Creazione collettiva del Théâtre du Soleil, Une chambre en Inde

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Alla Cartoucherie di Parigi è di scena fino al prossimo giugno Une chambre en Inde, la nuova creazione collettiva del Théâtre du Soleil, guidata da Ariane Mnouchkine.

Due anni fa, in occasione del cinquantenario della troupe francese, avevamo visto al PiccoloTeatro di Milano La ronde de nuit del Teatro Aftaab, la compagnia afghana che è figlia del Théâtre du Soleil. Une chambre en Inde ha temi e timbri molto simili a quello spettacolo, onirici e comici, generosi e umili: il registro popolare è continuamente intercalato con scene di sapiente raffinatezza teatrale e il piacere degli spettatori è caldo e puro, di fronte a un teatro capace di muovere e commuovere gli animi.

Gli attori e le attrici del Teatro Aftaab qui vengono assorbiti in un grande ensemble di oltre 30 interpreti, a fianco dell’attrice del Soleil che aveva firmato la regia del loro spettacolo, Hélène Cinque – esilarante nella parte della protagonista di Une chambre en Inde, Cornelia – e di altri attori e attrici storici del Soleil, fra i quali Duccio Bellugi Vannuccini, Shaghayegh Beheshti, Maurice Durozier.

 Il regista affida la troupe a Cornelia. In scena: Hélène Cinque e Seietsu Onochi ©Michele Laurent

Come ne La ronde de nuit, tutto si svolge nel corso di una lunga notte, ma se là era un gruppo di profughi afghani a trovar temporaneo rifugio in un teatro francese, ospiti di un loro connazionale appena assunto come custode di quel teatro, qui invece si racconta di una troupe di teatro francese che si trova in India su invito dell’Alliance Française e ha smarrito il filo del proprio progetto. Il loro regista infatti è stato arrestato (dopo essersi arrampicato, nudo, su una grande statua di Mahatma Gandhi) lasciando a Cornelia, la sua assistente, gli onori e gli oneri di tenere il timone della compagnia. Così nel corso di una lunga notte insonne, fra incubi e irruzioni di realtà, comicamente impotente di fronte ai mali del mondo, Cornelia non demorde dalla ricerca di un tema e di una storia per la prossima creazione della compagnia.

«Il mondo è stanco di coloro che lo odiano»: è una delle frasi di Gandhi che troviamo dipinte sulle pareti del foyer, alla Cartoucherie; Une chambre en Inde è la stanza dalla quale la troupe del Soleil guarda con sgomento il mondo di oggi, caotico e disumano (Aleppo che brucia, gli attentati di Daesh in Francia, i kamikaze mandati alla morte, l’indottrinamento via internet dell’Islam estremista), permettendosi di mostrarsi smarrita e di dar forma teatrale a un senso di disorientamento e impotenza, quello di tutti noi. L’ensemble del Soleil è straordinariamente tenace e usa tutte le splendide risorse del teatro per farsi e farci coraggio, e per trasfigurare il reale, ricorrendo all’intelligenza del cuore e alle risorse del comico: è la strada che fu già di Charlie Chaplin, ed è un bravissimo Duccio Bellugi Vannuccini, nel ruolo dell’ebreo protagonista de Il grande dittatore (travestito da Hitler, come Chaplin, e contemporaneamente da Al Bagdadi, il califfo a capo di Daesh), a pronunciare, in chiusura di Une chambre en Inde, l’intramontabile discorso di Chaplin all’umanità.

L’ambientazione, elegante e nitida, è tuttavia più semplice rispetto alla complessità dell’ambiente scenico cui altri spettacoli del Soleil (Les Ephémères, Les Naufragès du Fol Espoir) ci avevano abituati. Siamo nel Tamil Nadul, nell’abitazione spaziosa e accogliente di una maestra di scuola, paladina dei diritti delle bambine e delle ragazze, che ospita la protagonista, Cornelia. Sulla destra del palcoscenico c’è un grande letto, su cui lei si butta continuamente, sfinita, cercando invano sonno e riposo, mentre lo spazio di sinistra è occupato da un lungo tavolo rettangolare dove squilla spesso il telefono, e da tre ampie finestre, ora aperte ora chiuse, da cui filtrano le luci e un fitto e continuo concerto di uccelli, a volume variabile (proprio come nella regia stanislavskijana delle Tre sorelle di Čechov); sul fondo, seminascosto da una tenda sottile, si trova il bagno cui i personaggi ricorrono farsescamente, a vomitare e defecare, quando i mali del mondo per un attimo diventano troppi.

A fare irruzione nella grande e ariosa stanza c’è di tutto. Vi è la realtà dell’India di ogni giorno, due grandi scimmie, un elefante, dei poliziotti; arriva un padre autoritario che vuole riprendersi la figlia, a servizio presso l’insegnante, per costringerla a un matrimonio combinato; si intromette un altro padre hindu a comandare minaccioso alla maestra che il figlio, in classe, non sieda più accanto al compagno musulmano. Vi sono i mali del mondo globalizzato di oggi, che irrompono in forma di frammenti video da Aleppo, di telefonate che portano le notizie degli attentati parigini dello scorso 2016, o in forma di toccanti scene mute, come quella delicata della vestizione di un bambino con una cintura di esplosivo. Come e perché fare oggi teatro, arte, in un mondo che pare andato oltre l’umana comprensione? Come raccontarlo? Cornelia e il Soleil formulano questa domanda con grande intelligenza scenica. Provano la mimesis della violenza sbattuta in scena: un uomo nudo, sanguinante e torturato, dei guerriglieri col mitra spianato, un membro dell’Isis pronto a riprendere l'esecuzione con la telecamera ad uso di diffusione interplanetaria... ma ecco che l’immagine scenica si liquefà letteralmente davanti ai nostri occhi, in un secondo, appena incalzano le disarmanti domande del condannato: «volete dirmi dove siamo? In Siria o in Francia o in Africa o dove ancora?»; «chi siete voi?»; «e perché?»; «che ne sappiamo noi di tutto questo? Dobbiamo saperne di più…».

 Shakespeare consola Cornelia. In scena: Hélène Cinque e Maurice Durozier ©Michele Laurent

A incoraggiare il personaggio della regista alla ricerca della storia da raccontare arrivano anche, nella stanza indiana del Soleil, gli dei del teatro, i suoi numi tutelari: ecco, nel primo tempo, entrare da una delle finestre William Shakespeare in persona, in costume d’epoca, accompagnato da un giovane paggio; e quando Cornelia comicamente si inginocchia devota ai suoi piedi egli la rincuora dicendole che davvero non c'è alcun segreto, l’unica ricetta per trovare il filo dell’invenzione drammatica e teatrale è «lavorare, lavorare, lavorare». Poi nel secondo tempo, in un commovente cammeo, appare il dottor Čechov (l’attore armeno Armand Saribebekyan, cui si deve questa proposta scenica); premuroso e calmo, accompagnato da Irina, Masa e Olga che spalancano le tre grandi finestre, egli visita la povera Cornelia, chiedendole affettuosamente perché cerchi addirittura in India, tanto lontano, il tema dello spettacolo: «Ci sono così tante belle pièces... come Zio Vanja, sul crimine contro la natura, l’umanità, il futuro; La Mouette, sul dubbio dell’artista; e se cercate una pièce sulle donne, prendete Tre sorelle...». Così a sorpresa il teatro di Čechov risuona, come una promessa a venire di Ariane Mnouchkine e del Soleil, oltre la dacia indiana di questo spettacolo.

 Le tre sorelle spalancano le finestre della dacia indiana. In scena: Dominique Jambert, Andrea Marchant, Alice Milléquant ©Michele Laurent

Ma soprattutto, a fare irruzione sulla scena di Une chambre en Inde è lo straordinario vigore di un teatro sconosciuto e vivente: il Terukkuttu, una forma di teatro popolare tamoul, caro alla casta degli intoccabili, recitato in India da soli attori maschi, che racconta le infinite saghe del Mahabharata e del Marajana. Duccio Bellugi mi ha raccontato che quelle troupe lavorano su commissione, nello stato del Tamil Nadu, richiamate dai capi villaggio delle campagne in occasione delle festività, a recitare brani e frammenti delle grandi epopee. Dopo un viaggio collettivo in India per incontrare il Terukkuttu, nel gennaio del 2016, il Soleil ha invitato alla Cartoucherie il maestro Kalaimamani P.K. Sambandan Thambiran, che è restato con loro due mesi (fino ai primi 15 giorni di repliche) trasmettendo agli attori e alle attrici del Théâtre du Soleil movimenti, canti e musiche di alcune precise scene.

 L’irruzione giocosa della troupe di Terukkuttu. In scena: Sébastien Brottet-Michel, Dominique Jambert, Hèlène Cinque, Eve Doe Bruce ©Michele Laurent

Une chambre en Inde intesse infatti le storie del locale e del globale, le vicende della troupe francese e della maestra indiana, con due bellissimi episodi del Mahabharata, recitati secondo il Terukkuttu, che raccontano atti di protesta e resistenza al femminile: del primo è protagonista Draupadi, la moglie dei Pandava (Omid Rawendah), che contesta ai suoi cinque mariti la viltà di averla giocata a dadi contro i cugini, e al sopruso di questi ultimi, che ora pretendono la proprietà del suo corpo, risponde, con l’aiuto di Krishna, con un sari che si srotola all’infinito, senza mai denudarla. Nel secondo è invece la moglie di Karna (Shaghayegh Beheshti) che, venuta finalmente a sapere delle origini e del lignaggio del suo sposo (egli è fratello dei Pandava ma si appresta a combattere contro di loro), turbata risponde alla richiesta di lui, che le chiede una benedizione per la battaglia imminente, insinuando dolcemente il dubbio e il turbamento nel suo cuore.

Sono meravigliosi e potenti i quattro lunghi frammenti che vedono riunita nella dacia indiana, dilatata a piazza, tutta la troupe del Soleil, per recitare con vitalità e colore queste scene, chi nella parte dei musicisti, chi in quella dei cantastorie, chi in quella degli interpreti principali, e tutti in quella del coro/pubblico che ripete, amplificandoli in canti carnatici, i versi dei protagonisti. È un Mahabharata diverso rispetto a quello rarefatto ed essenziale cui ci ha abituato Peter Brook, più colorato ed espressivo, sporco e vitale, arcaico e contemporaneo, che mette in campo senza parole e senza proclami la vitalità straordinaria dell’arte teatrale, la sua resilienza, il suo continuare a fiorire negli interstizi del mondo globale.

Sono cambiati i tempi storici ed è cambiato il Soleil. Oggi il suo Oriente è diverso rispetto agli algidi Shakespeare in stile No e Kabuki e al ciclo de Les Atrides sub specie Kathakali degli anni Ottanta e Novanta.[1] In quegli spettacoli virtuosi i registri espressivi di ispirazione orientale si applicavano al repertorio drammatico occidentale raffreddandolo e straniandolo, rendendolo potente e al contempo lontano; e nell’ammirazione di noi spettatori si insinuava, a tratti, il dubbio dell’esercizio di stile. Oggi ogni virtuosismo è lasciato cadere, la scena del Soleil è più concretamente attraversata dal mondo, e lo spettacolo si fa diretta cassa di trasmissione del Terukkuttu, citandolo letteralmente, salvandolo alla memoria della scena contemporanea, incardinandolo nel corpo-archivio della troupe multietnica ed europea del Soleil, che lo riproduce secondo l’indicazione precisa di quei maestri.

La troupe accosta ed interseca senza soluzione di continuità le scene del Mahabharata in versione Terukkuttu a tutte le altre scene recitate col proprio stile occidentale di iperrealismo burlesco, quello che deriva dall’antica lezione delle maschere e che permette di prendersi gioco dei potenti, di trasformare ad esempio in maschere teatrali il burka e la divisa talebana. A qualcuno potrà sembrare kitsch, ma Mnouchkine oggi non lo teme: accostando due registri così diversi, quali il farsesco delle nostre maschere e la diversa logica espressiva del Terukkuttu, ella dà vita a una utopia di sorellanza nel nome di un immaginario e di un’arte popolare, accessibile davvero a tutti.

Con Une chambre en Inde la regista abbandona la ricerca di perfezione assoluta che ha contraddistinto ogni suo spettacolo, a favore della commovente umanità che già brillava nei due lavori dei primi anni Duemila, Le Dernier Caravansérail e Les Ephémères.[2] Non a caso, come quelli, Une chambre en Inde è una creazione collettiva che raccoglie e mette a frutto tutta l’immaginazione e il sentimento dei suoi attori-autori, alcuni dei quali hanno forse donato a questo spettacolo la loro creatività nella forma più libera, divertita e scanzonata che mai. Ogni sera, dal debutto dello scorso novembre, un pubblico nutrito e intergenerazionale, di giovani e anziani, di madri e di figlie, ricambia con generosità la troupe, ricompensandola con risate piene e con una partecipazione calda e ammirata, che coinvolge la dimensione dell’ethos: è qualcosa che raramente si vede a teatro e che ulteriormente conferma il Théâtre du Soleil, al di là delle mode di passaggio e di ogni proclama estetico, come un grande théâtre des citoyens.


1 Cfr. R. Gandolfi, ‘Un viaggio nella Storia in compagnia degli autori’, Hystrio, XXII, 2, 2009 (dossier a cura di S. Bottiroli e R. Gandolfi, Ariane Mnouchkine e il Théâtre du Soleil).

2 Cfr. S. Bottiroli, R. Gandolfi, Un teatro attraversato dal mondo. Il Théâtre du Soleil, oggi, Corazzano (PI), Titivillus, 2012.