
La recente riedizione del volume Io vedo me stesso. La mia arte, il cinema la vita (Il Saggiatore 2016), curato dal cineasta indipendente Chris Rodley, consente di attraversare tutti i territori e i linguaggi praticati da David Lynch, tramite un percorso stratificato e mai banale. Si tratta di un testo in forma di intervista, che raccoglie una serie di conversazioni (curate per lo più dallo stesso Rodley) risalenti agli anni Novanta. Edito originariamente nel 2005, Io vedo me stesso si compone di undici capitoli, preceduti da efficaci introduzioni che servono a guidare il lettore lungo un arco di circa cinquant’anni. L’argomentazione segue infatti un criterio cronologico, senza rinunciare a un calibrato gioco di anticipazioni e richiami, distendendo così il discorso secondo il modello di una vera e propria biografia.. Ogni capitolo è corredato da immagini, necessarie, dato che si parla di un artista visivo, ma non adeguate: uno dei limiti del libro, infatti, è quello di aver puntato su riproduzioni in bianco e nero e in bassa qualità, che certo non esaltano la potenza iconica del lavoro di Lynch, soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra luce, ombra e colori. L’edizione italiana è poi arricchita da un capitolo conclusivo, scritto da Andrea Morstabilini, che propone un’analisi di Inland Empire, il lungometraggio distribuito successivamente all’edizione americana del volume, in cui il punto di vista del critico risulta però a tratti preponderante sullo sguardo di Lynch.
Il tono generale del testo è molto colloquiale, Lynch sembra a suo agio, quasi conversasse con un amico, tanto più che sono ricorrenti risate e battute. Rodley inizia con questioni relative alla vita personale del regista, al suo pensiero per poi approfondire quegli aspetti che riguardano l’analisi artistica e tematica nonché i metodi di realizzazione del suo lavoro. Dal canto suo, Lynch esprime il potenziale di un vero genio, compiendo sempre collegamenti e ampliando notevolmente il raggio delle risposte, bilanciate, però, da diverse reticenze, dettate dal non voler rompere l’alone di mistero che avvolge da sempre le sue opere. L’obiettivo di Rodley, lampante proseguendo la lettura, è voler mettere in luce la vocazione artistica integrale di Lynch, di cui il cinema è solo l’ambito più evidente e più noto.
La creatività di Lynch si misura a partire dalla qualità della sua pittura, di cui si discute nei primi capitoli: con essa l’autore ha potuto esprimere quel senso di inquietudine che lo accompagna da tutta una vita. Il quadro che dà il titolo al volume, Io vedo me stesso, rappresenta perfettamente le ambivalenze dell’animo umano attraverso due figure stilizzate e speculari, colorate in bianco e nero, su fondo nero. Nonostante siano attività molto diverse, Lynch intravede diverse somiglianze tra la pittura e la cinematografia. Nei quadri di Lynch, ad esempio, primeggia il colore nero, al quale l’autore attribuisce un significato onirico, come nei suoi film, con l’aggiunta di colori che rimandano alla cenere, al fango e al rosso, creando così impressioni di trauma e violenza. Gli stessi elementi sono ricorrenti in svariati suoi lungometraggi, ma soprattutto nei primi e sperimentali corti, dove il nero dello sfondo domina quasi ogni scena, il rosso è associato al sangue e alla violenza e il marrone al terriccio. Le figure sono frammentarie e molto dinamiche, come quelle dei quadri di Francis Bacon, molto amato dal regista e spesso sua fonte d’ispirazione. La stessa frammentarietà si riscontra nei personaggi dei suoi film, soprattutto in riferimento alla scissione identitaria e psichica di certe figure.
Dopo i discorsi sulla pittura, nei capitoli successivi il cinema diventa dominante, anticipato però da una sezione che affronta i cortometraggi sperimentali. Il primo, Six men getting Sick, è stato realizzato nel 1967 con l’intenzione di costruire un quadro animato. La telecamera riprendere sei uomini imprigionati in una parete, che lascia intravedere le teste, l’apparato digerente e le braccia, mentre si contorcono e vomitano per la sofferenza provocata da un’imprecisata malattia. Più che di cortometraggio si può parlare di un misto tra pittura e scultura, poiché i sei uomini sono scolpiti e sono mossi tramite l’animazione e i colori; non vi è fluidità di movimenti, poiché si tratta di una serie di fotogrammi montati in maniera frammentata. Ogni scena assume le caratteristiche di un vero e proprio quadro, dove i colori spiccano sul bianco e nero della pellicola, per rendere vividi i fluidi corporei. L’opera, peraltro, non è stata concepita per essere proiettata sul grande schermo, ma sulla parete di una stanza, per poi essere mandata in loop, come una vera e propria installazione artistica. In più il suono di una sirena, fatto risuonare dal vivo, avrebbe creato un’atmosfera surreale. Lynch, più che sul progetto in sé, si sofferma sull’utilizzo della cinepresa, con la quale, in quel periodo, ha preso familiarità.
Tra la realizzazione del film Dune e Velluto Blu, Lynch si dedica alla fotografia – oggetto di conversazione nel quinto capitolo. Rodley invita Lynch a riflettere sul senso dell’immagine fotografica e su alcuni dei temi ricorrenti del suo carnet: soprattutto fabbriche e industrie, il cui contrasto col mondo circostante crea sensazioni di gioia e angoscia al regista. I paesaggi industriali appaiono anche nella sua filmografia e queste foto, denominate appunto immagine industriale, in bianco e nero, richiamano in particolare Ereserhead e The Elephant Man. Nel volume c’è spazio anche per un’altra fotografia, Fish kit for Children. La scelta non è casuale: si tratta infatti di una vera e propria composizione dell’artista, come quelle realizzate ai tempi della Philadelphia Academy. La fotografia ritrae uno sgombro fatto a pezzi, tema già presente nelle fotografie di George Stubbs, le cui sezioni hanno una piccola didascalia, accompagnate dalle ‘istruzioni’ per assemblarlo. Con il ricorrente tema della frammentazione, Lynch vuole indagare il principio di funzionamento del soggetto.
Il lavoro più significativo di Lynch al di fuori dei confini del cinema è probabilmente Industrial Symphony No. 1: The Dream of the Broken Hearted, una performance teatrale portata in scena a New York nel 1989 in collaborazione con Angelo Badalamenti e Julee Cruise. Questa esperienza viene affrontata nel capitolo otto e serve ad aggiungere un altro tassello al mosaico delle variazioni stilistiche del nostro. Il palcoscenico è un’immagine ricorrente nei suoi lavori, ma Industrial Symphony No. 1 segna il debutto nella regia teatrale. Nel cast compaiono anche Laura Dern e Nichols Cage, che in quel periodo hanno girato Cuore selvaggio, insieme a Michael Anderson, “l’uomo da un altro posto” della serie televisiva Twin Peaks. In questa performance Lynch fa rivivere le sua atmosfere cinematografiche dal vivo, sfruttando le luci e le splendide musiche di Badalamenti, con le canzoni di Julee Cruise, già utilizzate in Velluto Blu e Twin Peaks. L’oscurità rimane l’elemento centrale della rappresentazione: «Sei sul palcoscenico, è buio e non vedi la casa. Ti senti sola» è la frase che Lych ripete più volte per introdurre la cantante dentro quel mondo onirico che ha cercato di portare in scena. Le scenografie costruiscono un piccolo universo industriale, come quello delle fotografie, con le quali interagiscono due danzatori, i cui corpi si contorcono e si librano tra le lamiere. Rodley, a dialogo con Lynch, sottolinea le differenze tra cinema e teatro, mettendo in luce le inevitabili difficoltà nel passaggio da un mezzo espressivo ad un altro.
Nel complesso il libro riesce a mettere in luce come David Lynch non sia semplicemente un cineasta ma un artista a tutto tondo, e giunge a sottolineare le connessioni tra i suoi lavori attraverso la sua eccentrica e affascinante prospettiva. Il fatto che le interviste risalgano agli anni Novanta, però, rischia di far percepire in maniera distorta la figura di Lynch, quasi fosse un artista ormai alla fine della sua carriera, mentre sappiamo che negli ultimi dieci anni si è dedicato attivamente al campo musicale ed è ormai imminente il ritorno dietro la macchina da presa per il sequel della serie Twin Peaks, in uscita nell’aprile del 2017. Chissà che non si possa aggiornare il volume con altre interviste, magari dopo il ritorno al mondo, ormai totalmente cambiato, del piccolo schermo.