1.2. «Poetry is an approach to experience»: sull’influenza contemporanea del cinema di Maya Deren tra film sperimentale e poesia

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Maya Deren (1917-1961) è stata una delle figure più importanti del cinema d’avanguardia a livello mondiale e per questo oggetto di numerosi studi e approfondimenti (Trivelli 2003). All’attività di cineasta ha affiancato durante l’intera produzione artistica – concentrata soprattutto tra la metà degli anni Quaranta e la fine degli anni Cinquanta – anche un’intensa riflessione teorica, disseminata in numerosi scritti (McPherson 2005), tra i quali spicca soprattutto An Anagram of Ideas on Art, Form and Film (1946). Uscito all’epoca come chapbook, è un saggio decisamente complesso, tanto nei contenuti quanto nella costruzione formale, per via di uno schema a griglia in cui i capitoli possono essere letti seguendo ordini diversi, secondo un procedimento combinatorio simile a quello delle lettere in un anagramma [fig. 1]. In questo saggio Deren mette a fuoco alcuni punti fondamentali della sua idea di cinema: la necessità di allontanarsi da un fine ‘naturalistico’ o ‘realistico’ di rappresentazione della realtà, così come dalle trasfigurazioni simboliche proprie del romanticismo ma anche del surrealismo – dal quale lei prende decisamente le distanze, così come rifiuterà tutte le interpretazioni psicanalitiche attribuite a Meshes of the Afternoon (Mekas 1999, p. 131) – per proporre una concezione di film che assume un significato a partire, innanzitutto, dalla sua composizione formale e dalla sua capacità di creare una realtà differente, alternativa, a quella presente:

The effort of the artist is towards the creation of a logic in which two and two make five, or, preferably, fifteen. […] This five, or this fifteen – the resultant idea or emotion – is therefore a function of the total relationship, the form of the work (which is independent of the form of reality by which it may have been inspired). It is this which Flaubert had reference to in stating that «L’idee [sic] n’existe qu’en vertu de sa forme» (Deren 1946, p. 24; sottolineatura nel testo originale).

Deren si sofferma in più punti sull’importanza di un termine, vera e propria chiave di lettura per la sua produzione cinematografica: ritual/ritualistic. Nel suo disporsi agli antipodi di uno sviluppo lineare della trama, il rituale diventa per Deren il principio formale che le consente di liberare il cinema dalle costrizioni realistiche dei documentari del secondo dopoguerra, così come da quelle drammaturgiche di Hollywood:

The ritualistic form is not the expression of the individual nature of the artist […]. It creates fear, for example, by creating an imaginative, often mythological experience which, by containing its own logic within itself, has no reference to any specific time or place, and is forever valid for all time and place. […] the ritualistic form treats the human being not as a source of the dramatic action, but as somewhat depersonalized element in a dramatic whole (Deren 1946, p. 20).

Alla forma del rituale, che Deren approfondirà ulteriormente sperimentando sulla propria pelle quelli legati alla cultura voodoo haitiana, la cineasta affianca anche la poesia quale metodo alternativo di approccio alla rappresentazione, tanto che una delle categorie entro cui sono state classificate le sue pellicole è quella di film poem. All’interno di un incontro dal titolo Poetry and Film: A Symposium, tenutosi presso il Cinema 16 – il famoso cineclub fondato da Amos Vogel nel 1947 – a New York il 28 ottobre 1953, Deren, unica donna relatrice, propone una definizione transmediale di poetic structure, fondata su una composizione ‘verticale’ a partire da un sentimento, un’emozione o un concetto metafisico, e capace di attagliarsi a varie forme espressive, dal cinema alla letteratura alla danza:

Poetry, to my mind, is an approach to experience […] The distinction of poetry is its construction (what I mean by ‘a poetic structure’), and the poetic construct arises from the fact, if you will, that it is a ‘vertical’ investigation of a situation, in that it probes the ramifications of the moment, and is concerned with its qualities and its depth, so that you have poetry concerned in a sense not with what is occurring, but with what it feels like or what it means. A poem, to my mind, creates visible or auditory forms for something which is invisible, which is the feeling, or the emotion, or the metaphysical content of the movement. […] Now the short films, to my mind (and they are short because it is difficult to maintain such intensity for a long period of time), are comparable to lyric poems, and they are completely a ‘vertical’, or what I would call a poetic construct, and they are complete as such. […] In a ‘vertical’ development, it is a logic of a central emotion or idea which attracts to itself even disparate images which contain that central core which they have in common (Intervento di Deren in Maas 1963).

Non è difficile, ovviamente, rinvenire nei film della cineasta un’esemplificazione ‘pratica’ delle sue parole. Se in Meshes of the Afternoon (1943) cominciano già a essere messi in crisi i concetti di trama e personaggio, attraverso una ricorsività temporale che pone al centro della scena l’esperienza stessa della visione (il coltello che appare e scompare, lo specchio) e del movimento (che trova la massima sintesi nella scena ‘mobile’ delle scale [fig. 2]), in At Land (1944) è la continua metamorfosi della realtà alternativa creata dal montaggio di scene apparentemente irrelate a intensificare la gestualità di Deren, colta spesso attraverso uno slow motion che mette in risalto la plasticità della carne. In A Study in Choreography for Camera (1945), Meditation on Violence (1945-1946) e The Very Eye of the Night (1958) la danza e l’arte marziale diventano gli strumenti per ricercare, all’interno del rapporto tra corpo e spazio, un nuovo modo di esperire una realtà che non ha nulla di verisimile, e nella quale si mescolano echi dal sapore mitico (le statue religiose, i disegni dal sapore alchemico) con un’alternanza tra luoghi chiusi e aperti, sino alla dissoluzione stessa dello spazio nel cosmo notturno in cui l’esistenza può essere solo al negativo [fig. 3]. Ritual in Transfigured Time (1946) è considerato dalla critica come il film più compiuto di Deren rispetto alla sua stessa poetica: la ritualità dei gesti legati al dipanare fili e gomitoli, i rituali delle convenzioni sociali (le feste ma anche lo status di vedova/sposa) danno luogo a una danza in cui la dimensione mitica (ancora riferimenti visivi alla statuaria greca) non devono essere letti in chiave citazionistica, ma servono piuttosto a trasfigurare il movimento e l’emozione ad esso connessa, secondo un principio di corrispondenze formali (tra il bianco e il nero, tra il movimento e il freeze-frame) interne all’opera [fig. 4].

 

Proprio per l’altissimo livello di sperimentazione che i suoi film hanno portato all’interno della cultura cinematografica internazionale, l’opera di Deren è divenuta fonte di ispirazione per intere generazioni di cineasti e di artisti in senso lato, che non di rado sono ricorsi a strategie e metodi formali in cui possiamo leggere, in filigrana, proprio la lezione teorica di Deren: l’utilizzo di procedimenti ‘ritualistici’, caratterizzati da un senso di ripetitività e ricorsività, che mirano a porre in luce ciò che rischia di rimanere ‘invisibile’ all’interno dell’esperienza, all’insegna di un vertical development. È il caso, questo, di tre opere che si sono misurate da vicino con i film di Deren secondo approcci decisamente differenti, e che tuttavia ci sembrano approssimarsi in modo spigoloso, eppure sintomatico, alla definizione di film poem o di poem film.

Il primo caso è costituito da un corto sperimentale di Rebecca Baron e Douglas Goodwin intitolato Lossless#2 (2008). Questo lavoro, della durata di 3 minuti, è il risultato di una serie di manipolazioni digitali di Meshes of the Afternoon. Non si tratta, solamente, del taglio di intere scene e sequenze (la durata di Meshes of the Afternoon è di 14 minuti), ma della trasfigurazione stessa delle immagini ‘originali’ attraverso procedimenti di compressione, di file sharing, di rimozione digitale [fig. 5]. Il risultato è costituito da vere e proprie deformazioni in cui la grana digitale dei pixel produce scie, sovrimpressioni, interferenze (Censi 2015, pp. 214-216) che trasformano in modo radicale il film di partenza, mettendo a nudo – secondo una lettura decisamente ironica del titolo stesso, lossless (senza perdita) – non solo la trasparenza dello stesso supporto tecnico (la pellicola, il digitale), ma anche una sorta di corto-circuito temporale che svela la struttura stessa dell’immagine, la sua profondità (Censi 2014, pp. 60-61). Questa profondità, tuttavia, può essere letta non solamente nei termini di un ‘inconscio ottico’ che pertenga al livello metariflessivo della costruzione dell’immagine in movimento. Si tratta della creazione, anche, di una modalità di rappresentazione di una realtà doppiamente alternativa, rappresentazione che può essere interpretata anche alla luce di quella «vertical composition» fondata sull’intensificazione: la selezione di alcuni dettagli, la sovrapposizione dei fotogrammi, la sparizione di porzione d’immagine accentuano l’attenzione dello sguardo proprio sul movimento – elemento indispensabile per Deren – sulla relazione tra il corpo e non solo lo spazio rappresentato, ma anche su quello materico dello schermo. Si tratta di una nuova e originalissima danza tra i corpi e i pixel, tra la presenza e l’assenza, prodotta, in fin dei conti, da un rituale – una serie di azioni codificate che mirano, digitalmente, alla decostruzione e ricostruzione del file video – che rende visibile l’invisibile. Non è forse quello che Deren descriveva a proposito della poetic structure?

Su un piano decisamente differente, ma ugualmente sperimentale, si pone il film di Barbara Hammer Maya Deren’s Sink (2011). Già nella propria filmografia precedente Hammer aveva evidenziato un debito nei confronti di Deren, considerata come un modello di sperimentazione a partire dal quale misurarsi costantemente (Hammer 2001). Il film del 2011 dialoga con il genere documentario, ma in modo decisamente sperimentale rispetto ad approcci biografici più classici, entro cui può essere inscritto, ad esempio, In the Mirror of Maya Deren di Martina Kudláček (2001). Il film di Hammer prende avvio a partire dall’oggetto evocato nel titolo, ovvero il lavandino appartenuto a Maya Deren, sul quale viene a più riprese proiettata l’immagine fotografica o cinematografica della cineasta, reduplicata nel corpo e nella voce da un’attrice che ne rimette in scena sia alcune perfomance, sia alcune riflessioni teoriche. La continua transizione, ottenuta anche tramite opportune sfocature delle immagini e deformazioni sonore, tra il re-enactment della figura di Deren e le interviste a chi l’ha conosciuta o a chi ora abita la casa nella quale fu girato Meshes of the Afternoon, viene ulteriormente sollecitata dall’apparizione dei numerosi ‘testimoni’ non secondo la consueta messa in scena dell’intervista, ma mediante l’apparizione di questi ultimi all’interno di cornici ricavate dalle superfici riflettenti di complementi d’arredo [fig. 6]. L’accentuazione di una dimensione fantasmatica trova il punto di massima intensificazione proprio nell’oggetto-feticcio del lavandino, solido eppure fluido allo stesso tempo, capace di sintetizzare, secondo il principio della «vertical composition», la complessità di emozioni che l’immagine di Deren suscita in chi la ricorda, ma anche in chi guarda i suoi film.

 

Concludiamo attraversando il confine della pellicola per giungere a una parola letteraria fortemente visuale, passando dal film-poem al poem-film della raccolta poetica Nostalgia de la acción (2018) di Ana Gorría, con disegni di Marta Azparren. Nella nota conclusiva al volume, l’autrice dichiara esplicitamente che i propri componimenti costituiscono una forma di interpretazione verbale di cinque film chiave di Deren (Meshes of the Afternoon, At Land, A Study in Choreography for Camera, Ritual in Transfigured Time, Meditation on Violence, The Very Eye of the Night), attraverso anche lo studio e la lettura delle opere teoriche della cineasta americana. Si tratta quindi di un vero e proprio corpo a corpo tra la parola e l’immagine, dove il recupero fondamentale della corporeità è accentuato dalla presenza dei disegni di Marta Azparren, che appaiono come frame congelati eppure vitali delle pellicole cui i testi si riferiscono indirettamente. Se da un lato la componente visuale del volume – le figure emergono attraverso rapidi tratti in nero, accompagnati talvolta da decorazioni fatte di singole lettere battute a macchina – intensificano e cristallizzano alcuni fotogrammi fondamentali dei singoli film, è soprattutto il modo in cui la parola poetica può essere letta alla luce delle definizioni di ‘rituale’ e di ‘composizione verticale’ a sorprendere chi legge. Benché privi di titoli, è facile rinvenire una struttura ‘ritualistica’ che accomuna per gruppi i singoli componimenti, raccolti in sezioni invisibili – ciascuna dedicata a un film nello specifico – riconoscibili dalla transizione attraverso una coppia finale di terzine isolate, che occupano singolarmente due pagine speculari, a sancire la chiusura del ciclo di un film e a preparare chi legge per quello successivo. I singoli testi giocano, visivamente, su una disposizione verticale di parole spesso isolate le une dalle altre, smembrate nei loro collegamenti semantici da un’assenza di punteggiatura e dall’uso incessante dell’enjambement, ma proprio per questo riconfigurate in un flusso costantemente metamorfico così prossimo alla tecnica di montaggio messa in campo da Deren [fig. 7]. Le aree semantiche predilette sono proprio quelle del movimento e del tempo, e la ripetizione assertiva o contrastiva dei medesimi sintagmi rallenta la temporalità dell’immagine poetica esaltandone la componente ritmica, proprio come il freeze-frame, per Deren, serve a sottolineare la plasticità del movimento. Chi dice ‘io’ è insondabile e si confonde costantemente con i personaggi via via evocati dalle pellicole. Come Deren, che si guarda moltiplicata eppure estranea a sé stessa, anche l’io poetico, e con esso noi che leggiamo, siamo costretti a guardare al nostro modo di esperire la realtà con un nuovo, disarmante, straniamento.

 

Bibliografia

R. Censi, Copie originali. Iperrealismi tra pittura e cinema, Monza, Johan & Levi, 2014.

R. Censi, ‘Oggetti tecnici e processi parassitari’, in A. Bonito Oliva (a cura di), Enciclopedia delle arti contemporanee. Il tempo inclinato. Vol. III, Milano, Electa, 2015, pp. 194-221.

M. Deren, An Anagram of Ideas on Art, Form and Film, New York, The Alicat Book Shop Press, 1946.

A. Gorría, Nostalgia de la acción, illustrato da M. Azparren, Oviedo, Saltadera, 2016.

B. Hammer, ‘Maya Deren and Me’, in B. Nichols (ed.), Berkley-Los Angeles-London, University of California Press, 2001, pp. 261-265.

W. Maas (ed.), ‘Poetry and the Film: A Symposium’, Film Culture, 29, 1963, pp. 55-63 disponibile online all’indirizzo www.ubu.com/papers/poetry_film_symposium.html [ultimo accesso: 01/06/2020].

B. R. McPherson (ed.), Essential Deren. Collected Writings on Film by Maya Deren, USA, Documentext, 2005.

S. Rice (ed.), Inverted Odyssey. Claude Cahun, Maya Deren, Cindy Sherman, Cambridge MA, The MIT Press, 1999.

B. Nichols (ed.), Maya Deren and the American Avant-Garde, Berkley-Los Angeles-London, University of California Press, 2001.

A. Trivelli, Sulle tracce di Maya Deren. Il cinema come progetto e avventura, Torino, Lindau, 2003.

A. Vogel, Film as a Subversive Art, New York, Random House, 1974.

Filmografia

R. Baron e D. Goodwin, Lossless#2, 2008

M. Deren e A. Hammid, Meshes of the Afternoon, 1943 (musiche di Teiji Ito aggiunte nel 1959)

M. Deren, At Land, 1944

M. Deren, A Study in Choreography for Camera, 1945

M. Deren, Ritual in Transfigured Time, 1945-1946

M. Deren, Meditation on Violence, 1948

M. Deren, The Very Eye of the Night, 1959 (realizzato tra il 1952 e il 1955)

B. Hammer, Maya Deren’s Sink, 2011

M. Kudláček, In the Mirror of Maya Deren, 2001