Videointervista a Fanny & Alexander

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In un freddo pomeriggio di fine gennaio, l’appuntamento è alla stazione di Ravenna. Chiara Lagani passa a prenderci in auto e, insieme, ci si sposta a Bassette. Ardis Hall, l’ormai storico spazio di lavoro di Fanny & Alexander, si trova lì, nella zona industriale della città romagnola. Spazio di lavoro ma anche a disposizione di altre realtà teatrali per le loro prove e la loro ricerca e aperto al pubblico per performance, mostre, convegni, laboratori e festeggiamenti: qui, come si legge sul sito della compagnia, «ha provato Marisa Fabbri, ha ballato Susan Sontag, ha cenato Ermanno Olmi». Un edificio di origine industriale, diviso in sala prove, laboratorio scenografico, magazzino e uffici. Ed è in questi ultimi che, una volta arrivato anche Luigi De Angelis, si sceglie di girare la videointervista: un’ora lungo la quale, grazie alla estrema disponibilità e generosità di Lagani e De Angelis, si attraverseranno i nodi centrali del percorso artistico e della poetica della compagnia che, in quasi trent’anni di lavoro, è divenuta una delle realtà più importanti nel panorama del teatro contemporaneo italiano.

Riprese audio-video e montaggio: Vittoria Majorana e Flavia Mazzarino

Qui di seguito la trascrizione integrale dell’intervista.

Incontro con Fanny & Alexander presso Ardis Hall © Marco Sciotto, 2020

 

1. Gioco, folgorazioni e lanterne magiche: l’origine multipla del duo

D: Che ne dite di partire dalla vera e propria origine di Fanny & Alexander? Origine tanto come esigenza e necessità primaria del fare teatro che come scelta del nome stesso della compagnia?

Chiara: È sempre difficile raccontare un inizio. Solitamente quando ce lo chiedono racconto un aneddoto. Andavamo nella stessa scuola ma non eravamo nella stessa classe. Immaginate due ragazzi di sedici anni che vanno al liceo. Mia madre era l’insegnante di filosofia di Luigi e mi diceva che c’era questo allievo che aveva iniziato un’esperienza teatrale autogestita con alcune sue compagne di classe. Stavano mettendo in scena le Troiane di Euripide e si vedevano nel pomeriggio a scuola, facendo le prove nei corridoi. Questa notizia mi aveva incuriosita, per cui chiesi di poter andare ad assistere.

Il giorno in cui andai c’era anche Ermanna Montanari, che non conoscevo all’epoca. Di quel lavoro mi catturava l’idea che un gruppo di persone della mia età mettessero tanto impegno e dedizione nella realizzazione di un progetto comune. C’era un impeto passionale in questo atto che mi conquistò particolarmente.

Per ringraziarli di quel pomeriggio insieme portai a Luigi un testo. Anche se non avrei mai pensato di fare teatro nella mia vita, scrivevo tanto e di tutto: diari, poesie e racconti fin da quando ero molto, molto piccola. Allora avevo questo testo, che non era nemmeno pensato come un testo teatrale, fatto a dialoghi, con una matrice drammatica anche se non conscia ed era tratto dall’Antologia di Spoon River. Lo portai a Luigi per ringraziarlo: lui mi aveva dato qualcosa e quindi io, in cambio, gli offrivo questo dono. Lui lo ha letto e alla fine, al suono della campanella, quando stavamo andando a casa, mi raggiunge e mi dice: «Lo mettiamo su, lo facciamo insieme?». È stata una domanda spiazzante, però è stato questo l’inizio. Non c’è stato quasi il tempo di dire sì che era già un sì.

Anche il prosieguo di questo sì è venuto quasi da solo. Non ricordo un momento in cui mi sono detta: «Io voglio far teatro da grande». Iniziamo a far teatro. Ci siamo trovati dentro questo ‘gioco’ molto serio. Eravamo due post-adolescenti, a quell’età, quindi uscivamo da una dimensione in cui il gioco era un po’ l’attività quotidiana. Conosci benissimo il rispetto delle regole, conosci benissimo la struttura del gioco e abbiamo proseguito per quel gioco. E anche adesso è un po’ così, anche se è tutto molto più complicato. Ma continua a essere così per noi.

Luigi: Sì, è stata una specie di folgorazione. Probabilmente nel momento in cui ci si trova non c’è un motivo. Quando ho fatto il gesto di dire «Dai mettiamolo in scena» era perché personalmente anch’io non avevo mai pensato «Farò teatro», ma è vero che era la condizione di espressione più vicina a me in quel momento.

Avevo fatto teatro a quattordici anni con Ermanna Montanari al Liceo Classico di Ravenna e grazie a lei mi sono avvicinato a dei testi e a delle questioni che sicuramente mi hanno portato a desiderare una pratica del teatro ‘radicale’ nel senso di un coinvolgimento a trecentosessanta gradi. Un libro come Il teatro della crudeltà di Artaud, che ho letto a quell’età grazie a Ermanna, è stato per me folgorante.

E vedere che Chiara aveva fatto quel testo, che era già un’opera compiuta su cui noi ci siamo ritrovati poi a costruire una prima drammaturgia, mi ha subito catturato. Anche in quel testo di Chiara avvertivo questa ‘radicalità’ di sguardo e di visione. Avvertivo che Chiara, lì dentro, si era veramente data completamente. Siamo partiti così con questa avventura.

All’inizio il nome Fanny & Alexander non esisteva. Eravamo semplicemente Chiara e Luigi. Ma a un certo punto ci siamo posti la questione del nome. Abbiamo cercato veramente a lungo, anche se, fin da subito, per onorare questa dimensione ‘ludica’ per noi fondamentale del teatro come una continuazione della dimensione del gioco serio, non volevamo dare al nostro nome come compagnia qualcosa che lo connotasse troppo. C’è chi sceglie di darsi un nome al cui interno c’è un significato molto forte e molto preciso. Noi preferivamo invece trovarne uno che da una parte onorasse questa nostra dimensione di duo, con l’idea però che potesse essere semplicemente l’avatar di una possibile moltiplicazione, e dall’altra la questione dello sguardo infantile sul mondo come possibilità rispetto a quello degli adulti in cui ci trovavamo a doverci esprimere, che era pieno di ostacoli, incerto. Lo è tutt’ora. Anzi, mi viene da dire che lo è forse ancora di più adesso.

Stavamo guardando vari film di Bergman per un nostro percorso rispetto agli spettacoli che volevamo fare e abbiamo visto Fanny & Alexander e probabilmente ci siamo molto identificati con il duo fratello e sorella. Dicevamo che avevano dei tratti anche simili a noi, a livello somatico. Ma lì c’era anche una dimensione in cui il teatro è sicuramente una salvezza, è il luogo della fantasia, della lanterna magica, salvifico rispetto al mondo degli adulti che è invece oppressivo, difficile, non sempre comprensibile come quella logica ludica e infantile, così seria ma così lontana da quegli ostacoli e da quelle problematiche.

Quindi Fanny & Alexander nasce da quest’idea, da questi due ‘nomi avatar’ che sono per noi un motore, richiedono sempre uno stimolo continuo per cercare di mantenere questa visione; pur avendo coscienza e profondità acquisita anche nel tempo, perché, come dice Primo Levi, in trent’anni si acquisiscono tante cose, se ne perdono altre, però se ne acquisiscono sempre mantenendo quello sguardo che soprattutto i bambini hanno, che è estremamente lucido sul mondo. Lucido perché privo di protezioni sovrastrutturali. Ecco, questo è quello che cerchiamo di fare quotidianamente con il nostro lavoro.

 

2. Nel mondo della letteratura: il romanzo come teatro

D: Nel vostro percorso avete messo in scena molti spettacoli tratti da opere letterarie, specialmente dai romanzi. A cosa è dovuta questa preferenza per la forma del romanzo rispetto alla forse più classica letteratura teatrale? Qual è il filo conduttore che tiene uniti autori tra loro differenti quali Nabokov, Baum o Levi?

Chiara: Ci sto riflettendo molto su questa cosa, perché mi hanno invitata a fare una lezione su questo tema, cioè sul romanzo, sull’idea di romanzo come teatro. E l’altro giorno, facendo una scaletta mentale, pensavo che in fondo abbiamo creato strutture romanzesche anche laddove la partenza non era un romanzo. Per esempio, con la Vita immaginaria di Fanny & Alexander, che era un’autobiografia.

Lo abbiamo fatto sempre, anche con quelle cose che apparivano in principio non dico astratte però più scollegate da una storia precedente, da una matrice narrativa, e abbiamo costruito addirittura delle saghe, come nel caso che citavi di Baum, la storia di Oz. In quella prima fase non si può dire che abbiamo ricalcato esattamente la natura propria, narrativo-romanzesca, dei quattordici romanzi di Baum ‒ lo abbiamo fatto molto di più adesso, per i bambini ‒, ma ne abbiamo attraversato, all’epoca, la natura archetipica: creando un viaggio teatrale di molte tappe in cui Dorothy era un avatar, le attrici cambiavano di spettacolo in spettacolo e con delle figure quasi mitologiche che venivano indagate.

Per Ada è stato diverso. C’è stata quasi una sorta di identificazione emblematica tra il corpo romanzesco e il corpo del romanzo della nostra vita. Ci colpì del libro di Nabokov il fatto che i due protagonisti, che avevano questa storia d’amore incestuosa, compivano nella stessa narrazione ‒ quindi attraverso la loro vita in pagina ‒ la loro epifania, l’epifania della loro vita artistica. Tanto che quando chiudevi quel libro finiva la storia, ma finiva anche la loro vita e tu lettore eri un po’ il responsabile di quella morte, abbandonando quella storia.

Ed è un po’ questa la nostra visione di tutto quello che attraversiamo: un corpo a cui dai vita, un organismo delicatissimo, uno spettacolo dotato di una sua energia, condizionato da tante variabili, come gli altri artisti con cui lavori, le loro vite, le biografie (anche quando non entrano), elementi alchemici che vanno da una luce al colore di un abito. Tutti elementi che in maniera più o meno incontrollata entrano in una sintonia perfetta e ti danno un’indicazione che è sempre di ‘vita’, se hai l’umiltà per seguirla, questa indicazione.

Un romanzo è un organismo di questo tipo. Io non ho mai scritto un romanzo, anche se mi piacerebbe, ma credo che un autore di romanzi si metta in ascolto della propria opera come se avesse davanti una creatura vegetale o animale. Alcune coordinate spetta a noi darle ma a un certo punto è l’animale che prende il sopravvento e tu devi stare dietro al suo respiro. E se trovi il ritmo giusto con il suo respiro, questa cosa prende piede. Io ho sempre pensato che il teatro fosse questo e credo che per questo abbiamo costruito e ripercorso strutture romanzesche.

Anche Levi per noi adesso è un ‘romanzo’. Lui è uno scrittore testimone ma di racconti, romanzi brevi. Ma, come dice Belpoliti, è un romanzo la sua vita, è un romanzo il suo atteggiamento nei confronti dell’arte, della storia, dell’esistenza, della morale.

Credo di poter rispondere così a questa domanda. Il nostro rapporto con la forma romanzesca è veramente di tipo profondo e quasi ontologico.

Luigi: Bisogna considerare il fatto che, appunto, un romanzo è veramente un mondo. Quando leggo un romanzo, ho bisogno di leggerlo, per come sono fatto, in maniera quasi compulsiva. Ti fa entrare in una dimensione totalizzante. E questo rapporto con la letteratura, con lo sguardo di chi legge, per me è qualcosa che abbiamo tentato di rifare nelle nostre opere.

Si è trattato quindi di sviscerare un romanzo, come Ada di Nabokov ma anche Oz. Per questi progetti, che hanno tantissime tappe e tanti anni, l’intento era proprio un’esplorazione all’interno di questo mondo. C’è sempre un aspetto esplorativo, quasi corporeo, all’interno di queste opere.

Io non sono un lettore della letteratura teatrale, per esempio. Faccio fatica, ho una grande difficoltà, perché ho l’impressione di non trovare la mia via, il mio spazio lì dentro. Faccio fatica a collocarmi.

Preferisco l’idea di essere catapultato, invece, in un mondo come quello di un romanzo, dove tutto è in qualche modo architettato. E infatti partiamo spesso da architetture, mondi che ricreiamo come altrettante architetture dove lo spettatore entra in una dimensione che sia, possibilmente, a trecentosessanta gradi, totalizzante. E questo vale sia che uno lo faccia in una direzione iperrealistica, come per esempio nel progetto su Levi, che in una maniera più visionaria, come per quello che riguarda L’amica geniale, con un rapporto con la scena e il palco differenti ma con la stessa idea per il modo di entrare in quel mondo. Almeno per come mi pongo io, primo spettatore di quello che facciamo.

 

D: Se la struttura narrativa del romanzo viene meno, nei vostri lavori rimangono centrali le figure dei personaggi: pensiamo a Dorothy e alle sue infinite varianti o a Him/Hitler, fino ad arrivare a Elena e Raffaella della Ferrante con le loro bambole, passando per i personaggi che popolano il Rave Foster Wallace. Che cosa rende queste figure, con le loro biografie immaginarie, così fondamentali e irrinunciabili? Come acquisiscono questa loro corporeità che li rende estremamente vivi, a volte iperreali?

Chiara: Ciò che li rende forti è sicuramente un’intuizione anche molto istintiva, animale, sulla perfetta sovrapposizione che queste figure hanno con i nostri attori. Credo che sia questa l’unica cosa che può rendere vivo, in teatro, un personaggio che viene da una pagina scritta, sia essa teatrale o romanzesca o anche dalle pagine della vita, se è un personaggio storico. Se deve rivivere ha bisogno di sangue e perché avvenga questa trasfusione ci vuole una frizione perfetta. Quando noi ipotizziamo di mettere in scena qualcosa, l’intuizione su chi lo farà c’è ed è raro che ci mettiamo a dire «Non troviamo l’attore. Chi può essere?». Solitamente è una delle prime cose che abbiamo in mente.

Mi diverte pensare: l’attore, se dovessi disegnarlo alla fine della sua vita, quante pelli avrebbe? Sarebbe un animale vestito da tantissime pelli e io, che mi sento quasi più drammaturga che attrice, ho l’idea che comunque la mia vita sia come una grande casa in cui si frequentano tutti questi esseri. Lì Elena potrebbe cenare con Dorothy e perfino con Him, anche se è un brutto ceffo. Sono tutti personaggi che, pur essendo diversissimi, appartenendo a macrocosmi e a universi diversi e opposti (alla storia, ai romanzi), hanno probabilmente una matrice archetipica che li accomuna: quella del desiderio che ci ha condotti fino a loro.

E per le anamorfosi che hanno preso nei nostri spettacoli sono come tutti appartenenti alla stessa famiglia. Li potrei ospitare, accogliere tutti, come è accaduto. Lo abbiamo fatto e continuiamo a farlo nella nostra grande casa. Ogni tanto li tiriamo fuori dalle loro dimensioni, che non sono mai sepolte.

Ad esempio, Dorothy sembra una dannazione, poverina, perché io ero bambina quando ero innamorata di lei, poi ero una ragazzina quando abbiamo cominciato e credevamo che la storia fosse chiusa quando, dopo sei anni, Einaudi mi chiede invece di realizzare il volume ed ecco che si riapre. E adesso ci sono anche i bambini che la rifrequentano attraverso noi, insieme a me che oggi la ricalco in scena. Sono storie che sembrano non voler finire perché hanno a che fare con ossessioni profonde.

Luigi: Io credo che tutte queste figure parlino di noi. Queste figure esistono perché ci interrogano nel profondo, in qualche modo. Ogni atto teatrale, ogni forma d’arte rappresenta qualcosa che ha anche a che fare con il proprio percorso psichico nel mondo. Nel momento in cui si fa un suo percorso di crescita, si ha il bisogno a volte di reinterrogare queste figure perché sono parte di noi.

Così come per un attore quelle pelli sono anche una figura interiore che si porta dentro, che significa qualcosa per lui o per lei, che lo interroga e lo muove psichicamente, così lo sono per noi che ideiamo gli spettacoli, tutte queste figure. Tutte sono parte di noi e siamo abitati, nella vita ci servono, sono compagni al di là dell’opera stessa.

 

3. Intorno a I libri di Oz: dalla traduzione per Einaudi al teatro per l’infanzia

D: Sembra quasi che sia stata l’attività di traduzione e l’incontro con Mara Cerri ad avere in qualche modo traghettato il lavoro su Oz, cominciato nel 2009, verso lo sguardo infantile e il teatro per l’infanzia. Come è avvenuto questo processo?

Chiara: Se penso al percorso della mia prima traduzione, c’è stato un piacere fanciullesco che mi guidava, anche nel rapporto con Mara Cerri, che mi mandava queste immagini che per me erano veramente l’oracolo. Che volto avrà Dorothy? Quando sapevo che il giorno dopo mi sarebbe arrivata la mail con la faccia di Dorothy, avevo quell’emozione che si ha quando devi incontrare l’innamorato al liceo. Era un fatto di grande entusiasmo infantile, questa attesa. E lo stesso tradurre.

Erano storie, quelle di Baum, che avevamo frequentato in tanti modi in inglese: ne avevo tradotto delle parti, anche per i laboratori, o sono finite negli spettacoli. Ma forse non le avevo sondate così in profondità. Le ho dovuto rileggere, traducendole, attraversare fino in fondo in tutti i loro spigoli, spiragli più reconditi. Dico sempre che il tradurre è, credo, la forma più perfetta e più alta di lettura che puoi avere nella vita. Credo che un libro, adesso, possa essere veramente letto solamente quando lo traduci. Letto con quel livello di profondità, perché ne capisci tutte le ‘goccioline’ che stilla. Sei costretto, perché devi dargli una forma nella tua lingua, ma devi fare un travaso importante di grande responsabilità, anche per i nuovi lettori, che qui erano oltretutto dei bambini: una responsabilità ancora più grande. Però, allo stesso tempo, attraversandolo in quel modo, è come se si fosse disteso di fronte a me uno scenario, una mappa infinita di storie che mi consentivano di frequentarle insieme a quei personaggi. Ero proprio come i bambini che mandavano le letterine a Baum. Pur avendole già lette, quelle storie, era come incontrarle di nuovo per la prima volta. Con tutta questa ricchezza alla fine ci siamo guardati e ci siamo detti: «Ma possiamo lasciarla qui? Dopo aver fatto questa scoperta straordinaria, non dobbiamo metterla a frutto?». Da lì, l’idea di OZ, di creare una specie di labirinto, un racconto ad albero, il primo esperimento di questo tipo fatto in teatro, che io sappia. I bambini arrivano con il telecomando e possono scegliere loro dove andare. Un po’ come ripercorre quello che ho fatto io. Non avevo un telecomando in mano, ma anch’io mi dicevo «Adesso vado a vedere se nel quattordicesimo libro questa cosa torna» e traducevo un pezzo. Quando arrivavo nel tredicesimo capivo un passo che avevo tradotto male nel secondo. E questo labirinto l’ho vissuto come mi auguro possa fare adesso una bambina dalla platea, di fronte allo spettacolo, perché vuole scoprire queste storie. Credo che si lavori per i bambini, in qualche modo, ripercorrendo i passi del bambino che si è. Lavorare con i bambini è molto istruttivo perché ti costringe a una qualità elevatissima, per la loro intolleranza verso ciò che non lo è, e ti tiene in contatto con quella parte bambina che non dovrebbe mai essere spenta. Sei costretto a tenerla in contatto, altrimenti con loro non ci parli e credo che sia per questo che abbiamo deciso solo adesso di metterlo in scena per i bambini.

Incontro con Fanny & Alexander presso Ardis Hall © Marco Sciotto, 2020

 

4. Sconfinamenti della scena: il dialogo con fotografia, video e spazi alternativi

D: Da tempo collaborate con molti artisti, quali Enrico Fedrigoli, Zapruder Filmmakersgroup e altri, con i quali avete realizzato progetti che esulano dal lavoro specificamente legato alla scena. Penso, ad esempio, a O/Z Atlante di un viaggio teatrale, la cui seconda parte è un fotoromanzo realizzato con le fotografie di Fedrigoli. In che modo le vostre opere rivivono in questi progetti intermediali?

Luigi: Sicuramente per noi l’opera non è mai soltanto lo spettacolo. Lo spettacolo, per me, è sempre la punta di un iceberg, ma attorno ci sono tantissime pratiche. Alcune sono private, ma altre è bello condividerle, in qualche modo, con la comunità degli spettatori.

L’opera è fatta di così tante parti che considero forme di riscrittura. Come le video-installazioni che ci sono state, oppure i documenti video che ne rimangono, per esempio Rebus per Ada, che è un film fatto con Zapudrer Filmmakersgroup su Ardis II, lo spettacolo su Ada di Nabokov. Ecco, in quel caso, per noi, sono delle opere a sé stanti che dovrebbero avere una loro autonomia, che fanno parte di quella costellazione spiraliforme che è l’attraversamento di un’opera-mondo. Abbiamo spesso parlato di questo andamento a spirale, perché è un’immagine per me molto bella: con questa ritorno sullo stesso punto ma sempre più in profondità e lì ci sono le opere ma possono esserci anche delle fotografie, per esempio.

Da moltissimi anni, ormai più di venti, abbiamo un rapporto molto forte con Enrico Fedrigoli, un fotografo che, almeno per quello che mi riguarda, è stato veramente un maestro di visione. Il suo modo per esprimersi nella fotografia è attraverso il banco ottico, un mezzo che obbliga, quando si fotografa, a una prefigurazione dell’immagine che si vorrà costruire per il fotogramma. Non si può vedere nell’otturatore, mentre si fotografa. È un mezzo in cui puoi, da un certo punto di vista, creare un’architettura dell’immagine molto precisa, però nel momento in cui scatti. Hai una tendina che viene chiusa, per cui tu non sveli quello che fotograferai. Per chi fotografa c’è una prefigurazione interna fortissima di quello che si vuole andare a fotografare. C’è un rapporto molto forte con la parte ombratile, dell’ombra, con ciò che poi si andrà a materializzare nella luce. Essere stato per tanto tempo assistente accanto a Enrico Fredigoli (abbiamo fatto anche un percorso su Ravenna, con le industrie e di notte) mi ha permesso di assorbire questa dimensione: la costruzione dell’immagine tramite una prefigurazione, che io continuo a fare non solo quando lavoro con lui, ma continuamente, per tutti gli spettacoli. Cercare di avere una consapevolezza molto grande all’interno di un fotogramma è importantissimo. Non soltanto da un punto di vista di ‘pelle estetica’ per quello che si sta per costruire, ma a livello profondo, nel senso che, considerando la compresenza all’interno di un quadro, di un riquadro – anche a teatro siamo in un riquadro rettangolare quando si fanno progetti negli spazi –, il posizionamento delle cose ha una sua lingua sotterranea molto forte, subliminale, che per me parla quanto un video, una storia parlata, un testo. Fa parte del testo complessivo. Questa ossessione rispetto alla fotografia ha a che fare con la ricerca di una consapevolezza o di un utilizzo di questa ‘lingua dell’inconscio ottico’.

Per questo abbiamo cercato di insistere, costruire e immaginare che queste fotografie non sono tanto dei documenti ma delle opere a sé stanti, che a volte sono state attraversate, per esempio, anche in un libro e con una nuova drammaturgia. Le immagini hanno una loro autonomia a prescindere dall’opera. Ecco perché abbiamo avuto l’idea di fare delle opere-video un libro o un atlante (che esprime un attraversamento) nel momento in cui abbiamo pensato di fare l’Atlante di O/Z. Abbiamo voluto fare un libro che non documentasse quel progetto ma che mostrasse la complessità della tessitura, di tutte le moltiplicazioni delle domande che qualsiasi opera genera automaticamente in noi, in chi la attraversa e collabora insieme a noi.

Inoltre, una cosa che rimarchiamo sempre è che dietro un’opera non ci siamo solo noi. Ci sono tante altre persone. Si respirano nell’aria delle ‘spore’ di cui noi ci nutriamo. Noi siamo parlati, attraversati, da queste ‘spore’ e, alchenicamente, le riproponiamo trasformate in qualcos’altro. L’Atlante di O/Z era pieno di richieste e di domande ad altri artisti affinché portassero il loro sguardo, il loro attraversamento, non tanto sui nostri spettacoli ma su delle tematiche nodali che erano motore di quello spettacolo.

 

D: In che modo gli spazi influenzano la nascita e la realizzazione degli spettacoli, dalle prove all’allestimento in luoghi non teatrali? Penso, ad esempio, a spettacoli come Kansas Museum o There is no place like home, ideati per un luogo alternativo alla sala teatrale, cioè per un museo.

Chiara: Kansas Museum era concepito per qualunque museo possibile e quindi è cambiato. Quando lo abbiamo fatto in luoghi diversi abbiamo dovuto istituire relazioni differenti con le opere, ma anche relazioni energetiche e di contenuto diverse con quello che accadeva. Una dinamica che si ripete, anche perché in tutti i site-specific la domanda sul ruolo drammaturgico del luogo è primaria, è una parte del testo.

Pensiamo al Rave Foster Wallace, in cui gli spazi del Paolo Pini [l’Ex Ospedale Psichiatrico di Milano, nel quale si è svolta la maratona-happening di dodici ore, n.d.c.] erano già il testo, perché davano delle coordinate che nel romanzo sono descritte, naturalmente trasfigurate, cambiate, mutate. Il teatro ha questa grande possibilità. Non tutto deve essere tradotto in parola. A volte c’è un testo che non è fatto di parole e che è dato, nel site-specific, dalla coordinata spaziale che è già narrazione.

Ci si scontra con questo problema, come è stato, per esempio, in una delle tappe del progetto su Levi, Ad ora incerta, che ci è stata commissionata circa due anni fa qui a Ravenna. Veniva inaugurata una mostra sul tema della guerra al museo della città e il direttore ci chiese di portare Levi, che non è Ada di Nabokov ma una persona, che tra l’altro ha una storia abbastanza importante, con delle ripercussioni molto forti per tutta la nostra memoria collettiva. E quindi non è semplicemente metterlo in un museo e vedere cosa direbbe se ne facesse l’inaugurazione. Ci sono delle implicazioni forti, di tipo etico, che ti spingono proprio a istituire una relazione semantica molto forte con il luogo in cui lo collochi, per il grande amore e rispetto che gli portiamo. Tanto che adesso ce lo hanno chiesto e lo stiamo rappresentando in questi giorni in un contesto del tutto diverso – si tratta del Museo Ebraico di Bologna, dove il tema è quello dell’identità ebraica – e abbiamo dovuto cambiarlo del tutto. C’era un testo che non è più quello, è mutato completamente e non solo per un fatto di inopportunità tematica. Quello spazio è già una parte di quel testo: come dire che nei site-specific il contesto è già testo nell’opera drammaturgica. Per cui accanto a un testo bisogna metterne un altro ed è un rapporto di equivalenza che in teatro puoi anche subordinare, perché lì puoi partire da un testo e poi creare tu lo spazio. A teatro siamo in luogo che ti permette la creazione di uno spazio, in qualche modo, invece in un site-specific no. Hai il luogo che ti detta delle regole grammaticali prioritarie e se non le segui sbagli lo spettacolo.

Luigi: Devo dire una cosa sulla questione degli spazi. Gli spazi sono spietati e, come diceva Chiara, ti obbligano a una precisione incredibile. Ad esempio, per il progetto Se questo è Levi è capitato di fare la seconda tappa, Il sistema periodico, che di solito viene fatta in un’aula o un laboratorio di chimica o comunque in luoghi in cui Levi avrebbe potuto tenere una lezione sul suo rapporto tra chimica e scrittura. A Massafra è accaduto di farlo in un teatro e ho provato un fastidio quasi fisico in quell’occasione. Il teatro ti pone di fronte a un contratto differente tra spettatore e opera, quando sei lì. Per il fatto che avevamo messo una lavagna, una scrivania su un palco, la cosa per me perdeva totalmente di forza. Non credevo che fosse più ‘Levi’ lì veramente. L’idea di questo super-realismo di cui parla anche lui, con i site-specific lo hai come ossessione, più o meno sempre. Questa cosa puoi averla nel progetto Se questo è Levi o nel Rave Foster Wallace, se le coordinate non sono precise rispetto alle figure e al testo. Non funziona, diventa una specie di usurpazione di qualcosa. In realtà sono stato molto grato di averlo fatto in quel modo a Massafra per capire che proprio non va fatto, che bisogna essere radicali, altrimenti non si fa.

Infatti noi spesso diciamo dei no. Anche il progetto del Rave Foster Wallace ci è stato chiesto di farlo in dei contesti in cui ci siamo chiesti se potesse funzionare. Erano così totalmente lontani da quelli che sono i dati essenziali del romanzo, a livello di architettura, che abbiamo dovuto dire dei no. Tutto ciò accompagna i progetti legati ai site-specific.

Un’ultima cosa volevo dire. Secondo me l’architettura di un luogo, così come anche la scena, ha delle fortissime ripercussioni, subliminali, con la performance e il gesto dell’attore sulla scena. Per me, oltre che testo, uno spazio è già regia. Se le condizioni sono molto precise, giuste, quell’architettura sta già dando delle indicazioni all’interprete sul come porsi e come stare in quello spazio, una cosa che verifico continuamente. Tanto che per me a volte la regia è proprio la scelta giusta dell’architettura.

Senza dover aggiungere delle questioni. Nel Rave Foster Wallace questo è stato incredibilmente forte. A costo di essere odiato dai ragazzi, ho chiesto che non si facesse neanche una prova. Deve essere la situazione, il luogo, che deve fare riverberare qualcosa. D’altronde erano tutti interpreti straordinari e bravissimi, di altissimo livello. Credo che per loro avere individuato con precisione l’architettura dei luoghi, che sono testo, è stato anche un input, uno stimolo subliminale, una spinta fondamentale. Gli spazi precisi sono anche questo, come per un’architettura della scena precisa su un palco, laddove si può e laddove ci sono i budget. Diciamo che i site-specific sono gratis. Sarebbe bello fare delle scene su un palco che permettano anche una precisione di quel livello, purtroppo non è il caso dell’Italia e del nostro contesto.

 

5. Il potere della parola dai Discorsi a Se questo è Levi: l’eterodirezione e l’oralità come ‘impronta’

D: Quella dell’eterodirezione è, ormai da dieci-quindici anni, una delle pratiche centrali del vostro lavoro. In che modo pensate che essa permetta di ridefinire e ripensare radicalmente il ruolo dell’attore sulla scena? Che spazi di libertà gli permette di aprire un simile dispositivo, tanto vincolante?

Chiara: L’eterodirezione è un dispositivo attoriale o di scrittura live. Ci sono partiture che vengono poi fissate, in realtà la miccia del live regna dentro di loro. Prevede infatti che l’attore non conosca a memoria un testo né una partitura di gesti, quando entra in scena. È dotato di un in-ear monitor con cui riceve istruzioni da un orecchio e dall’altro, nei due lati del cervello (immaginate di essere proprio divisi in due), sulle azioni che deve compiere, sul testo da pronunciare.

Questo fa sì che l’attore diventi una sorta di ‘penna vigile’ in mano a un drammaturgo, a un regista fantasma: i quali o sono dietro la console e agiscono direttamente in osmosi e sinergia con quell’attore, oppure hanno agito prima e sono lì, incombono come presenze ordinanti alle sue orecchie.

Ciò produce una sorta di abbandono controllato, lucido, che poi è quell’immagine perfetta ‒ citando la formula di Deleuze ‒ della ‘sentinella vigile’, che fa la guardia al sé stesso dormiente. Questa per me è la definizione di attore più perfetta che abbia mai trovato e quindi la ripropongo.

Ed è anche la perfetta definizione dell’eterodirezione. Una parte di te è completamente abbandonata, dorme, ma è un sonno naturalmente profondo, quello del sogno, mentre un’altra le fa la guardia lucidamente. Questo ovviamente apre degli spazi di libertà incommensurabili perché si tratta di tutto il peso che noi normalmente consegniamo alla volizione, che è tanto: se fossimo un computer occuperebbe tantissimi giga ed esaurirebbe quasi tutta la nostra memoria, perché è la parte decisionale, che ci tiene attivi. Tutta questa parte può essere messa a riposo, a tacere, liberando spazio per tutte le altre attività che gestiamo con una parte più istintiva, subcorticale del cervello, che è stata meno coltivata, perlomeno nella nostra società. In quel momento, lì, inaspettatamente si apre questa finestra e puoi lavorare su quella parte coscientemente e incoscientemente, un mix di queste due dimensioni.

A volte ci è stato detto dell’attore ‘telecomandato’ o come marionetta senza fili e senza libertà. Sì e no, perché in realtà la qualità che metti in quel singolo frammento di questione, che sia testuale o gestuale, apre uno spazio infinito ed è addirittura imprevedibile, se uno non lo sta vivendo.

Lo vedo molto bene nei laboratori più che con gli attori. I dilettanti assoluti riescono a raggiungere in pochissimo tempo un livello di qualità insospettabile. Quelli che si sanno abbandonare a questo metodo, messi in questa situazione, hanno una reazione di eccitazione furiosa. Ti chiedono di riprovare immediatamente, perché è come se si fosse aperta per loro una possibilità che non immaginavano e questo dà alla testa. L’eterodirezione ha quest’effetto perché è un’esperienza attiva.

Mi aggancio alla questione dell’attore e della perdita del controllo. Vero, c’è una perdita di controllo che ha pure delle regole. Sei in quello stato liminare, in bilico, tra il controllo e il non controllo. Difficile da spiegare come sensazione. Sei aperto a tutte le possibilità, a tutto quello che ti può accadere, in estrema situazione di resa, di dono più che di resa, c’è una passività attiva molto forte. Prima de L’amica geniale, io non ho training di nessun tipo, l’unico è quello di arrivare a quello stato di concentrazione svuotata per cui il primo pensiero e l’ultimo che ho prima di entrare in scena è sempre quello di voler essere ‘scritta’ dallo spettacolo e la speranza di aver fatto tanto spazio per poter essere ‘scritta’. Quindi, in questo senso, perdi il controllo ma ne acquisti uno più raffinato che forse non si può chiamare neanche ‘controllo’. È un’altra cosa. Però è qualcosa che alla lunga, se esercitata, diventa un’esplorazione molto, molto sottile dentro di te.

Luigi: Amo molto questa pratica, perché l’attore è ‘letto’, non ‘legge’. Questa cosa che diceva Carmelo Bene l’ho capita soltanto adesso. A un certo punto disse di voler abbandonare la ‘recitazione’ per fare solo delle letture. In realtà essere ‘letto’ da quello che leggeva. L’ho capito tramite la pratica dell’eterodirezione perché è fondamentale fare spazio, farsi tramite, diventare la metafora dell’essere tramite, dell’essere antenna e incarnarla (questa metafora).

Abbiamo verificato che funziona di meno laddove gli interpreti hanno bisogno di portare comunque sulla scena un’immagine di sé molto precisa: un’immagine nella voce, un’immagine nel corpo. Hanno una parte del cervello che lotta contro questo meccanismo, perché si preoccupa di salvaguardare quella loro costruzione senza la quale si sentono indifesi. Probabilmente è la loro corazza e non vogliamo giudicarli.

Questa pratica invece funziona molto bene laddove questa corazza è d’acqua, permette di entrare. Bisogna essere come l’acqua, avere la sua forza. È uno degli elementi più forti che esistano.

È una questione molto simile a quella dell’architettura esterna che in qualche modo influenza l’interprete nel suo posizionarsi nello spazio. Solo che lo pone sempre nel presente e non in un tempo passato. Ovviamente c’è una piccola frizione spazio-temporale, un piccolo delay, c’è una latenza tra quello che è l’input e lo spazio in cui avviene l’espressione della libertà massima dell’interprete. Però allo stesso tempo si è sempre nel presente, nell’istante, non si è mai in una dimensione in cui ci si riferisce a un passato che è quello della memoria, quello dell’aver costruito, aver imparato un copione, una partitura. Questa dimensione del presente, secondo me, viene avvertita anche dagli spettatori, c’è qualcosa che crea una strana elettricità della percezione in chi guarda. Questa elettricità è un grande gancio. Per noi è fondamentale essere tramite di qualcosa con il pubblico e creare questi fili, che creano quest’effervescenza ed elettricità, che poi è proprio l’espressione dell’opera e del contatto tra l’opera e chi sta dall’altra parte.

 

D: Nel progetto Discorsi veniva esplorata la dimensione retorica del linguaggio ‘spettacolare’, della politica e della società, fortemente legata ai processi di persuasione impliciti nei canali di comunicazione ma anche alla vostra ricerca sul metodo dell’eterodirezione. In Se questo è Levi sembra emergere, secondo quanto affermato da Belpoliti, una dimensione orale che risuona in modo particolare con quella ‘necessità di testimoniare’ che ha da sempre caratterizzato la scrittura e la parola di Levi. È possibile che questo spettacolo getti una luce diversa sul metodo recitativo dell’eterodirezione?

Chiara: Sono due questioni che io vivo in maniera molto diversa. Il discorso della parola come testimonianza in Levi ha una limpidità quasi cristallina che è quella dell’anima di questa persona. E non lo dico per tutto quello che Levi ha sofferto, è qualcosa che doveva essere inscritto dentro il suo carattere. C’è un’integrità eccezionale in quest’uomo che patisce quello che ha provato ma se avesse subito un’altra esperienza analoga non potremmo immaginare che cosa sarebbe stato, naturalmente, come scrittore. Lo dice lui stesso. Lui ha deciso di scrivere per quello, quindi è assurdo chiederselo. Si pone di fronte a questo suo vissuto con un senso di dovere testimoniale forse senza precedenti nella letteratura italiana, disegnando una sorta di paradigma etico-morale anche dello scrittore testimone. A scatenare la commozione non è il semplice ascoltare racconti atroci per quello che ha patito ma, secondo me, questo rapporto corpo a corpo così limpido con questo tipo di esperienza testimoniale, che è qualcosa di irripetibile, di difficilmente ritrovabile in altre forme.

Se c’è una cosa che può mettere in comune il progetto Discorsi a quello che adesso, in qualche modo, è la sua ricaduta artistica dentro al progetto Levi ‒ perché ovviamente tutti i progetti ricadono l’uno nell’altro ‒ è la questione dell’‘impronta’. L’impronta è per noi una declinazione della forma dell’eterodirezione e si ha quando l’attore non è solamente portato a dire e fare cose che gli vengono suggerite ma ha dentro (per quello che riguarda la parte testuale ma anche per la parte gestuale) una serie di gesti appartenenti a un personaggio ben chiaro e definito che si è scelto, oppure addirittura, come nel progetto Discorsi, la voce stessa di quel personaggio. Si crea una specie di calco. L’attore, preso sempre in questa grande disponibilità, è una materia duttile, molle, in cui s’imprime questa forza fantasmatica che è un’anima. Essere abitati da qualcuno. La tua voce in qualche modo si impregna. E poi la voce, lo sappiamo, è la cosa più antica. Tutti i dolori, tutti i traumi atavici, la paura di cadere, la paura di soffocare: la voce testimonia le cose più profonde e indicibili della nostra vita. Tutto questo ti attraversa.

Materiale quindi che è anche potentemente tossico, soprattutto quando, come nei Discorsi, abbiamo lavorato su dei personaggi anche abbastanza impegnativi. È un potere che la parola esercita sull’attore. Sullo spettatore, sia nei Discorsi sia in Levi, ha un potere che io definirei ‘specchiante’. In qualche modo, questo processo osmotico dell’impronta crea qualcosa, una forma, in cui chi assiste si può rispecchiare. E questo avviene sia nel senso della memoria collettiva – ci sentiamo improvvisamente comunità spinta ad accogliere questa testimonianza – sia nel caso di Levi che nel caso dei Discorsi. Mi ricordo che Discorso Grigio venne accolto in maniera non troppo entusiastica da tanta parte del teatro italiano di sinistra, perché per loro era un materiale ripugnante: «Voi ci portate a teatro la televisione, Berlusconi e tutti i politici che noi non vogliamo più ascoltare?». In realtà era la parola che si faceva specchio e rispecchiava quel che noi siamo, i nostri fantasmi, le nostre aberrazioni, perché noi siamo i figli del berlusconismo. È in qualche modo una parte deviata di noi che è insopportabile da guardare. In questo senso la parola esercita un potere quasi annichilente, bisogna starci attenti e sorvegliarla quasi.

Luigi: Una cosa che hanno in comune è che quando utilizziamo l’impronta e quindi le parole pronunciate ‒ che non derivano direttamente dalla letteratura, che non sono state pronunciate a teatro ma nella vita quotidiana, nella realtà ‒, quel modo di pronunciarle è pieno di piccole imprecisioni. Ad esempio, Levi è pieno di tentennamenti, velocizzazioni, rallentamenti, incespica e poi tossisce, come quando parliamo anche noi e questo vale anche nei discorsi politici. Questa componente c’è, anche se uno ha costruito retoricamente un suo discorso. Questa quotidianità della parola la rende, secondo me, estremamente umana ed estremamente vicina a noi e quindi ci arriva in una maniera più diretta.

I testi scritti da Chiara sono scritti ascoltandoli, non leggendoli: è una forma di drammaturgia che parte fin dall’inizio dall’ascolto. Fatta su Ableton Live e non su Word, perché deve funzionare innanzitutto all’ascolto.

E questa cosa della quotidianità della parola, io la vedo molto anche con Levi: in qualche modo fa arrivare questa oralità, la forza dell’oralità di Levi, più vicina agli spettatori proprio perché questi possono anche rispecchiarsi in quella maniera di parlare. C’è anche questo aspetto che la rende più vicina a noi. Se noi avessimo preso le conversazioni o le interviste di Levi pubblicate da Einaudi e le avessimo messe in scena in dizione perfetta, con un interprete, non avrebbe funzionato in questo modo, anche se sono testi di conversazioni. Non avrebbe creato quella vicinanza e quella commozione che è determinata anche dalla grana della voce, che si porta dietro i traumi, un mondo intero. Un vestito animico per l’interprete.