Oh canta, Ulisse / Canta i tuoi viaggi / Racconta dove sei stato/ Racconta cos’hai visto / E racconta la storia di un uomo / Che non ha mai voluto lasciare la sua casa / Che era felice / E viveva tra le persone che conosceva / E parlava la loro lingua / Canta di come è stato gettato nel mondo.[1]
Comincia così la prima pellicola di Lost Lost Lost, con un appello alla ‘musa Ulisse’[2] recitato, quasi cantato secondo la tradizione dell’epica, dalla voice-over dello stesso autore che accompagna immagini in bianco e nero di una New York fine anni ’40.
Siamo in realtà nel 1976, Jonas Mekas, poeta e cineasta di origine lituana, vive a New York da ventisette anni ed è già considerato il padre della «rinascita»[3] del cinema americano: collabora da più di vent’anni con il «Village Voice» tenendo una rubrica di recensioni cinematografiche; nel 1954 aveva fondato «Film Culture», rivista dedicata al cinema d’avanguardia e nel 1961 organizzerà la Film-Makers’ Cooperative, che si occuperà di distribuire e diffondere i film del cosiddetto New American Cinema Group; ha già realizzato numerosi film, tra cui quello che lo renderà noto per uno stile compositivo, il cinediario,[4] che accompagnerà gran parte della sua produzione futura. Walden - Diaries, Notes and Sketches, questo il titolo del film nella sua interezza, risale al 1969 ed è costituito dal montaggio di filmati amatoriali realizzati dallo stesso regista tra il 1965 e il 1968. La sua pratica cinematografica è ormai definita e inscritta in una volontà di spostamento, di dislocazione da quell’insieme di norme che fondano il cinema narrativo. Una pratica basata su una soggettività radicale che lo (e ci) pone continuamente ai margini, in una condizione di estraneità a dei codici familiari e riconoscibili. È la pratica dello straniero, del cine-Ulisse, dove la nostalgia, il «dolore del ritorno» è per quella casa perduta delle origini: l’Itaca di Semeniškiai, il villaggio lituano dove l’autore è nato e cresciuto fino alla fuga durante l’occupazione stalinista, ma anche l’Itaca del primo cinema, di quelle immagini semplici e meravigliose che non avevano bisogno di «alcun dramma, di alcuna tragedia, alcuna suspense»[5] per catturare lo spettatore.