9.2. Un caso di emancipazione fittizia: venticinque anni di Donnavventura

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Il caso studio che prendo in esame per questo breve intervento è Donnavventura, un programma che viene trasmesso su Rete4 più o meno immutato dal 1989, e che ad una prima inconsapevole lettura può essere considerato uno show che favorisce e promuove l’emancipazione femminile.

Donnavventura è un docu-reality di viaggio prodotto da San Marco per Mediaset, nel quale alcune giovani donne vengono selezionate per condurre lo spettatore alla scoperta di mete esotiche e avventurose. Gli oltre venti anni di successo lo rendono uno dei prodotti più longevi della storia della televisione generalista italiana.

Il programma, che si propone di far vivere allo spettatore l’emozione di un viaggio avventuroso narrato da quelle che ci vengono proposte come giovani e dinamiche aspiranti reporter, è un oggetto televisivo patinato con la pretesa di offrire il racconto di un femminile emancipato e vitale.

Il risultato, come vedremo, è che spesso la narrazione cade, non senza un significativo compiacimento, in dinamiche vetero-sessiste che sono lontane da un’effettiva promozione dell’emancipazione femminile e molto più vicine ad una avventurosa edizione di un concorso di bellezza.

Le selezioni delle concorrenti avvengono, analogamente a come accade per concorsi e reality, su base locale fino ad arrivare ad un week end in Val d’Aosta per le cento concorrenti selezionate, a cui segue un successivo step di perfezionamento per le ultime dieci finaliste.

Tutte le fasi delle selezioni sono riprese e montate e fanno parte della struttura del programma, che da alcuni anni ha anche una diffusione on-line tramite il sito dedicato (www.donnavventura.com) e la piattaforma Mediaset Play che si aggiunge alla più canonica messa in onda su Rete4. La collocazione del programma nel palinsesto di rete è storicamente relegata ai fine settimana e in orari prandiali o pomeridiani.

Fin dalla fase di selezione, nella narrazione del docu-reality la relazione con i molti sponsor risulta vitale allo sviluppo della sua trama. Nel sito stesso esiste una sezione ʻboutiqueʼ in cui si possono acquistare tutti gli abiti indossati dalle ragazze che rappresentano «una proposta dedicata a tutte le donne che amano vivere all’aria aperta, affrontando con determinazione e volontà le sfide e le avventure quotidiane».

Le concorrenti alla prova finale devono dunque incarnare lo spirito proposto dal main sponsor e sono quindi sottoposte a prove di resistenza – dormire in tenda, lavarsi spartanamente, affrontare percorsi avventura – e anche a prove di scrittura di piccoli testi e improvvisazione davanti alla telecamera. Una parte rilevante è dedicata anche a prove trucco e set fotografici per verificare l’effettiva telegenia in situazioni statiche e dinamiche. [figg. 1-2]

La selezione viene curata dagli autori del programma insieme al direttore di Rete4, che personalmente prende parte alla scelta delle ragazze che partecipano poi alla fase finale dell’addestramento, ovvero il bootcamp in una caserma degli Alpini.

L’inquadramento a metà tra il militaresco e la gita con i boyscout, che da principio risulta naïf nella fase con la sveglia all’alba e la tisana sponsorizzata bevuta attorno al fuoco, nella seconda fase dello show assume un carattere grottesco. L’addestramento ʻmilitareʼ riservato alle dieci finaliste si ripromette di plasmare in due giorni delle piccole soldato Jane pronte all’avventura, e prevede il pernotto in caserma e un training para-militare in cui si salta la corda, si striscia a terra e si spostano pneumatici. L’aspetto grottesco della questione, oltre all’evidente drammatizzazione dell’addestramento assolutamente privo di reale fondamento, risiede nell’abbigliamento delle giovani concorrenti che si prestano agli sforzi fisici richiesti indossando scarpe da passeggio e jeans o shorts, sempre pettinate e truccate perfettamente. Tramite l’esibizione dell’inquadramento para-militare si tende dunque a proporre un modello di donna mascolinizzata, che si deve considerare emancipata per via della sua adesione a canoni di comportamento tipicamente maschili, associati a forza e coraggio. Parallelamente le ragazze sono invitate a mantenere le caratteristiche prettamente femminili di grazia e di bellezza casual e acqua e sapone, in un modello che corrisponde ad un fittizio empowerment ad uso e consumo delle telecamere [figg. 3-4].

Nella fase di selezione finale, come nella precedente, le ragazze sono invitate a tenere un diario nel quale descrivere le proprie emozioni e sensazioni rispetto all’avventura che stanno vivendo, e che funge da test per verificare la loro completezza come reporter. Nei diari, tutti simili tra loro e accessibili on-line, le tematiche che ricorrono sono legate all’amicizia con le altre ragazze e all’esperienza unica e arricchente di avventura e libertà che fornisce la partecipazione al programma.

Uno dei paradossi di questa trasmissione risiede nella pretesa di trovare, in primo luogo, delle reporter che possano descrivere con coerenza ed originalità i luoghi che visiteranno. Per questo alle selezioni ci vengono presentate giovani studentesse universitarie o neo laureate, che però corrispondono tutte ad un profilo etero-normato e a canoni di bellezza che non superano la taglia 42.

Le vincitrici delle selezioni sottoscrivono un rigido regolamento-contratto che tra le altre cose vieta contatti con l’esterno tramite Internet o telefono per tutta la durata del viaggio, e nel quale si conferma la forma mentis militare ampiamente esibita nelle selezioni.

Il contratto, seppur pubblicato sul sito della trasmissione (https://www.donnavventura.com/policy.asp?pagina=regolamento), non è mai menzionato nella narrazione vera e propria del programma, eppure merita un approfondimento soprattutto sui punti riguardanti il cibo e il vestiario.

Il punto 14, ad esempio, prevede che le Donnavventura – le selezionate assumono questo titolo – non possano indossare null’altro che gli abiti forniti dalla redazione, che devono essere tassativamente restituiti entro quindici giorni dalla fine del viaggio. Nei punti successivi si chiarisce inoltre che le ragazze non possono distinguersi in alcun modo dalle altre indossando piercing, orecchini o monili. Tutto deve concorrere a proporre un’immagine omologata e perfettamente allineata. Le Donnavventura devono essere perfette: perennemente senza mestruazioni e senza peli superflui, e come da contratto devono sfoggiare identici outfit che vengono giornalmente indicati dal caposquadra. Le ragazze sono giovani, tutte mediamente belle, poco formose ed atletiche, stereotipate ʻBarbie-avventuraʼ, raccontate come delle intrepide avventuriere e poi di fatto telecomandate aspiranti reporter con una lista infinita di incombenze (scattare foto, scrivere reportage, andare a cena con le autorità locali).

Gli abiti, poi, sono spesso incongrui rispetto alle località impervie che le ragazze visitano. Le Donnavventura vestono di bianco in luoghi polverosi o difficilmente accessibili, oppure indossano striminziti shorts griffati mentre sono in sella a cavalli selvaggi. Sempre molto poco vestite, a fornire un’immagine vincente e dinamica ma allo stesso tempo sexy e moderna, simile ai criticati spot pubblicitari degli assorbenti dove le donne riprese mentre si tuffano dalla scogliera ʻhanno davvero il cicloʼ.

Un altro aspetto interessante è quello relativo al cibo. In controtendenza rispetto alla presenza massiccia di approfondimenti culinari nei programmi televisivi, in questo docu-reality raramente vediamo le ragazze nutrirsi durante le riprese. Nel contratto sottoscritto dalle partecipanti è scritto nero su bianco che per le Donnavventura è proibito mangiare o fare uno spuntino in autonomia; devono tutte pranzare e cenare alla stessa ora, e hanno il divieto assoluto di bere alcolici, venendo quindi retribuite anche per restare perfette ed in forma durante i mesi di viaggio.

Il controllo del cibo non fa che confermare quanto il focus del programma sia esclusivamente legato ai corpi femminili – ben curati, abbronzati, perfetti –, che si fanno simulacri dei luoghi presentati nei documentari, anch’essi tutti belli, perfetti, incontaminati. Nei riguardi della narrazione dell’alterità e della povertà di molti dei Paesi che vengono attraversati delle ragazze, sussiste un’immagine fortemente stereotipata. Non è questa la sede per affrontare questo aspetto, ma senza dubbio lo sguardo colonialista degli autori si riflette anche nella relazione con ʻl’indigenoʼ: solitamente donna, portatrice orgogliosa delle proprie radici, tollerata nonostante le sue ʻstranezzeʼ come monili e tatuaggi. Uno sguardo senza alcun dubbio europocentrico e incline al pietismo, che rientra perfettamente nei canoni della rete più conservatrice di Mediaset che trasmette il programma. Del resto, grazie alla sua collocazione nel palinsesto di Rete4, il maggiore pubblico di questa trasmissione resta quello composto da casalinghe ed anziani che vengono catturati dalle bellissime immagini, e blandamente solleticati ad acquistare per figlie e nipoti un cappello a falda larga con carta geografica stampata su fondo marrone.

Donnavventura più che un docu-reality naturalistico è una sfilata di moda che dura da venticinque anni, in cui ragazze bellissime e perfette abitano i luoghi del mondo e ci invitano ad osservarle in un misto di voyerismo e incentivo all’emulazione di un modello assolutamente irrealistico, che tuttavia sembra godere di un successo pressoché senza fine.

 

 

Bibliografia

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