1.3. Il diarismo cinematografico di Marie Menken: una originale sperimentazione formale e tematica

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Non esiste grande film

che non sia stato creato

con lo spirito del cineasta sperimentale.

Len Lye (1963)

 

Protagonista dello sperimentalismo cinematografico statunitense, Marie Menken (New York, 1909-1970) è stata un’influente antesignana della prima onda del New American Cinema, testimoniando con la sua Bolex H16 quella stagione immersa nella commistione di linguaggi espressivi e zampillante di energie creative.

Con il marito Willard Maas, poeta, docente e cineasta, fonda la cooperativa cinematografica Gryphon Group – attiva tra gli anni Quaranta e i Sessanta del Novecento – che anticipava la fondazione della Filmmakers Cooperative, varata nel 1961 a seguito della nascita, nel 1960, del New American Cinema Group [fig. 1].

‘Superstar’ del cinema di Andy Warhol – si pensi al film-manifesto warholiano The Chelsea Girls (1966) – Marie fu anzitutto pittrice astratta ed esperta grafica, nota inizialmente per i suoi quadri e non per i film. La sua prima personale si tenne nel novembre 1949 presso la Betty Parsons Gallery di New York, e precedette quella di Jackson Pollock, nella medesima galleria, nel 1951.

Questo background incise sul suo stile cinematografico, che assumeva come elementi centrali la superficie, la tessitura, il ritmo e la velocità dell’immagine, oltre ai movimenti della cinepresa e al montaggio. Già nella pratica pittorica la regista era incline a utilizzare materiali insoliti e in particolare riflettenti, come il vetro, i colori fosforescenti e le paillettes; dipingeva per lo più su tavole di masonite, e non sulla tela, mescolava la pittura con la sabbia o immergeva in spessi strati di vernice oggetti solidi e morbidi. La sua ricerca estetica, dichiaratamente riconducibile al desiderio di catturare nei quadri il movimento, fu poi investita nell’esperienza cinematografica e nella predilezione formale e tematica della luce.

 

1. Dalle prime prove ai cineritratti

Marie Menken esordì nel cinema nel 1943, curando la fotografia di Geography of the Body di Willard Maas. Stan Brakhage racconta che per realizzare i primi piani dei corpi nudi del film, nel quale appare anche lei, Marie aveva applicato alle lenti della cinepresa una comune lente d’ingrandimento.

Dal punto di vista tecnico un’importante esperienza professionale fu quella per la Signal Corps statunitense: dal 1941 al 1946 Menken fu addetta agli effetti speciali in film d’esercitazione e documentari di guerra. Una competenza che le valse la collaborazione alla realizzazione di due lavori di Maya Deren, At Land (1944) e The Very Eye of Night (1959).

A parte la scarsità di documentazione, una precisa datazione della sua filmografia (una ventina di cortometraggi girati in 16mm) è complicata dal fatto che la cineasta rilasciava raramente delle versioni definitive dei suoi film; il marito la incalzava per l’inserimento di titoli e colonne sonore. Le basi della sua pratica cinematografica vengono gettate con la realizzazione di Visual Variations on Noguchi (1945), sulla scenografia scultorea realizzata dall’artista nippo-americano Isamu Noguchi per il balletto di Merce Cunningham The Seasons con musica di John Cage, mentre la ricercata colonna sonora della pellicola è di Lucilla Dlugoszewski [fig. 2].

Negli stessi anni sperimenta diverse tecniche di animazione, incluso il collage e le riprese in stop-motion di cui fu autentica pioniera. Nonostante il talento che permea già i suoi primi film, per anni la cineasta li proiettò solo a casa, fin quando gli amici la convinsero a mostrarli in pubblico.

Al 1957 risalgono Glimpse of the Garden, Hurry! Hurry! e Zenscapes. Nel primo, girato nel giardino dell’amico artista, e suo mentore, Dwight Ripley, lo sguardo di Menken volteggia come a simulare il punto di vista di un uccello, e la asincrona colonna sonora si avvale unicamente del cinguettio di uccelli. Al film Jonas Mekas dedicò una sequenza del suo debutto cinediaristico Walden (1964-1969) [fig. 3].

Hurry! Hurry! mostra l’inesorabile ondulazione di una candela, da cui traspare in sovrimpressione una fibrillante schiera di spermatozoi, ripresa al microscopio, nell’impresa di fecondare un uovo, e destinata a soccombere sullo sfondo sonoro di un bombardamento aereo. Zenscapes è invece uno dei diversi film astratti della regista sulla luce.

Del 1959 è Dwightiana, girato sulla superficie di quadri (di Ripley e della stessa Menken): una briosa danza serpentina di pietre, matite, pennelli, conchiglie, realizzata con la tecnica della pixillation e abbinata a una suggestiva colonna sonora del compositore e musicista nippo-americano Teiji Ito. Questo omaggio all’arte pittorica dell’eclettico Ripley (già botanico, poeta e poligotta) è un esempio pionieristico di ritratto cinematografico (Brakhage 1989), animato da una sensibilità riscontrabile in altri film-portrait di Menken (Arabesque for Kenneth Anger,1958-1961; Bagatelle for Willard Maas, 1961; Mood Mondrian, 1961-1962; Drips and Strips, 1961-1965; Andy Warhol, 1965), che fungono anche da riflessioni personali dell’autrice sui diversi movimenti artistici del suo tempo, dall’espressionismo astratto alla pop art.

Arabesque for Kenneth Anger, filmato tra i giardini dell’Alhambra a Granada, duetta festosamente con Eaux d’Artifice (1953) del collega Anger, suo compagno di viaggio in Spagna, dove Marie intendeva girare The Gravediggers from Guadix (1960). Questo film, rimasto incompiuto e ritrovato nel 2003 da Martina Kudláček, osserva con rapito occhio antropologico la misteriosa ritualità quotidiana dei monaci di Guadix (vivono in celle-cave di tufo, guarnite di crocifissi e fruste, e scavano le fosse dei defunti della popolazione locale).

Andy Warhol è uno dei rari film girati nella Silver Factory e uno dei lavori più lunghi di Menken (dura circa 18 minuti, gli altri durano dai 3 ai 7 minuti). Ritrae l’operatività artistica di Warhol e dei suoi assistenti, tra i quali Gerard Malanga. Lo straniante effetto di accelerazione prodotto dalle riprese in stop-motion avvolge come in un bozzolo visivo la nascita delle più famose opere warholiane, e la sequenza di Warhol di profilo che scorre a loop davanti ai quadri sembra riprodurre (auto)riflessivamente la serialità creativa dell’icona Pop. Del resto, pare che fu proprio Marie Menken a insegnare a Warhol l’uso della Bolex 16mm [fig. 4].

 

2. Una pionieristica sperimentazione di cinediarismo

Nel 1961 ebbe luogo l’anteprima di notebook (1940-1963), un film in progress fatto di brani di vita quotidiana, immagini della natura circostante e altri sketches. Fu un riferimento fondativo del cinema diaristico, un modello esemplare per molti filmmaker (Stan Brakhage, Jonas Mekas, Kenneth Anger, Peter Hutton, Warren Sobert, Andrew Noren, Nathaniel Dorsky, Madeleine Gekiere, tra gli altri), che aderiva al fluire esperienziale ed emozionale dell’autrice e che si espresse nell’intera sua opera di cineasta, le cui diverse linee di sviluppo sono tutte riconducibili a una pratica estetica ‘corpor(e)izzata’ (embodied). Il procedimento creativo di Menken esperisce il corpo come ‘luogo delle immagini’, e osmoticamente concepisce le immagini come ‘luogo del corpo’: «Marie girava con tutto il corpo, con tutto il suo sistema nervoso – scrive Jonas Mekas nel 1965 su ‘Filmculture’ –. La si sente dietro ogni sua immagine».

Era stato proprio Mekas, del resto, che a fine dicembre del 1961 aveva consacrato la collega con una rassegna dei suoi film al Charles Theater di New York. Ed è sempre Mekas che nel gennaio 1962, nella sua rubrica Movie Journal del ‘Village Voice’, inserisce il lavoro dell’autrice tra «i migliori del nostro cinema poetico contemporaneo». P. Adams Sitney chiamerà «somatico» lo stile ‘fotografico’ di Menken, osservando che esso «incorporava esitazioni, impacci e persino “errori” nella rete dei suoi ritmi di montaggio», e che proprio il carattere di questa sua «cinepresa somatica» (come la definirà in uno studio del 2008) è stato «il suo più influente dono al cinema d’avanguardia americano».

Il cinediarismo di Menken e il suo approccio «somatico» al mezzo cinematografico sono rilevanti esempi dell’esperienzialità che contraddistingue le pratiche dello «stile moderno», che rivoluzionano profondamente il linguaggio «classico» ponendo un duplice interrogativo, ai materiali elaborati e al cinema stesso (De Vincenti 2013).

La cinepresa a mano in 16mm affida ai gesti e ai movimenti del corpo della filmmaker il compito di assecondare l’immediatezza della visione, l’impulso a intercettare la vita nelle sue minuzie, (rac)cogliendo la cangiante irripetibilità dei suoi istanti. Un impegno, questo, che è riconducibile (Pip Chodorov) a un’idea di cinema come arte processuale, situata nella concretezza del mondo ed esercitata come una forma di azione, e che rivela le (cor)rispondenze alle intemperanze dell’esistenza con immagini frammentarie, aperte, incompiute. Lo sguardo «giocoso» di Menken (Jonas Mekas) mostra così la sua venerazione per la materia del mondo e la sua adesione a ciò che è ordinario, umile, familiare. Una sensibilità che è stata coltivata dalla tradizione trascendentalista americana e che ha influenzato i cineasti del New American Cinema (Sitney 2008). L’uso gestuale della macchina a mano, ovvero il lavoro che incorpora consapevolmente i gesti della cineasta nelle riprese, deriva in prevalenza dall’influenza pittorica dell’espressionismo astratto, con le sue pennellate matericamente gestuali, nonché dai correlati sviluppi della musica jazz e pop.

In stop-motion e con la macchina a mano è girato Go! Go! Go! (1962-1964), un film che rievoca le sinfonie delle città di tradizione avanguardista (come Manhatta di Charles Sheeler e Paul Strand, 1921) e anticipa un revival come Empire II di Amos Poe (2007): la frenetica pulsazione quotidiana di New York, i divertimenti in spiaggia a Coney Island, il porto solcato da sfreccianti imbarcazioni, la statua della libertà sullo sfondo, Willard alla macchina da scrivere e il suo sguardo estatico sullo skyline metropolitano, il cielo al tramonto in attesa del nuovo giorno. Un lavoro iconico dell’irrequietezza umana, delle spinte compulsive della contemporaneità, che Menken (s)tempera nelle tinte acquerellate della sua pellicola [fig. 5].

Altrettanto caleidoscopico è Notebook, epicentro della visione ipnagogica della regista, capace di «trasportare lo spettatore in un nuovo mondo […], esplorazione dell’invisibile», come osserva Peter Kubelka nel film di Martina Kudláček Notes on Marie Menken, un bel cine-ritratto realizzato nel 2006, dove Stan Brakhage sottolinea a sua volta come Menken avesse scoperto che «l’ipnagogia non era solo notturna».

Composto da frammenti ripresi nel corso dei due decenni precedenti, Notebook è organizzato in nove segmenti filmici: raindrops, greek epiphany, moonplay, copy cat, paper cuts, lights, night-writing, the egg e etcetcetc.. I primi tre sono in bianco e nero, il quarto è dipinto a mano, gli ultimi cinque sono a colori; inoltre, quattro furono girati di notte (greek epiphany, moonplay, lights e nightwriting), evidenziando «l’effetto ipnotico della luce disgiunta dagli oggetti» (Ragona 2007). I titoli sono senza maiuscole, e la datazione (1940-1963) è riferita all’arco temporale in cui Menken realizzò le tranches costitutive [fig. 6].

Aperto da due anatroccoli che nuotano in un canale, raindrops riprende con un fulgido bianco e nero d’antan il cadenzato gocciolio della pioggia su uno stagno, su rivoli d’acqua e sulla natura circostante, sospinto sul fogliame dall’impaziente tocco in/visibile della regista. Il suo sguardo lirico sembra idealmente dialogare con Regen di Joris Ivens e H2O di Ralf Steiner, entrambi del 1929.

In greek epiphany la macchina da presa segue il baluginio delle candele di una processione («la festa delle luci» dell’epifania greco-ortodossa), dondolando sugli sciami luminosi. Mentre moonplay, girato con la luna piena, è una danza lunare ripresa in stop-motion, un fascinoso gioco chiaroscurale tra fronde d’albero, luna e cielo.

Sono poi influenzati dallo stile di Norman MacLaren copycat e paper cuts. Il primo sperimenta la pittura su pellicola con un tripudio di bande, linee, strisce e campiture di colore che si intersecano in perpetuo movimento; il secondo, embrionale anticipazione di Dwightiana, è una colorata giostra multiforme che si libra simulando spazi fantastici: ora gremiti fondali marini ora vibranti nebulose cosmiche [fig. 7].

Lights e night-writing sono due mirabili elaborazioni delle luci notturne al neon nelle strade newyorkesi. In lights, esuberanti scie, lampi, nugoli e aloni luminescenti sono modulati dalle decorazioni luminose natalizie e dai fari delle automobili; night-writing è una misteriosa grafia pirotecnica, fatta di filamenti, spirali e gomitoli luministici che vanno e vengono dal buio. A proposito di questi due film Melissa Ragona osserva giustamente che essi esplorano le possibilità di lavorare con la luce come materiale e con la celluloide come mezzo/tela.

In the egg l’uovo primordiale intergalattico diventa una biglia che rimbalza tra due scheletri e sagome di animali da graffiti rupestri, a tratti avvolti da folate di fumo; etcetcetc, da ultimo, mostra frammenti di quotidianità straniati dal movimento sincopato delle riprese in stop-motion: una donna in bianco (la sorella di Menken, Adele) che sobbalza avanti e indietro come una marionetta, due cani (della stessa regista) che le girano intorno compulsivamente, sfreccianti rotaie ferroviarie, saettanti automobili in città, fulminee visioni dai finestrini, l’immagine finale del cane nero che si sporge da una terrazza per dare un’occhiata alla città. Un taccuino di annotazioni visive che preannuncia il citato Go! Go! Go! e che sarà di spunto per il successivo trittico: Eye Music in Red Major (1961, dal primo lights), Moonplay (dall’omonimo segmento) e Lights (da night-writing), questi ultimi elaborati dal 1961 al 1966.

Con Sidewalks (1961-1966) Menken prosegue l’esplorazione dell’ambiente urbano da una prospettiva insolita: la camera puntata sul suolo perlustra crepe, macchie, rifiuti e altri dettagli minuti di strade e marciapiedi, generando paesaggi astratti filiformi e puntiformi in campiture nero-grigie. Mentre Wrestling (1964) lavora sulle immagini televisive dei lottatori, alterate fin verso l’astrazione per via della differenza di fase tra le immagini televisive e quelle cinematografiche. Una (ri)prova, questa, della costante ricerca estetica di Menken verso le ‘espansioni’ del linguaggio cinematografico e della propria creatività.

Infine Excursion (1968) trasfigura un viaggio in barca che costeggia Manhattan in un movimento dal ritmo frenetico, cadenzato dal palpitante montaggio della pellicola.

In conclusione di questo percorso, la sperimentazione formale e tematica di Marie Menken appare come un vitale work in progress dagli esiti imprevedibili. Ed è utile ricordare che il nesso tra imprevedibilità dei risultati e azione sperimentale è evidenziato da John Cage nel suo testo Silence, del 1961. Cage, com’è noto, fu pioniere del movimento Fluxus e figura di punta del pantheon artistico-culturale di cui la stessa Menken fu parte integrante. Del resto non si può dimenticare che alla pratica artistica Fluxus di Robert Watts la regista dedicò Watts with Eggs (1964-1967), una euforica coreografia di perline, sabbia, gioielli, biglie e uova girata in stop-motion.

Il work in progress sperimentale e imprevedibile di Marie Menken è all’insegna di una sensibilità – come osserva Jonas Mekas nel necrologio dedicato alla collega – per «i piccoli sentimenti, le piccole emozioni, le piccole immagini: i film di Marie erano i suoi giardini di fiori. Ogni volta che era nel suo giardino, apriva la sua anima, con tutti i suoi desideri e sogni segreti» [fig. 8].

 

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