1.3. Corpi materni: Anna Magnani tra divismo e maternità

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Per Federico Fellini, la figura della madre è l’archetipo femminile fondamentale della cultura italiana: «c’è una vera idolatria di madre; mamme, mammone, grandi madri di tutti i tipi dominano, in un’affascinante iconografia, i nostri firmamenti privati e pubblici; madre vergine, madre martire, mamma Roma, madre Lupa, madre patria, madre Chiesa» (Fellini 1974, p. 83). Le stesse donne protagoniste dei film del regista riminese sono spesso fantasie del materno, opulente, abbondanti, erotiche ma rassicuranti, simboleggiate dai grandi seni della tabaccaia in cui affonda e quasi scompare il ragazzino Titta in Amarcord, o dal corpo morbido e accogliente di Carla, l’amante-madre di 8 1/2 interpretata da Sandra Milo.

Negli anni Cinquanta, l’intreccio tra divismo e immagine materna emerge in ruoli chiave che producono letture identitarie e metaforiche, in particolare quelle rappresentate da Anna Magnani, come Pina in Roma città aperta (Rossellini, 1945), madre della Resistenza uccisa dai tedeschi e prefiguratrice della rinascita italiana dopo la guerra; la madre volitiva di Bellissima (Visconti, 1952); quella tragica di Mamma Roma (Pasolini, 1962).

Percorrendo la strada delle varie iconografie materne richiamate dalla prosa di Fellini, il mio intervento vuole analizzare il rapporto tra stardom e maternità nel cinema del dopoguerra attraverso l’esempio di Anna Magnani, il cui corpo costituisce un’immagine divistica segnata dall’ibridazione, per usare il termine di Morin, tra i suoi personaggi on screen e la sua maternità off screen, illustrata e raccontata dalla stampa popolare (Morin 1995).

 

1. Pina (Roma città aperta, Rossellini 1945)

Una donna bruna, occhi profondi e gesti netti, cammina per Roma. Ha l’andatura lenta e un po’ dondolante tipica delle donne gravide, si tiene spesso una mano sul ventre. È stanca e provata, ma piena di odio per i tedeschi occupanti. Poi la corsa fatale dietro il carro tedesco, l’urlo ormai celebre, «Francesco, Francesco!», gli spari e la caduta, il figlio che si getta sul corpo esamine della madre, in una Pietà rovesciata: il critico cinematografico Enrico Giacovelli scrive che se si volesse riassumere in un’immagine il Novecento italiano, quell’immagine sarebbe il corpo della Magnani disteso sull’asfalto (Giacovelli 2013) [fig. 1]. Anna Magnani, finora prevalentemente attrice di teatro e rivista, diventa interprete drammatica, icona del neorealismo, simbolo della rinascita del cinema italiano nel primo di una serie di personaggi materni che stabiliscono una correlazione esplicita tra figura e ambiente, identità femminile e identità della nazione, divismo e rappresentazione del materno. Il dopoguerra italiano è ossessionato, secondo la lettura di Giuliana Grignaffini (La scena madre, 2006), dall’idea di rinascita, che si incarna nella messa in scena della maternità rielaborata sia ʻdal bassoʼ, nel melodramma popolare matarazziano, sia ʻdall’altoʼ, nelle madri neorealiste di Rossellini, Visconti e Pasolini. Ed è Anna Magnani, «la più grande e popolare diva del cinema italiano» (Grignaffini 2006, p. 238) a donare corpo, viso e voce a figure materne complesse, radicate nella specificità della storia italiana del dopoguerra.

 

2. Maddalena Cecconi (Bellissima, Visconti 1952)

In un recente volume sulla costruzione del mito della madre italica, la storica Marina D’Amelia afferma che il mammismo, almeno come termine, nasce nel 1952 (La mamma, 2005). Nello stesso anno esce al cinema Bellissima, il film di Visconti intrepretato da Anna Magnani nella parte di una madre volitiva e «concentrato di energia vitale» (Grignaffini 2006, p. 268), pronta a tutto pur di rendere famosa la sua bambina. Ideale continuazione di Pina, madre popolana e resistente, la proletaria Maddalena Cecconi in Bellissima appare in campo lungo, ripresa dall’alto mentre urla, sbraita, si dispera e poi corre a cercare la sua ‘regazzina’ che si è persa tra i capannoni di Cinecittà. Se Pina era la madre della nazione che nel grembo portava la speranza della rinascita e della nuova vita, Maddalena è la voglia e il desiderio di riscatto in un corpo appesantito, ma ancora sessualmente attraente. Strizzate in abiti troppo stretti che faticano a contenerle, le curve di Maddalena sembrano voler eccedere i limiti imposti dal loro essere corpo materno per uscire dallo spazio angusto della casa popolare e della classe sociale e espandersi su uno schermo sognato e mai avuto [fig. 2].

Maddalena riversa sulla figlia, sua carne e creazione, l’eccesso di vitalità performativa che la anima e che deve forzatamente contenere. Nella sequenza che precede l’incontro con il fotografo, Maddalena si spoglia, in fretta perché è tardi, canticchiando. La vediamo in sottoveste, di schiena, mentre apre una finestra per fare luce e urla al ragazzino fuori di non sbirciare. Ma quell’attenzione le piace, lo vediamo da come si muove, da come impone la visione del suo corpo in sottoveste al centro del riquadro della finestra, come se fosse un palco, o meglio uno schermo. Tutto il film è percorso dalla tensione tra autenticità e performance, o come afferma Casetti, riproduce un mondo marcato da un «nonstop acting», dove la vita quotidiana diventa essa stessa spettacolo (Casetti 1992, p. 384).

Catherine O’Rawe ricorda come la costruzione anti-divistica della Magnani autentica e popolana sia avvenuta grazie al successo di Roma città aperta e la conseguente identificazione dell’attrice con il neorealismo, che però si innesta su un’immagine divistica costruita invece sulle performance «theatrical and melodramatic» dei film degli anni Quaranta, dove la Magnani spesso interpretava ruoli di attrice e performer (O’Rawe 2012, p. 192). La diva Magnani è dunque «il più puro concentrato di quella sinergia tra istanze del neorealismo e istanze del divismo» (Grignaffini 2006, p. 280), che secondo Grignaffini rielaborano la dialettica tra essere e apparire soprattutto nell’evoluzione dei suoi personaggi materni.

Il corpo della Magnani in Bellissima è un corpo materno performativo, che mette in scena il desiderio proibito di essere ancora donna, oltre che madre, e lo sublima tramite la figlia, immagine di giovinezza e speranze intatte. Nel momento della fine dell’illusione, della rivelazione crudele dietro al sogno dello schermo, non è più il corpo di Anna Magnani a catalizzare gli sguardi, ma il viso, attraverso l’uso del primo piano, definito «rivoluzionario» da Cristina Jandelli per il suo mettere al centro del cinema il volto dell’attore e dunque l’incipit della sua costruzione divistica, la fusione tra personaggio e personalità (Jandelli 2016, p. 18) [fig. 3].

 

3. Mamma Ro’ (Mamma Roma, Pasolini, 1962)

Il passaggio dalla centralità del corpo a quella del volto si fa esplicito in Mamma Roma, in cui Anna Magnani interpreta una prostituta in cerca di redenzione e rispettabilità sociale per sé e soprattutto per il figlio. La sequenza iniziale del film apre con Mamma Roma che – gridando e ridendo – fa entrare dei porci al banchetto nuziale del suo ex protettore e in seguito intona contro di lui stornelli d’invettiva. Il corpo della Magnani-Mamma Roma è il corpo della popolana, dell’attrice del varietà, della canzonettista, in cui confluiscono sia i personaggi delle madri resistenti e vitali del periodo neorealista, sia i precedenti ruoli da cantante e performer dei suoi film degli anni Quaranta [fig. 4]. Nella sequenza finale, invece, è il volto ormai iconico della Magnani, occhi spalancati su occhiaie nere, capelli scarmigliati da Medusa, a rendere il dolore, la perdita, la fine dell’illusione e della maternità [fig. 5].

 

Conclusioni

Anna Magnani rappresenta al cinema una maternità primitiva, viscerale, fatta di ventre, dolore, passione, sacrificio e lotta. Un corpo materno che si fa tutt’uno con il paesaggio di un’Italia in transizione, da ricostruire sulle macerie: il corpo di Pina distesa sull’asfalto, il corpo di Maddalena ripreso in campo lungo e accerchiato dagli stabilimenti di Cinecittà, il corpo che diventa solo volto in Mamma Roma. Madrepatria, mamma martire, mamma Roma, le performance della Magnani comprendono ed espandono le categorie felliniane, attraverso una recitazione corporea, fatta di mani sul ventre, scatti d’ira a stento contenuti da un corpo fecondo, gravido di vita e di passione e da primi piani che, come nel caso di Mamma Roma, riecheggiano la Mater dolorosa di cattolica memoria. La costruzione del suo divismo off screen, al contrario, appiattisce i complessi rimandi simbolici dei personaggi materni della Magnani e si concentra sulla maternità reale come suo centro esistenziale. ʻNannarella e il figlioʼ sono sempre richiamati sui rotocalchi per ogni notizia su premi, film e uscite pubbliche dell’attrice [fig. 6]: Anna Magnani vince l’Oscar e il rotocalco Così (n. 10, 1 aprile 1956) dichiara che «come l’attrice è stata premiata anche la madre»; nel suo obituario su Famiglia Cristiana (21 ottobre 1973), la giornalista Zambonini arriva ad affermare che bisogna capire la Magnani madre per capirne i suoi personaggi cinematografici. I rotocalchi appiattiscono la star persona della Magnani in una semplicistica identificazione attrice-madre, secondo un effetto che Mariapaola Pierini, riferendosi alle fotografie dell’attrice, chiama di bidimensionalità e normalizzazione (Pierini 2018). Anche una scrittrice in genere poco incline agli stereotipi e ai ritratti bidimensionali come Oriana Fallaci, nella sua intervista ad Anna Magnani del 1963, un anno dopo l’uscita di Mamma Roma, non può fare a meno di sottolineare la centralità della maternità nella vita dell’attrice: «Qualunque cosa dica, la Magnani finisce con il parlar di suo figlio; qualunque cosa faccia, finisce col ricordare suo figlio. Egli è il metro di misura della sua vita, la condizione della sua vita, lo scopo della sua vita» (Fallaci 2015, p. 274).

Ma è finalmente Fellini, che la vorrà per trenta secondi nel film Roma (1972), a riportare la Magnani al centro di un rapporto più complesso tra performance cinematografica, maternità e identità territoriale con la città di Roma, e per metonimia l’Italia, facendo del suo corpo il confine tra due poli inconciliabili della rappresentazione femminile, Lupa e vestale, vergine e donna sessualmente attiva: conflitto irriducibile che la rappresentazione del materno cerca, inconsciamente e inutilmente, di sanare.

 

 

Bibliografia

F. Casetti, ʻCinema in the cinema in Italian films of the fiftiesʼ, Screen, 33 4, inverno 1992.

M. D’Amelia, La mamma, Bologna, Il Mulino, 2005.

O. Fallaci, Gli antipatici, Milano, BUR, 2015.

F. Fellin, Fare un film, Torino, Einaudi, 1974.

E. Giacovelli, Anna Magnani, Roma, Gremese Editore, 2013.

G. Grignaffini, La scena madre. Scritti sul cinema, Bologna, Bononia University Press, 2006.

C. Jandelli, L’attore in primo piano, Venezia, Marsilio, 2016.

E. Morin, Le Star, trad. it. di T. Guiducci, Milano, Olivares, 1995.

C. O’Rawe, ʻAvanti a lui tremava tutta Roma: opera, melodrama and the Resistanceʼ, Modern Italy, 17:2,

185-196, 2012.

M. Pierini, Recitazione e rotocalchi, movimento e fissità. Anna Magnani: 1945-1948, <http://www.arabeschi.it/collection/vaghe-stelle-attrici-delnel-cinema-italiano/>.