2.6. Appunti allo specchio

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Nel 1968 Pasolini scrive il testo Appunti per un poema sul terzo mondo che immagina come una sequenza di cinque episodi concatenati ambientati ognuno in un’area rappresentativa del terzo mondo, l’India, l’Africa nera, i Paesi Arabi, l’America del sud, i ghetti neri degli Stati Uniti. L’episodio, girato in Africa nera, avrà come «tema specifico il rapporto tra cultura “bianca” (occidentale: ossia razionalistica e tipica di un mondo borghese e già del tutto industrializzato) e la cultura di “colore”, cioè arcaica, popolare, preindustriale e preborghese (con il conflitto che ne consegue, e tutte le sue drammatiche ambiguità, i suoi nodi insolubili)». 

Nello stesso anno, in un’intervista rilasciata a Lino Peroni, Pasolini dà già qualche indicazione sulla natura del progetto, precisando: «ricreerei delle analogie, per quanto arbitrarie e poetiche, e in parte irrazionali, tra il mondo arcaico greco, in cui appare Atena che dà, attraverso Oreste, le prime istituzioni democratiche, e l’Africa moderna» e poi aggiunge: «comunque sia, non sarà fatto come un vero e proprio film, ma come un “film da farsi”».

È proprio su questo aspetto formale che mi vorrei soffermare, vale a dire sulla nozione di «appunto» che naturalmente rimanda ad uno degli aspetti più discussi della poetica pasoliniana, cioè quella di incompiuto, e qui basti pensare all’ultima produzione letteraria dell’autore e in particolare a Petrolio, ma anche a tutta una serie di film, ne possiamo contare tredici, che hanno per caratteristica propria quella di essere incompiuti.

Il termine «appunto» ha dunque una valenza estetica, poetica, forte. Non è soltanto una parola ma indica una vera e propria volontà d’incompiutezza peraltro più inedita in ambito cinematografico che in ambito letterario.

Soffermandomi sulla nozione di appunto vorrei però cercare di interpretarla come una tecnica di scrittura che possiede un legame forte col mito. L’appunto, la nota di viaggio, sottintenderebbe, è quello che vorrei dimostrare, un intento metacinematografico: la volontà di far vedere che il cinema può essere non solo «scrittura del linguaggio della realtà», come dice Pasolini, ma una scrittura atta, meglio di ogni altra, «a rivelare la sostanza mitica della realtà». Attraverso il cinema, insomma, Pasolini dimostra che il letterato ha i mezzi per appropriarsi del linguaggio tecnologico della nuova era iniziata dal neocapitalismo industriale per sottrarlo alla sua escatologia comunicativa e piegarlo a dei fini espressivi, poetici. E poiché il mito, secondo la tradizione che abbiamo inizialmente ricordato, è il luogo in cui sacralità, sapienza e poesia si esprimono al massimo grado, tale dimostrazione è condotta provando che il linguaggio cinematografico è ormai l’unico in grado di far rinascere, nell’era dell’imperante logos tecnologico, il linguaggio del mito.

Come ricordavo poc’anzi, Pasolini parla del cinema come di una trascrizione della realtà in particolare in un testo del 1966 raccolto in Empirismo Eretico e intitolato appunto La lingua scritta della realtà. Non mi soffermerò su questo testo controverso ma per chiarezza ne ricordo l’assunto principale: la realtà non è che cinema in natura vale a dire che «il primo e principale linguaggio degli umani, può essere considerata l’azione stessa: in quanto rapporto di reciproca rappresentazione con gli altri e con la realtà fisica». Ne deriva che «l’intera vita, nel complesso delle sue azioni, è un cinema naturale e vivente: in ciò è linguisticamente l’equivalente della lingua orale nel suo momento naturale o biologico», il che significa che questo cinema vivente sta al cinema come tecnica audiovisiva nello stesso rapporto in cui la lingua orale sta alla lingua scritta.

Lascio da parte per ora il rapporto tra cinema e film, cioè tra la lingua e l’espressione in quella lingua per ricordare che il cinema, in quanto lingua scritta della realtà, contribuisce a renderci consapevoli della natura linguistica della realtà ponendoci in un rapporto semiologico – su questo insiste molto Pasolini ed è su questo che la sua teoria verrà poi principalmente attaccata – col linguaggio dell’azione ovvero con la realtà tout court.

Torniamo ora agli appunti dell’Orestiade. Che cosa ci dice che Pasolini ci presenti questi appunti precisamente come un’illustrazione della sua teoria del cinema come lingua scritta della realtà e che significato assumono in quanto esemplificazione della teoria nel quadro dell’opera?

L’incipit di Appunti per un’Orestiade africana, come forse ricordate, è l’immagine a prima vista incongrua o enigmatica di Pasolini che si specchia in una vetrina, alla quale fa seguito una descrizione del progetto dell’Orestiade.

Pasolini dice: «Mi sto specchiando con la macchina da presa nella vetrina del negozio di una città africana» e poi aggiunge: sono venuto evidentemente a girare, ma a girare che cosa? Non un documentario, non un film, sono venuto a girare degli appunti per un film».

Va da sé che questo incipit seguito dalla dichiarazione di intenti del regista può difficilmente essere considerato un puro vezzo. Tanto meno che, mi sembra, può essere direttamente collegato al testo di un’intervista apparsa su Cinema e film nell’inverno 1966-67 e inclusa come appendice in Empirismo Eretico col titolo Battute sul cinema. In questa intervista, alla domanda: «ci è rimasta a ronzare in testa la sua idea della “semiologia della realtà”: può darci qualche precisazione?» Pasolini risponde:

Be’. Sì. Il titolo del libro in cui raccoglierò i miei saggi sul cinema […] si intitolerà forse Il cinema come semiologia della realtà. Mi è successo, insomma, quello che succederebbe a un tale che facesse delle ricerche sul funzionamento dello specchio. Egli si mette davanti allo specchio, e lo osserva, lo esamina, prende appunti: e infine cosa vede? Se stesso. Di che cosa si accorge? Della sua presenza materiale e fisica. Lo studio dello specchio lo riporta fatalmente allo studio di se stesso. Così succede a chi studia il cinema: siccome il cinema riproduce la realtà, finisce col ricondurre allo studio della realtà. Ma in un modo nuovo e speciale, come se la realtà fosse stata scoperta attraverso la sua riproduzione, e certi suoi meccanismi espressivi fossero saltati fuori solo in questa nuova situazione «riflessa». Il cinema, infatti, riproducendo la realtà, ne evidenzia la sua espressività, che ci poteva essere sfuggita. Ne fa, insomma, una semiologia naturale.

La vetrina in cui si specchia Pasolini può esser vista, dunque, come un riferimento al testo di Battute sul cinema. L’immagine riflessa di Pasolini allude alla scoperta della realtà africana attraverso la situazione riflessa della sua riproduzione cinematografica.

Ma naturalmente questo non basta a spiegare perché questa riproduzione, questa scrittura del linguaggio della realtà, sia proposta sotto forma di note, di appunti. La spiegazione ci viene però dalla stessa intervista in un dialogo a distanza con Roland Barthes. Barthes aveva rilasciato un’intervista nel ’63 ai Cahiers du cinéma intitolata Sur le cinéma che è ripresa e tradotta nel ’66 dalla rivista Cinema e film e nuovamente intitolata Cinema metaforico e cinema metonimico. In questa intervista Barthes sostiene che il cinema è un’arte metonimica.

Per Pasolini, Barthes ha ragione, il cinema è metonimico, ma non per le ragioni che indica lui. Vorrei dire che è a questo punto preciso che Pasolini svela le ragioni profonde del suo discorso teorico sul cinema come linguaggio della realtà. Se Barthes avesse ragione, infatti, questo significherebbe che il cinema dovrebbe per forza essere narrativo. Metonimico significa infatti costruito per sintagmi contigui, per pezzi di racconto, contrariamente alla letteratura, dice Barthes, in un film non può non succedere niente. Dato un sintagma visivo, il sintagma che si sceglie di aggiungere, in particolare attraverso il montaggio, è per forza di cose determinato dal primo. Insomma vi è per forza una logica e una logica narrativa nel montaggio cinematografico.

Ora osserva Pasolini:

Se io volessi ricondurre questa geniale intuizione di Barthes alla mia teoria (così barbaramente abbozzata), direi che: Non è il cinema un’arte metonimica, ma è la realtà che è metonimica. Sono i fenomeni del mondo che sono i sintagmi naturali del linguaggio della realtà. Il cinema, riproducendo tali fenomeni, cioè presentandosi come lingua scritta del linguaggio vivente della realtà, è a sua volta metonimico. E la sua metonimicità non è infine che la linearità con cui la realtà ci parla. Insomma le inquadrature di un film non sono sostituibili, come i foglietti di un almanacco, perchè non sono sostituibili gli oggetti della realtà che il seguito delle inquadrature rappresenta secondo il seguito con cui essi si rappresentano naturalmente a noi.

Il senso dell’osservazione pasoliniana è chiaro. Se il cinema non è un’arte metonimica, ma è la realtà che è metonimica allora è possibile anche fare film che non siano narrativi o che siano il meno narrativi possibile. Ovvero, scrive Pasolini, dei film scritti nella lingua della poesia, dei film che siano al massimo grado «cinema di poesia».

Un film di poesia potrebbe benissimo giocare sulla sostituibilità delle inquadrature (una serie di inquadrature giustapposte secondo un seguito lirico e non narrativo; oppure una serie di inquadrature simboliche, ognuna finita in se stessa ecc.). La definizione di Barthes è dunque splendida; ma serve a definire un cinema di prosa narrativa, come se questo fosse tutto il cinema, e come se una lingua cinematografica non esistesse, ma esistesse quell’unico linguaggio d’arte che è un insieme di singoli film.

Ora appare chiaro che ciò che ha cercato di fare Pasolini in Appunti per un’Orestiade africana è proprio realizzare questa ipotesi di un film di poesia che rompa chiaramente con la definizione barthiana del cinema come arte metonimica. Nell’Orestiade non solo ritroviamo una serie di inquadrature giustapposte secondo un seguito lirico e non narrativo, ma queste inquadrature sono simboliche e spesso ognuna conclusa in se stessa. Anzi è proprio questa, potremmo dire, la definizione dell’appunto. La costruzione per appunti consente precisamente di proporre un susseguirsi di inquadrature (i personaggi, i gesti, gli ambienti) mentre il contesto analogico della trasposizione dell’Orestiade nell’Africa odierna conferisce ad ognuna di esse un valore simbolico o metaforico.

La tecnica dell’appunto, insomma, permette di isolare il racconto dall’inquadratura. Il racconto è inizialmente riassunto da Pasolini dopo di che assistiamo ad un succedersi di inquadrature giustapposte di grande intensità lirica e di valore simbolico. Gli appunti sono la traduzione concreta, la realizzazione di un «cinema di poesia» così come lo intende Pasolini nel suo dialogo a distanza con Barthes.

 

Bibliografia:

H. Joubert-Laurencin, Pasolini. Portrait du poète en cinéaste, Paris, Cahiers du cinéma, 1995.

P.P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 1999.

P.P. Pasolini, Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Milano, Mondadori, 2001.