Adattare l’inadattabile. James Franco rilegge AsI lay dying di William Faulkner

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Il saggio focalizza l’attenzione sul recente adattamento del romanzo As I Lay Dying (1930) in quanto primo tentativo cinematografico che mira a ricreare visivamente le peculiarità della scrittura di Faulkner. Un coro di quindici voci compone l’odissea della famiglia Bundren, il cui pellegrinaggio attraverso la mitica Contea di Yoknapatawpha fa da contrappunto al viaggio individuale dei singoli personaggi, espresso dal monologo interiore di ognuno di essi. La moltiplicazione del punto di vista, i continui salti temporali e il flusso di coscienza, nel quale si confondono realtà e sogno, rappresentano una vera e propria sfida per il mondo del cinema, raccolta solo di recente dall’attore e regista James Franco, nell’omonimo film del 2013. Attraverso un puntuale confronto col testo di partenza, il presente contributo analizza le strategie e le tecniche cinematografiche con le quali il regista ha tradotto per il grande schermo gli elementi narrativi del romanzo, in maniera originale e innovativa.

The essay focuses the attention on the recent adaptation of the novel As I Lay Dying (1930), because is the first cinematographic attempt that aims at visually creating the features of Faulkner’s writing. A chorus of fifteen voices composes the Bundren’s odissey, whose peregrination through the fictional County of Yoknapatawpha makes the counterpoint to the individual journey of the singles characters, expressed by various interior monologues. Multiple points of view, continuos time-jumps and stream of consciousness, in which reality and dream are confused, keep challenging the language of cinema. The actor and movie director James Franco accepted this challange in the 2013 film homonymous. Through a detailed comparison between the film and the novel, this paper analyzes strategies and cinematographic techniques exploited by the director to translate the narrative elements of the novel, in an original and innovative way

1. Adattamenti: non solo cinema

Benché non si tratti di un fenomeno moderno, quello degli adattamenti investe oggi i più disparati settori artistici e poiché si tratta di un processo culturale in larga espansione, merita una particolare attenzione nel campo della letteratura comparata.

Siamo circondati da ‘riscritture’: non solo cinema, televisione o teatro, ma anche web series, fumetti, videogiochi e parchi a tema possono essere il prodotto finale di un adattamento. La critica non è sempre unanime nel definire cosa è e cosa non è adattamento, ma la tendenza è spesso quella di considerarlo come un’opera minore o ancillare all’‘originale’, come spesso accade nel caso di film tratti da romanzi. [1]

E quando ad essere adattato sul grande schermo è uno dei romanzi più sperimentali e ambigui del modernismo americano, di certo il confronto è inevitabile; a maggior ragione se l’autore è un Premio Nobel di nome William Faulkner e il regista un eclettico James Franco.

 

2. James Franco e William Faulkner: l’incontro fra due mondi

James Franco non è solo una giovane icona del cinema di Hollywood, ma è un artista poliedrico che vive l’arte in tutte le sue forme. L’attore che nei panni di James Dean (James Dean, di Mark Rydell, 2001) e in quelli di Henry Osborn nella trilogia Spiderman di Sam Raimi (2002-2007) ha conquistato il pubblico internazionale, si alterna infatti fra cinema, teatro e televisione, scrive poesie e short stories, coltiva la passione per la pittura e realizza installazioni di videoarte. Non di minore importanza è la sua passione per la letteratura, che lo ha portato ad affiancare il lavoro sul set con gli studi presso l’Università di Yale, dove consegue il dottorato in Lettere.

È proprio qui che nasce l’idea di reinterpretare, attraverso una serie di adattamenti, autori come John Steinbeck, Cormac McCarthy e in particolar modo William Faulkner, lo scrittore che sin dagli anni Trenta ha attratto il cinema di Hollywood, ma che allo stesso tempo ha rappresentato una sfida per il suo stile sperimentale. Considerato come l’autore americano più innovativo del movimento modernista, Faulkner portò agli estremi le tecniche tipiche del romanzo sperimentale e fece dello stream of consciousness la sua cifra stilistica, tanto da aver meritato l’appellativo di «sotto-Joyce americano».[2] Proprio sulla scia di Joyce, Woolf e Proust, presenta una scrittura complessa e vertiginosa, che passa facilmente dal tono sublime al quotidiano, fatta di salti temporali e di continui cambiamenti del punto di vista, tecnica della quale fu un vero e proprio maestro. Il profondo Sud logorato dalla Guerra di Secessione rivive attraverso la mitica contea di Yoknapatawpha («terra dove l’acqua scorre lenta»), il microcosmo in cui riecheggiano i grandi eventi della storia degli Stati Uniti d’America dei primi del Novecento. A condurre le fila della narrazione sono i pensieri dei suoi abitanti: spazio e tempo della storia combaciano infatti con l’interiorità dei personaggi e il lettore viene catapultato nell’intricato mondo della mente umana, dove si confondono presente e passato, realtà e sogno.

Tali peculiarità creavano un certo problema per i canoni del cinema di Hollywood negli anni d’oro, che rispondeva ad una poetica mirata alla rappresentazione trasparente e lineare della realtà, e Faulkner veniva inevitabilmente classificato come “non adattabile” per via del suo sperimentalismo letterario[3]. Ma l’ambientazione, le ideologie, i personaggi e le storie delle famiglie di Yoknapatawpha conquistarono registi come Howard Hawks, Clarence Brown e Martin Ritt, i quali trasformarono i romanzi Sanctuary, Intruder in The Dust, e persino il turbinoso The Sound And The Fury in opere prive di elementi che avrebbero compromesso la fluidità della narrazione filmica, quali flashback, ralenti, sguardo in camera, split screen, senza perciò restituire allo spettatore quel senso di disorientamento e di vertigine suscitati dalla scrittura. Nell’adattamento del ’59 di Ritt, ad esempio, non vi è nulla della struttura del romanzo, ovvero dei quattro monologhi interiori attraverso i quali è narrata la vicenda dei Compson: protagonisti assoluti sono invece la ribelle Quentin nel fiore dei suoi anni e il suo austero zio Jason, in un film sentimentale dal ritmo costante e fluido dove l’unica trasgressione al montaggio narrativo è la voce fuori campo che introduce lo spettatore nella vita dei personaggi.

È curioso come, nonostante affiancò alla scrittura l’attività di sceneggiatore presso gli studios della Metro Goldwyn Mayer, per un periodo di circa vent’anni, William Faulkner non lavorò sugli adattamenti dei propri romanzi, tranne che per la sceneggiatura tratta dal racconto Turn About, su specifica richiesta del regista, tradotto nel film Today we live di Howard Hawks. Lo stesso Faulkner, conscio delle differenze tra i due medium, si trovò d’accordo con l’affermazione del critico Edward Murray: «It is nearly impossible for filmakers to find adequate technical means for duplicating or even approximating Faulkner’s complex interior monologues»[4]. In parole semplici: inadattabile.

Merita dunque una particolare attenzione il primo di adattamento di Faulkner da parte di James Franco che, riconoscendo nello sperimentalismo dello scrittore un vero e proprio potenziale cinematografico, ha trasformato As I Lay Dying in un film altrettanto sperimentale, ancora inedito in Italia: la frammentarietà dei monologhi, il continuo cambiamento del punto di vista, l’intromissione della voce dell’autore e persino i suoni catturati dalla penna di Faulkner sembrano voler imitare proprio quelle tecniche di montaggio che la Hollywood degli anni d’oro ha lasciato tra le pagine del Premio Nobel e che Franco ripropone in veste del tutto nuova e altrettanto sperimentale quanto il romanzo. Adottando nuove combinazioni per trovare un corrispettivo visivo, e sonoro, a tecniche quali il flusso di coscienza e la moltiplicazione del punto di vista, Franco è riuscito a coniugare le atmosfere del Profondo Sud faulkneriano con il complesso stile narrativo, nel preciso intento di riprodurre proprio gli elementi che hanno reso il romanzo uno dei capolavori indiscussi dello scrittore.

Dopo aver impersonato, nello stesso anno, il ruolo dello sfrontato giornalista di gossip Dave Skylark in Interview, il controverso film diretto da Evan Goldberg e Seth Rogen (2014), e quello di un giovane regista che tenta di ricreare le scene censurate di Cruising (di William Friedkin, 1980) in Interior. Leather bar (2013) film-documentario legato alle tematiche LGBT, James Franco si immerge nella Contea di Yoknapatawpha dapprima nei panni di Darl, il disadattato figlio dei Bundren, e poi in quelli di Benjy Compson, l’idiota al quale Faulkner affida il primo monologo di The Sound And The Fury, nel suo secondo omonimo adattamento dello scrittore, presentato in contemporanea al Toronto International Film Festival e al Festival di Venezia nel settembre 2014.

 

3. As I Lay Dying: dal romanzo al grande schermo

Nel tentativo di tradurre visivamente lo stream of consciousness, Franco ha girato il film quasi interamente in split screen, tecnica non particolarmente amata dal cinema narrativo classico poiché non solo compromette la linearità della narrazione ma forza lo spettatore a razionalizzare la giustapposizione di due immagini che rappresentano due situazioni in contemporanea, ma dislocate spesso in luoghi diversi: il classico esempio di questa tecnica è la scena di una telefonata tra due personaggi.[5] L’uso che ne fa Franco è però assai più complesso. In As I lay Dying, lo split screen viene utilizzato, infatti, per ‘tagliare’ il singolo ambiente nel quale si svolge la scena, al fine di mostrare l’azione dai differenti punti di vista dei personaggi presenti. Ma fra i due riquadri non c’è una relazione di causa ed effetto, come nel classico split screen della telefonata: ognuno di essi infatti non rappresenta la prospettiva di un personaggio esclusivo ma muta nel punto di vista anche di un terzo, quarto e così via. Si ha quasi l’impressione di guardare due film indipendenti tra loro, ognuno con i propri protagonisti. Ecco quindi come Franco dichiara di voler mettere in scena il primo elemento faulkneriano: la moltiplicazione del punto di vista.[6]

Data la particolarità del montaggio si è preferito presentare l’analisi del film seguendo l’ordine cronologico degli eventi, soffermandosi sulle scene più emblematiche e commentando le scelte tecniche più salienti, ricostruendo in tal modo il viaggio della famiglia Bundren.

Nella prima scena di As I Lay Dying la colonna sonora precede quella visiva con il rombo dei tuoni in lontananza che si trasformano, seguendo la tecnica della noise music, nella ripetizione metallica di due singole note che creano un effetto di tensione quasi da thriller. La prima immagine è una ripresa dall’alto in primo piano di Addie Bundren nei suoi ultimi istanti di vita, che recita una lapidaria sentenza con la quale ci fa entrare nell’atmosfera cupa di casa Bundren: «My father used to say that the reason for living was to get ready to stay dead a long time».[7]

Fotogramma tratto da As I Lay Dying di James Franco, 2013

Infrangendo un’altra delle regole bandite dal cinema narrativo classico, Addie sembra parlare con lo sguardo diretto verso la macchina da presa; a voler osservare con maggiore attenzione, però, più che in camera, lo sguardo pare rivolgersi leggermente più in alto. Se la prima impressione dava l’idea di un dialogo con lo spettatore, ci si accorge in seconda battuta che le parole sono indirizzate a un’entità che si trova ‘più in alto’ e così le scene successive, che chiariscono lo stato della donna, avvalorano l’immagine di una Addie che, in punto di morte, si rivolge a Dio.

Comincia dunque il racconto del viaggio odissiaco, dai toni drammatici e grotteschi al tempo stesso, che Anse Bundren e i suoi cinque figli (Cash, Darl, Jewel, Dewey Dell e il piccolo Vardaman) dovranno compiere per esaudire l’ultima volontà della madre, ovvero essere seppellita nel cimitero della sua terra natìa, distante nove giorni a cavallo; il lungo viaggio metterà a dura prova i Bundren, che dovranno affrontare il pesante caldo estivo, superare un fiume in piena, sfuggire a un incendio e sopportare costantemente l’aria fetida a causa dei miasmi della bara. L’acqua, il fuoco, l’aria e la terra sono gli elementi archetipici che guidano una famiglia di «poor whites delle colline»,[8] attaccata ai propri rituali e alle proprie credenze e superstizioni, alla riscoperta delle proprie radici, nel microcosmo della Contea di Yoknapatawpha.

Lo spettatore ha l’impressione di trovarsi all’interno di un film storico: la scenografia e i costumi ricordano un’ambientazione da western, ma qui non vi sono le tipiche inquadrature a campo lungo o i piani americani; i primissimi piani sui volti, se pur frequenti in Franco, non suscitano quella suspense tipica dei cowboy e degli sceriffi, piuttosto l’espressione degli attori sembra essere a volte volutamente distaccata, soprattutto nelle scene a mo’ di intervista, di cui segue l’analisi. Viene così a crearsi un certo contrasto tra la messa-in-scena, improntata ad un realismo quasi documentaristico, e gli effetti stranianti del montaggio.

Le prime scene rispecchiano l’aria di attesa che precede il tragico evento, con le due parti dello split screen che si alternano nel mostrare l’interno di casa Bundren, dove la figlia Dewey Dell assiste Addie, e l’esterno, dove invece Cash si appresta a segare le assi per la bara. Dopo una serie di inquadrature su tutti i componenti della famiglia Bundren, uno scambio di battute fra padre e figli chiarisce l’azione di partenza: Darl e Jewel devono partire per un lavoro che frutterà tre dollari, ma il tempo corre, Addie sta per morire, c’è il rischio che i due figli non tornino in tempo per rivederla un’ultima volta. L’atmosfera di tensione è amplificata dall’effetto dato dallo slow motion che rallenta l’entrata di Darl nella stanza (interpretato da James Franco stesso), accompagnato dal basso ritmico e metallico della musica extradiegetica, in un crescendo di suoni melismatici dalle sonorità cupe.

La sequenza che segue rende da subito chiaro come la tecnica dello split screen venga utilizzata non solo in maniera classica, quindi mostrando insieme due momenti diversi dell’azione, ma anche per frammentare il punto di vista all’interno di una scena unica.

 Primo esempio di moltiplicazione del punto di vista tratto dal film As I Lay Dying, 2013

Come si può vedere dall’immagine, il riquadro di sinistra mostra il volto in primo piano di Dewey Dell, da quello che sembra essere il punto di vista di Addie sdraiata sul letto, e sullo sfondo, fuori fuoco, la porta di ingresso aprirsi all’entrata di Darl; nel riquadro di destra, invece, sembra esserci la stessa scena ma ribaltata, ovvero Addie in secondo piano e la nuca di Dewey Dell in primo. Si ha l’impressione in ogni caso che ci sia un terzo occhio ad osservare il tutto. Se l’immagine di sinistra è una ripresa in soggettiva di Addie, lo stesso non può esattamente dirsi per il riquadro di destra, che dovrebbe dunque essere una soggettiva di Darl che sta entrando: infatti, nella scena immediatamente dopo per un momento Dewey Dell si gira verso la porta e a questo punto lo spettatore si aspetterebbe uno sguardo diretto nella macchina da presa, ma invece la ragazza guarda più indietro.

 Secondo esempio di moltiplicazione del punto di vista tratto dal film As I Lay Dying, 2013

Come il lettore di Faulkner, anche lo spettatore del film perde in tal modo la certezza nel distinguere chi vede e chi parla. Ad ingannare ulteriormente lo spettatore, la scena viene riproposta poco dopo con l’aggiunta di un interessante scambio di battute: alla domanda di Dewey Dell «What do you want, Darl?» risponde la voce di Darl fuori campo con una riflessione che fa solo a se stesso («She gonna die before we get back»), ma Dewey Dell, come se leggesse la mente del fratello, prosegue: «Then why you’re going?».[9]

Anche nel romanzo si verifica la stessa incrinatura e non sempre è chiaro quando i pensieri vengono espressi ad alta voce e quando invece sono introspettivi. A mandare ancora più in confusione il lettore è la differenza tra le versioni riportate dai diversi personaggi su una stessa scena. In Faulkner è infatti dapprima la voce della vicina Cora Tull, che assiste Addie, a descrivere l’entrata di Darl nella stanza con questi pensieri:

It was Darl. He come to the door and stood there, looking at his dying mother.[…]«What do you want, Darl?» Dewey Dell said […]. He didn’t answer. He just stood and looked at his dying mother, his heart too full for words.[10]

E nel capitolo successivo, ovvero il monologo di Dewey Dell, è la ragazza a ‘pensare’ la sua versione della scena:

He stands in the door, looking at her. «What you want, Darl?» I say. «She is going to die», he says. […] «When is she going to die?» I said. «Before we get back.» he says. «Then why are you taking Jewel?» I say. «I want him to help me load.» he says.[11]

Nonostante si tratti dei pensieri di Dewey Dell, assistiamo ad un vero dialogo, per quanto irrealistico, nel quale è proprio la voce reale di Darl a rispondere, come se l’uno leggesse la mente dell’altro.

Di fatto, nel romanzo, i Bundren non sono gli unici personaggi ad apparire nella storia, ma attorno a loro ruotano altri abitanti della Contea che, da bravi vicini, non esitano ad osservare, giudicare e commentare infiltrando continuamente il loro sguardo nella vicenda. Dai monologhi dei quattro Compson di The Sound And The Fury si passa qui a ben cinquantanove monologhi appartenenti a quindici personaggi: una vera e propria polifonia di voci solipsistiche attraverso cui il lettore deve ricostruire l’odissea dei Bundren e distinguerne i pensieri espressi da quelli taciuti. Inoltre, la logicità della vicenda viene spesso compromessa quando un avvenimento viene descritto attraverso il monologo di un personaggio che non è effettivamente presente all’azione. Ma né Franco né Faulkner chiariscono quale sia l’esatta versione dei fatti, proprio poiché non si vuol dare importanza alla ricerca della verità assoluta quanto invece alle sfumature della soggettività. L’intento non è quello di districare gli enigmi, come in un giallo, ma di creare effetti di straniamento, concetto chiave per l’interpretazione di As I Lay Dying. Ad un livello ancora più profondo di comprensione del testo, il messaggio di Faulkner non è tanto quello di individuare chi dice cosa; la prosa faulkneriana non vuole essere una ricerca di oggettività dei fatti quanto invece di un’oggettività del pensiero. E ancora, i pensieri del singolo trascendono invero una riflessione di natura più ampia. Significativi a tal proposito sono alcuni monologhi, come quelli di Darl e della defunta Addie, che partendo dal tema del viaggio, si soffermano sulla condizione effimera dell’essere umano e sulla rassegnazione con la quale ognuno dei Bundren accetta il proprio il destino, quasi con l’atteggiamento pirandelliano del Cosi è (se vi pare).

Con un ultimo straziante grido, Addie muore. Per una povera famiglia di contadini, il dolore della perdita lascia presto il posto al sollievo per una bocca in meno da sfamare: «God’s will be done. Now I can get them teeth».[12] Da sottolineare che nel romanzo l’esclamazione di Anse è riportata sotto forma di dialogo diretto, completo di verba dicendi e virgolette, nella sezione del monologo interiore di Darl, che non è presente al fatto; nonostante ciò, Faulkner affida al ragazzo la descrizione del momento della morte della donna, completo di dettagli sulle minime azioni degli altri personaggi. Darl è invero il personaggio che più si avvicina alla tipologia del narratore onnisciente, caratteristica che lo rende una sorta di protagonista privilegiato. Ma la sua prosa, che alterna momenti descrittivi e dialoghi diretti a riflessioni filosofiche (riportate in corsivo), dà un tale senso di irrealtà che costringe il lettore a porsi la domanda se Darl sia effettivamente chiaroveggente o pazzo.

Cash termina la costruzione della bara e il suo monologo, nel romanzo, diventa un elenco numerato delle ragioni sulla smussatura. Franco trasforma questo monologo in una sorta di confessione che Cash fa ad un ipotetico soggetto esterno: lo spettatore. L’attore viene ripreso in primissimo piano mentre elenca i tredici punti con lo sguardo diretto verso la macchina da presa, in quella che sembra essere un’intervista. Questo è infatti un altro espediente filmico adottato per riprodurre l’effetto di alcuni monologhi durante i quali i personaggi mettono a nudo i loro pensieri; per un momento la narrazione viene sospesa per far ‘confessare’ gli attori davanti all’occhio della camera, stabilendo in questo modo un contatto diretto con il pubblico che ha la sensazione di dialogare col personaggio.

 Rappresentazione del monologo di Cash

Mentre i Bundren e i vicini intonano il tradizionale inno funebre Shall we gather at the river?, in sottofondo la musica extradiegetica si oppone al motivetto del gruppo con un inquietante stridìo metallico, che ha la funzione di legare questa scena alla successiva dove Darl e Jewel, ignari della situazione, si trovano sulla strada di ritorno dalla vendita del loro carico. Ancora una volta Darl dà l’impressione di essere già a conoscenza dell’accaduto e di ascoltare le voci dell’inno, nonostante la distanza che lo separa dalla casa, grazie ad una serie di primi piani sul suo volto enigmatico.

Comincia l’odissea della famiglia Bundren con i suoi momenti tragicomici a partire dall’uscita della bara dalla casa, fra le urla di Cash che da buon falegname sta attento al bilanciamento delle assi e lo sconcerto di Jewel che quasi fa cadere la bara a terra, in una scena che ricorda i movimenti della slapstick comedy.

Con il sottofondo di una chitarra country, la carovana parte e, con essa, comincia anche il viaggio interiore dei passeggeri. Interessante è il ricordo della fuga d’amore di Dewey Dell rappresentato attraverso un montaggio più classico: primo piano sul suo volto, voce fuori campo e cambio di scena con flashback questa volta a schermo intero. L’effetto dello slow motion, insieme a quello della musica che nuovamente cambia in un leggero e quasi evanescente sottofondo melodico, contribuisce a rendere l’idea di una sospensione temporale causata dal ricordo. E dopo il breve flashback, anche il monologo di Dewey Dell, come già visto per quello di Cash, diventa una confessione allo spettatore con lo sguardo in camera.

Mentre la voce fuori campo di Dewey Dell continua a raccontare la sua storia e ad esprimere le sue paure sul fatto che Darl è a conoscenza della sua segreta gravidanza, la sequenza continua con un ulteriore flashback in slow motion che mostra la famiglia Bundren in una situazione quotidiana: ‹‹He said he knew without the words, like he told me that Ma was gonna die without words››.[13]

La scena della cena è il ricordo ‘pensato’ dalla Dewey Dell che poco prima, con lo sguardo in camera, confessava il ricordo che lei stessa sul carro stava pensando in quel momento: il montaggio di questo breve episodio dà l’effetto delle scatole cinesi, inserendo una scena nell’altra, secondo una concatenazione di piani affatto prevedibile.

La classica tecnica della voce fuori campo non è utilizzata in maniera scontata: non solo Franco la adopera per rispecchiare i momenti maggiormente lirici del romanzo ma, ancora una volta, per rendere l’ambiguità tra i pensieri espressi e quelli taciuti. Nella scena successiva infatti, Darl e Dewey Dell hanno uno scambio di battute piuttosto insolito: senza che i due attori aprano bocca, ascoltiamo il loro dialogo attraverso le rispettive voci fuori campo, mentre l’inquadratura passa dal volto di uno a quello dell’altra.

La famiglia viene posta di fronte al primo ostacolo: superare il fiume in piena, impresa che inevitabilmente non va a buon fine. Una prima sequenza frenetica su una parte dello schermo inquadra Darl, Cash e Jewel con dei veloci primi piani e zoom sui dettagli del carro che non consentono di mostrare la scena nella sua integrità, mentre l’altra metà dello schermo è una ripresa a filo d’acqua, quasi a voler anticipare l’inevitabile inabissamento del carro. Ma quando ciò accade la scena viene ripresa a tutto schermo, interrompendo lo split, nuovamente con l’effetto dello slow motion a sottolinearne il momento drammatico. Anche le voci e il rumore diegetico del fiume in piena vengono ovattati dall’ormai noto sound extradiegetico di quell’unica melliflua nota acuta che già aveva accompagnato le scene precedenti. L’apice del dramma è segnato dal volto dolorante di Cash, che si rompe una gamba nell’incidente, mentre la bara si arena sulla riva.

È in questo momento che Franco inserisce quell’unico monologo interiore nel quale Faulkner, nel romanzo, non solo fa ‘parlare’ la donna già defunta, ma le affida una profonda riflessione metalinguistica relativa alla vacuità delle parole e alla necessità degli uomini di assegnare un nome ad ogni cosa, mentre lei, che vive guidata dall’istinto e dalla passione, non ha bisogno di nominare l’amore, la maternità, il peccato, la terra e il sangue per conoscerne il significato. La scena raggiunge il culmine con le riflessioni della defunta Addie su quella che era la sua difficile condizione di donna all’interno della società perbenista, non altrimenti che con la voce fuori campo, alternando ai dettagli della bara piccoli flashback della sua vita trascorsa. Come già visto per la sequenza su Dewey Dell, anche qui le memorie di Addie vengono riportate inserendo l’immagine di un ricordo nell’altro.

When he was born [Cash] I knew that motherhood was invented by someone who had to have a word for it because the ones that had the children didn’t care whether there was a word for it or not. He had a word, too. Love, he called it. But I had been used to words for a long time. I knew that that word was like the others: just a shape to fill a lack; that when the right time came, you wouldn’t need a word for that any more than for pride or fear. […] sin and love and fear are just sounds that people who never sinned nor loved nor feared have for what they never had and cannot have until they forget the words.[14]

Dietro il monologo di Addie si cela la voce di Faulkner stesso in quello che senza dubbio è tra i brani migliori della letteratura dello scrittore. As I Lay Dying è un romanzo che parla del corpo attraverso il suo opposto, la mente. Addie, che rappresenta la pura carnalità che rifiuta l’astrattismo delle forme per la materialità del loro contenuto, attribuisce unicamente al corpo il concetto di maternità; mentre confessa quei momenti di solitudine dove poteva stare «in silenzio a odiarli»[15],i suoi figli, l’inquadratura si sofferma sul volto di ognuno di loro, appena sfuggiti all’impeto del fiume, in un’immagine che gioca sull’empatia dello spettatore.

Dopo l’elemento dell’acqua, la seconda climax presenta quello del fuoco. Il lungo viaggio della bara rischia infatti di essere interrotto dal terribile incendio che distrugge la stalla dove decidono di sostare per la notte. Attraverso un’inquadratura di raccordo, ovvero il primo piano sullo sguardo di Darl da una parte e l’immagine della stalla dall’altra, il regista fa presagire che sia proprio il ragazzo ad appiccare intenzionalmente l’incendio, per porre fine all’oltraggio della mancata sepoltura. Solo alla fine del film tale ipotesi verrà confermata con l’arresto di Darl, che sarà quindi l’unico della famiglia Bundren a non tornare indietro. È compito al fratellastro Jewel impedire il disastro: in una scena davvero biblica, nella quale si carica sulle spalle la bara avvolta dalle fiamme ricordando simbolicamente la passione di Cristo, riesce ad estrarre la bara dall’incendio. La tecnica cinematografica riprende la scena del fiume: slow motion, musica extradiegetica, piani ravvicinati e zoom sui dettagli. Il momento tragico si conclude con la riflessione di Darl, che in Faulkner è all’inizio del romanzo: ‹‹It takes two people to make you, and one people to die. That’s how the world’ll end››.[16] La sensazione di chiaroveggenza che Darl sembra possedere tocca il massimo grado in questa sorta di profezia catastrofista.

Infine anche a Darl spetta il dialogo con lo spettatore con il primo piano e lo sguardo in macchina, ma non per rievocare un ricordo quanto per esprimere la sua riflessione filosofica sulla vita: «Life was created in the valleys. It was blew up on the hills on the old terrors, the old lusts and the old despairs. That’s why you must walk up the hills, so you can ride down».[17]

 Fotogramma del film As I Lay Dying: si osservi l’azione in corso sulla parte sinistra dello split screen e la rappresentazione del monologo di Darl sulla destra

Il corpo è legato alla terra e alla terra brama tornare; la vita non è altro che una discesa ‹‹to get ready to stay dead a long time».[18] Se Jewel, fisico e impulsivo, rappresenta la parte carnale di Addie, Darl è il suo opposto meditativo, e chiude il cerchio della riflessione cominciata dalla donna in punto di morte.

L’arrivo a Jefferson mette in risalto la dicotomia campagna-città. Il set cambia, le insegne dei negozi svettano sui palazzi e gli abitanti della città sono uomini d’affari e gentildonne che sempre più si tengono a distanza dai Bundren e dalla presenza indecente del feretro. Il viaggio si conclude in maniera di nuovo tragicomica. Addie trova finalmente pace eterna nel cimitero di Jackson e la famiglia Bundren completa la propria metamorfosi. Darl, l’unico Bundren ad avere un atteggiamento lucido e razionale, seppur negativo, nei confronti della vita, viene arrestato per l’incendio provocato alla stalla, separandosi quindi dal gruppo, ma anche da se stesso: nel suo ultimo monologo infatti parla di sé in terza persona, quasi non fosse lui a salire sul treno per il carcere, ma uno sconosciuto. Come nota Mario Materassi, «parlando di sé in terza persona, con la folle dissociazione dal proprio io, egli grottescamente mima, senza esserne cosciente, il più vasto disegno di oggettivazione della soggettività che sottende a tutta l’opera».[19] Non vi è ritorno per il tragico ‘profeta’ e altro non può fare se non accettare di passare per un folle. Cash ha perso la gamba ferita; Jewel il suo amato cavallo venduto in cambio della vanga per scavare la fossa (nel romanzo lo scambio avviene invece con un paio di muli durante il viaggio); Dewey Dell la sua integrità morale quando pur di abortire per evitare uno scandalo scende a compromessi con un farmacista senza scrupoli che approfitta di lei; il piccolo Vardaman perde il fratello maggiore Darl, al quale era più legato del padre.

E infine Anse, che per tutto il tempo del viaggio ha preteso una rigorosa religiosità, badando all’etichetta esteriore imposta dalla società perbenista, torna dai suoi figli pronti al viaggio di ritorno vestito come un signore di città e presentando, con un gran sorriso, la nuova Signora Bundren. Infatti, non appena porta a termine il compito di sotterrare la defunta moglie, Anse rivolge il proprio pensiero ad un nuovo obiettivo: «But now I can get them teeth. That will be a comfort. It will».[20]

Mentre tutti perdono qualcosa, Anse rinasce invece a nuova vita. È l’unico personaggio a compiere un arco di trasformazione positivo. Incarna l’idea dell’uomo che riesce a sopravvivere adattandosi ad ogni situazione, in una sorta di doppio di Addie: al viaggio della donna verso l’Ade, corrisponde il viaggio di Anse verso la vita. Fin dai monologhi iniziali Faulkner pone l’accento sul sacrificio dell’uomo, che ormai da anni non può concedersi un pasto normale a causa della mancanza dei propri denti. Il sorriso con cui si rivolge ai figli nell’ultima scena del film è perciò emblematico: i denti nuovi sono infatti il simbolo di un’ambita conquista, in una sorta di parodia del premio finale che l’eroe ottiene alla fine del suo viaggio.

L’adattamento cinematografico di James Franco mette in risalto il nucleo centrale del romanzo di Faulkner, ovvero la ‘parola’, valorizzandola con gli sguardi, i gesti, i suoni e i rumori che solo una cinepresa è in grado di cogliere nello stesso istante. Se il lettore di Faulkner viene messo alla prova nel distinguere i pensieri espressi da quelli taciuti, e di conseguenza la realtà dalla finzione, anche lo spettatore di Franco affronta la stessa sfida. Il regista, infatti, riesce a rendere ambiguo persino l’elemento più realistico del cinema: il dialogo. Benché si ascolti la voce direttamente dai personaggi in carne ed ossa, gli effetti del montaggio mettono costantemente in dubbio se quella voce non sia soltanto una proiezione dei loro pensieri.

Così come nel flusso di coscienza le immagini si accavallano fra loro senza ordine cronologico o senza una spiegazione logica, se non quella dell’emotività del personaggio, allo stesso modo in Franco il flusso si compone di immagini evocative che, pur sembrando inizialmente scollegate dall’azione dei personaggi, ne rafforzano invece le caratteristiche psicologiche. «Jewel’s mother is a horse»[21] afferma Darl nel romanzo, ma Franco sostituisce la parola con le inquadrature: significativo a tal proposito diventa il soffermarsi della macchina da presa sul cavallo di Jewel, simbolo della passione focosa da cui è nato, mentre questi attende con angoscia la morte della madre. La risposta alla domanda che il cinema si pone, relativa all’adattare l’inadattabile, pare essere proprio questa: trasformare un flusso di parole in un flusso di immagini.

 

William Faulkner, James Franco, flusso di coscienza, punto di vista.

 


1 Per un maggiore approfondimento sull’argomento cfr. L. Hutcheon, Teoria degli adattamenti. I percorsi delle storie fra letteratura, cinema, nuovi media [2006], trad. it. di G.V. Di Stefano, Roma, Armando Editore, 2011; D. Cartmell, I. Whelehan, Adaptations: From text to screen,screen to text, New York, Routledge, 1999; R. Krevolin, How to adapt anything into a screenplay, Inc. New Jersey, John Wiley & Sons, 2003; F. Zecca, Cinema e intermedialità. Modelli e traduzione, Udine, Forum, 2013.

2 F. Pivano, Leggende Americane, Bompiani, Milano, 2011, p. 279.

3 Sugli adattamenti dei romanzi di Faulkner tra gli anni ’30 e ’70 Cfr. G.D. Phillips, Fiction, Film and Faulkner. The Art of Adaptation, Knoxville, The University of Tennessee Press, 2001.

4 E. Murray, ‘The Cinematic Imagination: Writers and the Motion Pictures’, in G.D. Phillips, Fiction, Film and Faulkner. The Art of Adaptation, Knoxville, The University of Tennessee Press, 2001.

5 Cfr. E. Branigan, Point of view in the cinema: a theory of narration and subjectivity in classical film, Mounton Publishers, 1945.

6 Sulle tecniche del punto di vista al cinema Cfr. J. Magny, ‘Il punto di vista multiplo’, in Il punto di vista. Dalla visione del regista allo sguardo dello spettatore, Torino, Lindau, 2004, pp. 53-63; F. Casetti, Teorie del Cinema 1945-1990, Milano, Bompiani, 2004; S. Chatman, Storia e discorso: la struttura narrativa nel romanzo e nel film [1978], trad. it. di W. Graziosi, Il Saggiatore, Milano, 2010. Sul punto di vista in generale cfr. R. Scholes, R. Kellogg, La natura della narrativa [1966], trad. it. di R. Zelocchi, Bologna, Il Mulino, 1984; D. Meneghelli (a cura di), Teorie del punto di vista, Firenze, La Nuova Italia, 1998; G. Genette, Figure III. Discorso del racconto, trad. it. di L. Zecchi, Torino, Einaudi, 1976. Sui rapporti fra letteratura e cinema cfr. almeno G. Manzoli, Cinema e letteratura, Roma, Carocci, 2003.

7 J. Franco, As I Lay Dying, 2013.

8 M. Materassi, I romanzi di Faulkner, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1968, p 121.

9 J. Franco, As I Lay Dying, 2013.

10 W. Faulkner, As I Lay Dying, Penguin Random House, UK, Vintage Edition, 2004, p. 20.

11 Ivi, p. 22.

12 J. Franco, As I Lay Dying, 2013.

13 Ibidem.

14 W. Faulkner, As I Lay Dying, pp. 155-156.

15 W. Faulkner, Mentre Morivo, Milano, Adelphi, 2012, p.152.

16 W. Faulkner, As I Lay Dying, p. 33.

17 J. Franco, As I Lay Dying.

18 Ibidem.

19 M. Materassi, I romanzi di Faulkner, p. 134.

20 W. Faulkner, As I Lay Dying, p. 95.

21 W. Faulkner, As I Lay Dying, p. 82.