come attrici», dichiarò Michele Gandin sulle pagine di Cinema Nuovo nel 1953 [fig. 4].
Il caso di Carmela ovviamente è molto particolare. Comunque esso illustra il nesso tra corpo femminile e realismo, non meno che quello tra la recitazione e la prospettiva maschilista sulla sessualità femminile. Inoltre, questa esperienza specifica ci permette di riflettere sulla difficoltà per molte di queste ragazze di partecipare attivamente alla loro rappresentazione discorsiva. Carmela, ‘scoperta’ come un corpo ‘autentico’ e primitivo, muore eroicamente alla fine del suo episiodo del film di Rossellini, ma viene tragicmente misconosciuta dai soldati americani che la ritengono una traditrice. Stefania Parigi sostiene che «la morte di Carmela [nel film] è un sacrificio non riconosciuto». Anche fuori del film.
Bibliografia
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P. Brunette, Roberto Rossellini, Berkeley e Los Angeles, University of California Press, 1987, p. 72.
L. Cardone, Noi donne e il cinema. Dalle illusioni a Zavattini (1944-1954), Pisa, ETS, 2009.
F. Cialente, ‘Un triste “fumetto” vero’, Noi Donne, n. 41, 15 ottobre 1950, p. 3.
M. Gandin, ‘Fanno il cinema guardandosi allo specchio’, Cinema Nuovo, 15 marzo 1953, pp. 180-81.
D. Hipkins, Italy’s Other Women: Gender and Prostitution in Italian Cinema, 1940–1965, Oxford, Peter Lang, 2016.
M. Mida, ‘Dal diario di lavorazione di Paisà: Carmela e Roberto’, Film Rivista, v. III, n. 13, 15 agosto 1946, (ora in A. Aprà (a cura di), Il dopoguerra di Rossellini, Roma, Cinecittà, 1995, pp. 92-93).
M. Mida, Compagni di viaggio: colloqui con i maestri del cinema italiano , Torino, ERI, 1988.
M.T., ‘Informazioni dal meridione. Quel che s’è fatto e si vuol fare a Napoli’, Cinetempo, II, 19, 24 gennaio 1946, p. 9.
S. Parigi, Paisà: analisi del film, Venezia, Marsilio, 2005, p. 50.
K. Pullen, Actresses and Whores: On Stage and in Society, Cambridge, CUP, 2005, p. 2.
B. Rondi, Il neorealismo italiano, Parma, Guanda, 1956, p. 142.
F. Rosi, ‘Diari di lavorazione’, in S. Gesù (a cura di), La terra trema: un film di Luchino Visconti, Comiso, Salarchi, 2006, pp. 57-128.
G. Salvioni, ‘Carmela scrive a Rossellini’, Star, v. III, n. 13, 30 marzo 1946, p. 3.
R. Warshow, ‘Paisan’ (1948), in The Immediate Experience: Movies, Comics, Theatre and Other Aspects of Popular Culture, Camridge, Harvard University Press, 2001, pp. 222-223.