1. Qu’est-ce que le cinéma ?
In un testo riportato alla luce di recente Germaine Dulac descrive l’essenza del cinema come il danzare fluido di linee e ombre nel mutare continuo di ritmi e cadenze:
Lignes, volumes, surfaces, lumières, envisagés dans leurs métamorphoses constantes, sont susceptibles de nous éteindre comme la plante qui croît si nous savons les ordonner en une construction capable de correspondre aux besoins de notre imagination et de nos nerfs, puisque les mouvements et les rythmes restent, en tout cas, même dans une incarnation plus matérielle et significative, l’essence intime et unique de l’expression cinématographique. Nous évoquons une danseuse – Une femme? Non. Une ligne bondissante aux rythmes harmonieux. Nous évoquons sur des voiles une projection lumineuse. Matière précise? Non. Rythmes fluides (Dulac 2019 [inedito], p. 173).
L’immagine del germinare delle piante e delle metamorfosi del seme, che si fa fiore e frutto per poi appassire, ricorre sovente nel cinema d’avanguardia, nei film come nei discorsi che tentano d’imbastire una teoria della nuova arte individuandone i tratti inediti che possano disegnare per il cinema uno spazio indipendente e distante da letteratura, pittura e teatro. Dulac piega qui quello stereotipo visivo al motivo del fluire delle linee pure e del ritmo, fondamento della sua idea di cinema integrale; narrativo o astratto che sia, il film saprà coinvolgere «immaginazione e nervi» di spettatori e spettatrici quando riuscirà a restituire la mobilità incessante delle cose. Una mobilità che è continua metamorfosi di forme, di visioni ma anche di soggetti le cui psicologie sono dispiegate nel gioco ritmico-visivo del processo cinégraphique.
Tra i tanti procedimenti filmici utilizzati dalla regista nei suoi film, le sovrimpressioni e le dissolvenze incrociate giocano un ruolo fondamentale perché hanno nel loro stesso principio di composizione un meccanismo trasformativo che mette in movimento l’immagine e l’immaginazione, l’intelletto e le sensazioni, in un viaggio narrativo e sperimentale in cui protagoniste di un cinéma pur sono la psicologia dei personaggi, con le sue zone grigie, e la loro identità, con l’indefinitezza propria di ogni essere umano.
2. Metamorfosi
Il tema della natura vischiosa e metamorfica dell’identità risuona più volte nelle pagine della première garde francese. Così ad esempio Jean Epstein:
L’individualité est un complexe mobile, que chacun, plus ou moins consciemment, doit se choisir et se construire, puis réaménager sans cesse, à partir d’une diversité d’aspects qui, eux-mêmes, sont fort loin d‘être simples ou permanents, et dans la masse desquels, quand ils sont trop nombreux, l’individu parvient difficilement à se désigner et à se conserver vers une forme nette. Alors, la supposée personnalité devient un être diffus, d’un polymorphisme qui tend vers l’amorphe et qui se dissout dans le courant de ses eaux-mères (Epstein 2014 [1947], p. 165).
E, a ben guardare, il cinema di Germaine Dulac potrebbe essere letto come un continuo ridefinire la rappresentazione dell’identità, e più ancora delle femminilità, in senso polimorfo.
Nei film dove la traccia del racconto rimane più tenace, come in La souriante madame Beudet (1923), la metamorfosi delle cose e dei pensieri è suscitata dal desiderio della donna. I sogni – e gli incubi – della protagonista slabbrano i contorni del reale e li deformano in modi allettanti o minacciosi: il letto disfatto e i cuscini sprimacciati sono segni di un anelito amoroso che resta forzato dentro le mura dell’immaginazione; il volto allegro del marito detestato si piega in una caricatura che trasforma il riso in un ghigno inquietante; e il tennista che si anima e da fotografia stampata sulle pagine di un quotidiano diviene angelo seducente e vendicatore rappresentano una tensione metamorfica del reale che fa eco e amplifica gli affetti di madame Beudet (Williams 2014).
Ancora, i film di Dulac accolgono spesso motivi orientalisti che disegnano un’identità femminile mobile e altra. La Fête espagnole (1919; ci riferiamo qui alla versione di 28’ restaurata dalla Cinémathèque française e mostrata durante l’edizione 2020 del festival Il cinema ritrovato di Bologna) si apre con un’immagine che accosta l’esotismo evocato dall’ambientazione spagnola del film ai tratti dell’orientalismo. Soledad/Ève Francis appare avvolta in un kimono, semidistesa su una chaise longue ricoperta da tessuti e cuscini dalle fantasie e dal taglio giapponese; accanto a lei, due piccoli gatti e un pappagallo in un’elegante gabbia di ferro battuto. L’iconografia della scena d’apertura accoglie i caratteri del discorso orientalista per come si era diffuso e consolidato tra gli anni Dieci e Venti del Novecento nell’arte, nella moda e nel design oltre che nel cinema e che finiva per avvicinare i tratti della ‘identità orientale’ ai modi della New Woman: la postura rilassata e noncurante e l’anelito verso un altrove dominato da una sensualità quasi animalesca finivano per richiamare l’insofferenza alle norme borghesi e la cura per il proprio desiderio tipiche delle donne nuove d’inizio secolo (Studlar 1995).
Il montaggio proposto dal restauro lega quest’immagine alle sequenze di danza. Un tempo ballerina, la protagonista torna a danzare un’ultima volta. Un’inquadratura sensuale mostra l’amica di un tempo toglierle l’abito da sera per aiutarla a indossare il costume di scena; poi le sue movenze sul palcoscenico, accentuate dalle frange dell’abito scuro e lucente, attraggono verso di lei gli sguardi appassionati di uomini e donne [fig. 1]. Così «nella danza, le qualità della New Woman che sovente si scontrano con le norme culturali della femminilità tradizionale finiscono per riflettersi nel movimento sensuale e ritualizzato e nello spettacolo delle identità orientalizzate associate con l’ambiguo potere femminile» (Studlar 1995, p. 491; traduzione nostra).
Dunque l’attrattività dell’esotismo come appare nel film di Dulac, che sia declinato nei modi moreschi oppure orientalisti, sta nel disegnare un’identità femminile inedita e dalla natura cangiante, pronta a emanciparsi dalle categorie sociali statiche codificate dalla tradizione patriarcale per l’appunto divenendo altra, rimodellando la propria identità in modi diversi e mai stabili.
Nei film che abbandonano i modi consueti del narrare i personaggi di donne divengono figure della natura metamorfica del desiderio. Le prime immagini di La Coquille et le clergyman (1927) invitano lo sguardo a osservare un laboratorio ricolmo di alambicchi. Un uomo in abito talare – il clergyman del titolo (Alex Allin) – versa un liquido opaco da una grande conchiglia all’interno delle provette; il liquido diviene cristallo per poi frantumarsi e dissolversi in un fumo denso. Subito, dunque, affiora l’idea della natura alchemica del reale, dove i passaggi di stato della materia sembrano avvenire con apparente semplicità. Le sequenze a seguire delineano un universo «non di sogno, ma di immagini, dove la mente non avrebbe mai acconsentito ad andare», come vuole la didascalia di apertura. I volti si deformano, s’incrinano e si spezzano; il collo della donna diviene un cristallo dalle pareti lucide che si riflettono su uno specchio d’acqua, per poi sciogliersi in macchie di luce; i contorni di edifici e strade della città sfumano nelle dissolvenze [fig. 2]. Infine, una sfera di cristallo va in frantumi; sui frammenti appare sovrimpresso il volto del clergyman, che raccoglie la sua immagine nella cavità della conchiglia e la beve, come fosse un liquido, in primi piani sempre più ravvicinati; ovvero – alla lettera – si appropria della sua immagine e insieme, ingerendola, la dissolve [fig. 3]. Senz’altro il film lascia affiorare un processo fantasmatico segnato da un intrico di desideri ribelli che sgretolano la solidità solo apparente dell’io e mostrano le metamorfosi dell’identità che slitta di rappresentazione in rappresentazione così da mettere in scena non un racconto, ma i processi pulsionali della psiche, conducendo spettatori e spettatrici a identificarsi non con un personaggio ma con il muoversi e lo scivolare continuo l’una sull’altra delle pieghe dell’inconscio (Flitterman-Lewis 1996, pp. 112-137).
La figura femminile appare allora come un fantasma del carattere proteiforme del desiderio, giacché le immagini di Dulac – e la scrittura di Artaud − non identificano, essenzializzandola, la donna con la tensione amorosa ma ne esplorano le declinazioni cangianti e imprevedibili, osservandola come una e allo stesso tempo nel suo essere continuamente ridefinita da metamorfosi incessanti (Artaud 1978 [1927], pp. 68-69).
In lavori come Arabesques (1929) la metamorfosi si declina nei modi del cinema astratto. Il film accosta giochi di luce, riflessi acquorei, lo sbocciare dei fiori, mentre s’intravedono il volto e la calzatura elegante di una donna. Qui la fotogenia – ovvero la risposta al quesito ‘che cos’è il cinema’ (Pescatore 1992; Tognolotti 2005 e 2020) – è una questione di superfici che si sovrappongono le une alle altre confondendosi e ibridandosi, e dunque perdendo le loro caratteristiche per fondersi in un movimento incessante:
Impressions à donner, reflets d’eau et d’objets cristallins en mouvement jouant sous la lumière du soleil en mouvement […]. Chaque mouvement suit le rythme de l’arabesque et peut être assimilé à la figure d’un ballet, mais où aucun artiste n’a de part, la lumière, l’eau et les surfaces réfléchissants des formes, jouant seules (Dulac in Williams 2001, p. 80).
La metamorfosi si piega dunque alla ricerca dell’essenza dell’immagine filmica, punto focale dei pensieri sul cinema degli anni Venti, che Dulac declina nei modi dell’analogia con la musica, in specie Claude Debussy, giacché entrambe le forme d’arte mirano alla ricerca del segreto delle cose attraverso un medium che non le imita ma riesce a cogliere le «corrispondenze formali tra il vocabolario musicale [e cinematografico] e la prosa del mondo» (Thouvenel 2010, p. 216). Secondo Dulac quel segreto sta nelle emozioni che sgorgano dallo schermo e si riversano sulla platea:
Un film, un vrai film, ne doit pas pouvoir se raconter puisqu’il doit puiser son principe actif et émotif dans le sens des images faites d’uniques vibrations visuelles. Raconte-t-on une symphonie ? Raconte-t-on un tableau ? Raconte-t-on une sculpture ? Certes pas. On ne peut évoquer que l’impression et l’émotion qu’elles dégagent (Dulac 1994 [1927], p. 97).
Dunque la fotogenia è davvero una questione di superfici e metamorfosi: la pelle dei corpi delle donne, i contorni lucidi degli oggetti, la consistenza scivolosa dell’acqua si imprimono sulla pellicola, si ibridano tra loro e con essa, per poi riverberare sullo schermo così da accogliere e rimandare gli affetti che le animano. La superficie si fa dunque luogo «di mediazione e proiezione», per dirla con Giuliana Bruno (2016 [2014], p. 10), sorta di specchio fotogenico che accoglie, mescola e riflette, dotandole di una forza più grande, le nuances de l’âme (Dulac 1994 [1923], p. 27); e, per parte sua, «l’affetto si mostra anche come un medium poroso e malleabile di comunicazione materiale superficiale» (Bruno 2016 [2014], p. 27).
3. Sovrimpressioni
Metamorfosi, fluttuazioni del desiderio e dell’identità si traducono dunque in effetti visivi che confermano la natura sperimentale del cinema di Dulac. La sovrimpressione è forse la soluzione formale più frequente nel suo cinema, insieme ai giochi di luce già evidenziati, a quegli effetti di rifrazioni luminose che esprimono stati d’animo cangianti, movimenti del desiderio non confessabili in un orizzonte borghese in cui alla agency delle donne è lasciato pochissimo spazio di manovra.
Nella conferenza del 1924 su Les procédés espressifs du cinématographe, poi pubblicata in ‘Cinémagazine’, Dulac mette decisamente in chiaro ciò che per lei è la cinégraphie e quanto sia diversa da altre arti come la letteratura e il teatro. Tra i procedimenti descritti per spiegare cos’è per lei il cinema c’è anche la sovrimpressione che serve, nel suo orizzonte creativo, a tradurre visivamente il pensiero e la vita interiore:
Que de drames magnifiques ce procédé tout psychologique, tout subjectif peut permette d’échafauder. Jugez quelle hauteur de pensée serait atteinte si un être de chair pouvait entrer en lutte avec son âme, dans un combat visuel. Les fantômes moraux : craintes, remords, souvenirs, espoirs, prenant forme et s’entrechoquant dans un combat ardent. Féerie, enfer… fantasmagorie dans le réel… ce que nous sommes au-delà de nous !... Quel domaine !... et quel domaine purement cinématographique, grâce aux surimpressions (Dulac 1994 [1924], pp. 37-38).
Dulac cita, tra gli altri, l’esempio di una sequenza di La souriante Madame Beudet in cui la moglie, leggendo una rivista, immagina prima una fuga in automobile e, poi, come si è ricordato poco sopra, che un aitante campione di tennis venga a portare via il grossolano e dispotico marito.
Quando parla della sovrimpressione Dulac non ha ancora realizzato, sebbene avesse già previsto di farlo (Dulac 1994 [1923], p. 27), L’Invitation au voyage, dichiaratamente ispirato alla poesia di Charles Baudelaire raccolta in Les Fleurs du mal – libro che, va ricordato, tiene tra le mani anche Madame Beudet quando legge il sonetto La Mort des amants. La fonte è dichiarata, oltre che dall’omonimia, dalla citazione in esergo di alcuni versi:
Mon enfant, ma sœur,
Songe à la douceur
D’aller là-bas vivre ensemble!
Des meubles luisants,
Polis par les ans,
Décoreraient notre chambre
L’Invitation au voyage, Charles Baudelaire.
La vicenda censoria per offesa al pudore che aveva segnato la pubblicazione delle liriche baudelairiane, insieme alla particolare concezione della donna che emerge nella raccolta, rendono significativa questa presenza nei due film di Dulac. Del resto, il riferimento al poeta della Parigi moderna, della passante e della femme maladive, dello Spleen e dell’Idéal, e soprattutto di una rêverie conseguenza della noia borghese (Gargano 1994, pp. 129-130) non sorprende conoscendo il cinema di Dulac: il sonetto di Baudelaire raccoglie in sé infatti temi e figure a cui la cinégraphiste è molto sensibile. Un cinema «art de sensations», che concepisca una storia «non sur des données dramatique, mais sur des données émotives […] un art plus intérieur qu’extérieur!» (Dulac 1994 [1923], p. 30), trova nella poesia baudelairiana una dimensione ritmica ed evocativa che produce a sua volta sensazioni e immagini, nel quadro di una poesia che è a sua volta arte del movimento. Un movimento del pensiero che trasfigura la realtà, la trasla al suo al di là, per citare nuovamente l’orizzonte teorico proprio anche di Epstein (Tognolotti e Vichi 2020).
Dopo il cartello con i versi di Baudelaire, il film si apre inquadrando l’ingresso del locale notturno, luogo principale dell’azione, che viene reso con una scenografia palesemente artificiale su cui campeggia l’insegna al neon, L’Invitation au voyage. Il viaggio rimanda a quel là-bas in cui la donna del sonetto è invitata ad andare a vivere: un luogo indeterminato ma chiaramente esotico, spesso sfondo della poesia moderna e che si ritrova, come si è visto, in tanto cinema degli anni Venti. L’ingresso del bar, con la sua porta circolare, diventa rapidamente un luogo-soglia, il cui interno viene spiato dai passanti e sul quale esita la signora che entra in scena poco dopo, scendendo da un taxi. Il lento ingresso di lei, sottolineato da una dissolvenza incrociata, altro procedimento che per Dulac traduce i risvolti psicologici dei personaggi, assume la funzione di una soglia emotiva ma anche sociale: una signora sposata della buona borghesia sta ‘passando attraverso’, sta trasgredendo le regole del vivere ‘perbene’, come chiarirà poco dopo l’inserto in cui, con un un flashback soggettivo, assistiamo allo stesso episodio di abbandono da parte del marito e di attesa che si ripete nella monotona vita familiare della donna. Tutto ciò che il concetto di fotogenia racchiude in sé sprigiona dal modo in cui la porta scorrevole, di metallo e vetro, rifrange una luce abbagliante. Un luccichio che nella sua intermittenza ricorda un faro – viaggiamo verso lidi lontani – ma anche un proiettore cinematografico: il locale notturno si trasforma così nella scatola scenica in cui sarà possibile realizzare visivamente le sensazioni e le emozioni di una Madame che si concede l’azzardo mondano di avventurarsi nella notte parigina.
Tutto il corpo centrale del film segue il filo della rêverie, di quel sognare ad occhi aperti che restituisce il movimento dell’immaginazione e del desiderio, a cui si abbandonano insieme la donna e l’ufficiale di marina che la corteggerà [fig. 4]. Alla fine del flashback memoriale sulla vita domestica, Dulac anticipa una figura importante della rêverie come la donna alla finestra: la donna si avvicina alla finestra e osserva la città, decidendo di immergersi nella notte metropolitana. Jean Starobinski (1989) fa riferimento a La ragazza alla finestra di Dalì per rintracciare in questa posa femminile un moto malinconico che innesca la fantasticheria. La moglie raccontata da Dulac non desidera solo immaginarsi altrove ma, cosa importante, entra in azione, raggiungendo la vita notturna parigina.
Da questo momento in poi, il film descrive costantemente il moto dell’immaginazione che anticipa l’azione (accettare l’invito alla danza prima di farlo [fig. 5]). Il dialogo muto del desiderio si esprime attraverso la musique du silence (Dulac 1994 [1928], pp. 106-108) che nasce dall’uso delle sovrimpressioni, unite alle dissolvenze incrociate e all’uso di primissimi piani e dettagli (si pensi al gioco delle mani nel momento in cui l’ufficiale scopre la fede nuziale). Lo scambio di sguardi sempre più desideranti si fa più intenso nella stasi dei corpi, quando la coppia si ritrova al tavolo. La melodia evocata dalle inquadrature di un violinista e del suo strumento suscita emozioni e accompagna i percorsi del desiderio: i primissimi piani di entrambi si alternano e su di essi compaiono un paesaggio marino agognato e pieno di promesse, velieri che li portano lontano, i corpi serrati che guardano verso l’orizzonte [fig. 6]. Ma il desiderio è frustrato dalle regole del vivere borghese sia nella donna [fig. 7] che nell’uomo (la donna ha anche un bambino).
La modernità di Dulac, la sua spinta a sperimentare il mezzo, è amplificata dall’idea che la sostiene di raccontare un mondo in cambiamento, nel quale dare spazio alla fluidità del desiderio significa combattere contro la rigidità degli schemi sociali sia per le donne sia per gli uomini. Si lotta soccombendo, ma L’Invitation au voyage racconta un mondo in cui la questione di genere tocca entrambi i protagonisti, entrambi vittime. Se in La Coquille et le clergyman, uscito nello stesso anno, attraverso la rappresentazione vorticosa delle pulsioni psichiche, gli spettatori e le spettatrici vengono invitati a scivolare tra le pieghe dell’inconscio, in questo caso sono chiamati a prendere coscienza di un reale e di una doppia morale che imbriglia il desiderio e ricaccia nella malinconia i suoi protagonisti. Dai versi di Baudelaire, il pittore della vita moderna, scaturisce la fiction sociale di Dulac, che firma da autrice e pensatrice il suo lavoro [fig. 8].
*Questo saggio è stato concepito congiuntamente dalle due autrici, ma per la stesura materiale del testo Chiara Tognolotti ha scritto il paragrafo 2. Metamorfosi e Anna Masecchia ha scritto il paragrafo 3. Sovrimpressioni.
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