1.5. Barbara Hammer. Visività poetico-politica

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I became both a lesbian and artist when I was thirty, so I always saw my thirties as my adolescence. This was my time for growing up as a woman in the world - a woman relating to women, a woman relating the world, and making art

Sono diventata sia lesbica che artista quando avevo trent'anni, quindi ho sempre visto i miei trent'anni come

la mia adolescenza. Questo era il mio

momento per crescere come donna nel mondo - una donna che si relaziona con le donne, una donna che racconta il mondo e fa arte.

Coming into Our Fullness: On Women Turning Forty, 1991

 

As an experimental filmmaker and lesbian feminist, I have advocated the radical content deserves radical form. Come regista sperimentale e femminista lesbica, ho ritenuto che il contenuto radicale meritasse una forma radicale

The Politics of Abstraction, 1993

 

1. A lesbian Aesthetic

Barbara Hammer (1939-2019), pioniera e ironica riot del cinema lesbico e di ricerca di secondo Novecento, è stata prolifica e volitiva regista di cinema sperimentale e d’esperienza a partire da sé, nel corso del suo cinquantennale lavoro creativo, imponente per numero e varietà di contenuti e di elementi. [fig.1]

A partire dalle sue produzioni di corti dalla fine degli anni Sessanta e primi Settanta, sul corpo desiderante, fuori dai tabù sessisti ( I Was/I Am, 16mm, B/N, 1973, 7’; Dyketaksis, 16 mm, Colore, 1974, 4’; Multiple Orgasm, 16mm, Colore,1976, 6’ muto; Women in Love, 16mm, Colore, 1976, 25’; Double Strength, 16mm, Colore, 1976, 16’), si è impegnata all’emersione video narrativa femminista del corpo erotico lesbico, emersione gioiosa, in ricerca di altre visioni e condivisioni; il linguaggio filmico è di sperimentazione; le sue narrazioni ad alto tasso ‘emotivo/esplosivo’ de/ri-costruiscono storie giocando attivamente con gli immaginari (Nitrate Kisses, 16mm, B/N, 1992, 67’; Tender Fiction, 16mm, Colore, 1995, 58’; The Female Closet, video, Colore B/N, 1998, 58’; History Lessons, 16mm, Colore, 2000, 66’). Corpi, contiguità, spazi e tempi e vite in visioni distoniche, ironiche, poetiche, in dettaglio ed in cornice o in campo aperto per altre geografie ed architetture. Sempre a partire da un’emersione emozionale. Vedere, Sentire, Tracciare, Toccare, Segnare, con il corpo e le sue attenzioni, ridisegna i confini, le fisicità e le visività, riempie o riapre inquadrature e cinestesie. Il senso dell'erotico nella creazione artistica è un senso di lealtà a sé, di completezza e di costruzione, di opera che si fa con pienezza di essere: la sessualità non è scollegata dalla visività e dalle rappresentazioni. Le informa. Art and politics go hand in hand. La rappresentazione visiva fuori canone nel suo lavoro sperimentale e non lineare dei suoi film e video si accompagna sempre, sin dall’inizio, a performance, installazioni, scritture e immagini che convergono nel suo lavoro di decostruire artisticamente quanto oggettivizzato e chiuso, per portare a visibilità quanto oscurato nelle narrazioni. [fig. 2]

Nei suoi più recenti lavori, il tabù affrontato è stato il corpo malato: secondo la sua pratica artistica femminista di ‘coscenzializzazione’ e condivisione a partire da sé, ha raccontato il versante del limite e del corpo fragile nell’esperienza della sua malattia di cancro: A Horse Is Not A Metaphor (Video, Colore B/N, 2008, 30’, musica Meredith Monk); nel quadro delle Barbara’s Performative Lectures al Whitney Museum of American Art, nell’ottobre del 2018, in Art of Dying or (Palliative Art Making in the Age of Anxiety) mostrando intrecciati il suo percorso artistico e il suo desiderio di morire dignitosamente, interroga la gran paura a parlare di morte del mondo occidentale, come se non nominandola si potesse mandarla via. Nella sua autobiografia artistica HAMMER, MAKING MOVIES OUT OF SEX AND LIFE, pubblicata nel 2010, ci tiene a sottolineare, nei diversi saggi che la compongono, l’importanza delle sue due fonti di attingimento artistico nella realizzazione del suo lavoro filmico, che sceglie tra le diverse forme d’arte (la poesia a lei cara, la fotografia o la pittura e il teatro), proprio per la sua multiversa potenza semantica. «Una volta nominatami, come artista e lesbica, posso andare avanti su altre aree di espressione lasciate inesplorate».

Suo primo necessario elemento di significazione, esplicitamente sottolineato a causa del nascondimento della fattività creativa delle donne e dell’eros lesbico, è stato portare a visibilità l’essere lesbica nel mondo e le sue semiosi, accendendo la luce degli schermi, ritessendo narrazioni e storie, e la storia ‘fuori dal closet’, con visibilità ed esistenza a soggettività piena, gioiosa ed affermativa: terra incognita nella geografia del cinema fino a lei! O meglio, quasi incognita, con una eccezione che lei segnala ed a cui attinge, la grande e amata Maya Deren: «nel 1979 ho avuto la mia prima proiezione al di fuori della comunità femminista lesbica solidale, quando Terry Cannon del Film Forum di Los Angeles, mi ha proposto di presentare lì i miei film. In entrambi gli ambienti sono stata chiamata a spiegare le mie scelte di forma e contenuto non ortodossi: alla comunità femminista, le ragioni estetico-formali del cinema di ricerca sperimentale, alla comunità cinefila, l'importanza dei contenuti ignorati e tabuizzati (non rappresentati) dalle conformità sociali».

 

2. The Shaking Archives

Lavorando sulle stratificazioni possibili di senso, espande il valore degli archivi, nella loro varia potenzialità di interrogazione e nella loro concreta fisicità, raccogliendo, riguardando e reindirizzando materiali, filmati, immagini, foto, oggetti, documenti, testi. Il suo lavoro con gli archivi contribuisce non poco al suo obiettivo di orientare il pubblico verso una attiva estetica relazionale. Nel suo Active Cinema gli archivi sono stati attentamente ‘movimentati’. [fig. 3]

Lover/Other. The Story of Claude Cahun & Marcel Moore – Video, Colore&B/N, 2006, 55’.

Claude Cahun Lucy Renée Mathilde Schwob –, fotografa e scrittrice, ebrea pacifista, condivide con la sua compagna Marcel Moore – Suzanne Alberte Malherbe –, illustratrice, designer e fotografa, la vita eccentrica nell’impegno artistico pacifista libertario, teorizzato e praticato a partire dagli anni Venti nella comunità dei surrealisti francesi. Sono sorelle acquisite e amanti e vivono insieme l’intera vita, performando con il corpo, oltre i generi sessuali, le forme e gli spazi di immaginazione, di vita e d’arte. Fanno insieme anche la resistenza al nazismo, con volantini antimilitaristi e antinazisti da loro stesse realizzati e diffusi tra i soldati di stanza nell’isola di Jersey, dove erano andate a vivere dopo l’occupazione tedesca della Francia: catturate per la loro propaganda antimilitarista e condannate a morte, sono sopravvissute grazie alla Liberazione. Il film – nel quadro di una ricerca sulle forme vissute di resistenza al nazismo da parte di artiste/i in un piccolo centro del sud francese confluita nel film Resisting Paradise (16mm, 2003,80’) – scaturisce dall’aver visto una foto di Cahun della serie Autoritratto in una mostra collettiva nel ’98 a Parigi. [fig. 4]

Si incentra precisamente nel periodo della loro residenza nell’isola di Jersey dove hanno portato e raccolto, nella grande casa sulla spiaggia, la loro arte poetica/politica, fotografica e teatrale/performativa. Ambientato per gran parte tra la casa e il giardino con l’utilizzo di fotografie, filmati, oggetti e un testo inedito ritrovato di Cahun, il film si sviluppa in intermezzi recitati realizzati da Hammer con le sue brave attrici, sequenze alternate ad interviste a residenti di Jersey che conoscevano le ‘sorelle’ e che raccontandocele, a pezzo a pezzo compongono una loro liminale rifrazione.

Maya Deren’s Sink – Video, Colore&B/N, 2010, 30’. [fig. 5]

Dopo I was/ I am del 1972, primo breve tributo di Hammer a Maya Deren, conosciuta nel Corso di cinema alla San Francisco State University con stupore e felicità per la potenza del suo lavoro, tanto più nel deserto di donne nel cinema fin lì studiato, nel 2010 Barbara Hammer realizza questo film sulla vita e il lavoro della geniale iniziatrice del cinema sperimentale USA, comprese le innovative pratiche di produzione e distribuzione da lei concepite e non adeguatamente riconosciutele. Il film si fa nelle sue case, i luoghi del suo lavoro, l’appartamento al 61 di Morton Street a New York e il bungalow di Los Angeles di Meshes of the Afternoon: «riproiettando i dettagli dei suoi film su soffitti, pareti, pavimenti armadi e finestre, ritrovo il suo spirito creativo e porto il pubblico con me a conoscerla». [figg. 6-7]

È costruito attraverso il racconto in frammenti di memoria di chi la conosceva e ne conosceva le case per averle abitate o condivise nel lavoro (Tavia Ito e Gayl Ryan, Ross Lipman, Jerry Tallmer, May Routh, Carole Schneemann, Judith Malina e altre/i). Volti in cornice che parlano dai muri, brevi clip dei film di Maya Deren ri-proiettate negli stessi spazi in cui erano stati originariamente ripresi, in sovrapposizione e dissolvenza con le sequenze girate da Hammer con l’attrice Bekka Lindstrom che rimette in scena Maya e le sue figurazioni. I testi sono tratti dagli scritti di Maya Deren, taccuini e note. Finestre, porte, interni, strade: inquadrature, sequenze, tempi lenti, tagli di montaggio, luci e ombre in movimento. Voci e cura del suono. Il tutto inizia dall’emozione di un lavandino. La regista in voce ricorda il piacere di aver intercettato casualmente quel lavandino all’Anthology Film Archives, quel piccolo lavandino di ceramica che diventa occasione di contatto e passaggio, ripetutamente inquadrato in PP, un po’ incrostato, da cui inizia a prender forma il racconto, con l’occasione di metterci dei fiori, e da cui iniziano a venir fuori le immagini del volto di lei.

 

Bibliografia

A. Cvetkovich, ‘The Artist as Archivist, the Archive as Art’, in AAVV, Barbara Hammer Evidentiary Bodies, Ed. Staci Bu Shea and Carmel Curtis, Leslie Lohman Museum, 2018.

B. Hammer, Hammer! Making Movies Out of Sex and Life, The Feminist Press at the City University of New York, 2010.

B. Hammer, The Shaking Archive, in <http://barbarahammer.com/wp-content/uploads/2019/11/Shaking_The_Archive.pdf> [accessed 31 August 2020].

E. Lebovici, The Screen as the Body. Mousse, Anno 7, N.23 febbraio-marzo 2012. UnDo.Net Magazines http://1995-2015.undo.net/it/magazines/1332426098 [accessed 31 August 2020].