2.2. «Forse avevo imparato a recitare». Le autobiografie delle dive del Ventennio

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L’autobiografia, fonte frugifera nell’analisi di una personalità, si rivela particolarmente interessante nello studio delle attrici: essa è veicolo di voci preziose in quel processo non semplice che è la traduzione in parola analitica di quanto espresso da un volto, da un’azione mimetica e, in generale, da una performance. La prassi dell’autobiografia d’attrice è relativamente trascurata nel contesto da noi scelto – l’Italia della dittatura fascista –, il cui cinema è popolato perlopiù di nuove leve che solo in decenni successivi scelgono talvolta di tornare a parlare dell’esperienza autarchica. È il caso delle attrici Elsa de’ Giorgi, Doris Duranti e Lilia Silvi, stelle di prima grandezza di quel cinema che a lungo è apparso come un sistema conchiuso, un’esperienza artistica soluta da quanto venuto prima e dopo.

Nell’apprestarci a rileggere queste autobiografie – eterogenee per dichiarazione d’intenti, struttura e successo editoriale – daremo priorità d’indagine a quell’insieme di aspetti che, nelle parole di Philippe Lejeune, stanno alla base dello «studio psicologico [dell’autobiografia]»: memoria, costruzione della personalità, autoanalisi (Lejeune 1975). La lucida scrittura storica e personale di Elsa de’ Giorgi, la disincantata narrazione cronologica di Doris Duranti e la penna improvvisata e spontanea di Lilia Silvi permettono di guardare da vicino – ma forse è solo una persuasiva illusione – quel periodo storico e cinematografico che, ora lontano, assume contorni meno vaghi quando narrato da una voce di donna testimone (privilegiata) del proprio tempo.

La prospettiva transmediale si fa punto di vista allettante per una comprensione ampliata delle caratteristiche della diva e attrice di regime in generale, e dei tre soggetti nominati in particolare. Ci proponiamo di cogliere la stimolante indicazione di Maria Rizzarelli, la quale suggerisce di «interrogarsi […] sulle convergenze (o sulle divergenze) fra l’immagine attoriale rappresentata dall’autrice nella propria esperienza performativa e quella contenuta nel testo letterario, sui riverberi e sulla dimensione metatestuale che la scrittura produce rispetto allo stile recitativo e alla star persona» (Rizzarelli 2017), e di farlo cercando di rintracciare in queste autobiografie i segni di una corrispondenza fra i due ambiti artistici, cinematografico e letterario, ponendo particolare attenzione all’autocoscienza divistica e performativa delle attrici in oggetto: qual è la consapevolezza della portata della propria immagine, per queste interpreti? Quale l’influenza che sulla scrittura e sulla rappresentazione del sé opera tale immagine? Quali le indicazioni riguardanti la recitazione?

La triade di soggetti proposta risponde a una selezione disciplinata dal punto di vista cronologico: le tre autobiografie si auto-limitano a descrivere il periodo cinematografico corrispondente al secondo cinema italiano. Silvi recita solamente sugli schermi di regime; Duranti, pur scrivendo nel 1985 e recitando fino alla seconda metà degli anni Settanta, in sede autobiografica si concentra solo sul periodo fascista; de’ Giorgi, interessata per lo più alle vicende dell’Italia sotto la dittatura mussoliniana, sceglie come termini temporali della propria narrazione quelli del secondo conflitto mondiale. Soprattutto, le tre attrici nascono sugli schermi del secondo cinema italiano, e in questi vedono definirsi e imporsi le proprie personae.

In quel panorama programmaticamente eterogeneo, dove «ognuna aveva un personaggio ben preciso» (Silvi 2005), il fascino esotico e la chioma corvina di Doris Duranti [fig. 1] si impongono come i segni ideali della maschera della donna fatale. Se Valentina Cortese nel 2012 crede ancora all’ipotesi di un destino «zingaresco» per la Duranti avvistata a vendere collane per le strade di Santo Domingo (Cortese 2012), è evidente come il mito esotico e maliardo dell’attrice abbia contato, non solo negli anni della sua fama, su una strutturazione solida.

Quella di Duranti è una mitologia che si riverbera indistintamente sullo schermo (è il volto della follia amorosa, la femmina solitaria del filone coloniale), nella dimensione pubblica (l’amante eletta del gerarca fascista Alessandro Pavolini) e nella costruzione divistica (celebre la querelle sul primo seno nudo del cinema italiano). Di tale costruzione l’ex diva dà dimostrazione nella propria autobiografia, Il romanzo della mia vita [fig. 2], in maniera ambivalente: da un lato denotando una precisa consapevolezza della star persona impostale (come ammesso anche al microfono di Francesco Savio: «Mi sono adeguata perché in coscienza capivo che il mio personaggio era quello […] avevo accettato il mio personaggio […] questo mi offrono e io questo faccio»); dall’altro traslando quella persona all’interno del ‘romanzo della vita’, facendone il personaggio principale di una narrazione autobiografica che si configura come un vero e proprio resoconto cronologico degli amanti, susseguitisi nella vita reale come nei film. Tuttavia, tale coincidenza fra persona e personaggia contrasta con quanto Duranti afferma altrove (a Savio: «nella mia vita privata ero una cosa, però nel cinema io rappresentavo quel tipo di donna»), rendendo evidente un’incertezza (anticipata in prefazione da Gian Franco Venè) nella programmazione del proprio racconto, costantemente alternato fra la restituzione di un’immagine promozionale e la confessione di una voce consapevole della distanza fra se stessa e i segni incarnati.

Dal punto di vista della recitazione pochissime sono le indicazioni forniteci dall’attrice e, purtroppo, analogamente va constatato per de’ Giorgi e Silvi. Il volto, l’espressione, «lo spirito»: questi gli unici, vaghi elementi rievocati in sede di scrittura attraverso i quali le attrici si definiscono; elementi che, stando alle narrazioni riportateci, confluiscono nella performance come unici strumenti della costruzione di senso. «Forse avevo imparato a recitare», rileva con ostentata ingenuità Duranti ripensando alla prima visione di Sentinelle di bronzo (suo film d’esordio del 1937), «Ma di sicuro non avevo ancora imparato a essere una diva»: la consapevolezza è tutta rivolta allo statuto divistico, al quale l’attrice riconosce un’importanza vitale, riposta in una precisa prassi comportamentale che sembra puntare quasi esclusivamente sul porre se stessa come fenomeno di consumo (Dyer 1979) e, conseguentemente, come influencer («La casa di prodotti di bellezza Venus mi riforniva gratis; la pellicceria Gori mi faceva indossare i suoi capi per le foto di moda; dal muflone passai al castoro»). La prospettiva bipolare di Duranti nella descrizione delle sue personalità (quella reale e quella divistica) non viene sciolta in una sintesi univoca fra le righe dell’autobiografia, in cui, però, emerge evidente, consapevole e lucido il processo di una costruzione iniziato dalla nascita e per il quale Duranti, con voce senile, rivendica una paternità d’opera esclusiva («Mi sono fatta anzitempo la tomba perché, così come in vita ho costruito soltanto il personaggio di Doris Duranti, non desidero che altri se ne occupino»).

Di questo dubbio di autenticità d’immagine che Duranti instilla nel lettore non vi è traccia invece nell’autobiografia di Lilia Silvi (Lilia Silvi, una diva racconta se stessa e il suo cinema) [fig. 3], compilata dall’ottuagenaria ex attrice in un periodo che ella descrive come non sereno, ma che non le impedisce di «deporre “le nuvole” in un cantuccio […] con ironia e ottimismo»; due termini, questi, che rievocano chiaramente le caratteristiche della sua personaggia, la ‘ragazza terremoto’ e di buon cuore degli schermi del secondo cinema italiano. Una corrispondenza perfetta fra star persona e persona verrà mantenuta in tutta la narrazione autobiografica, con lo stesso rigore con cui la prima si è mantenuta invariata sugli schermi frequentati dall’attrice. La distanza temporale dai fatti narrati (il libro è pubblicato nel 2005) certo contribuisce a restituire l’aura di un «mondo fittizio dai contorni irreali» (Nicoletto 2010), in quelle pagine che traducono in parole la vitalità della personaggia dei film di Malasomma, Bragaglia, Poggioli. La descrizione della parabola dalla povertà alla ricchezza e l’inserzione di aneddoti narrati col gusto del comico e dell’equivoco contribuiscono a creare un andamento narrativo da commedia, che rilancia efficacemente Lilia Silvi come protagonista ideale di tale genere cinematografico. La stessa descrizione di sé che l’attrice fornisce è perfettamente aderente a quella della ‘ragazza terremoto’ dello schermo: nel chiosare gli aneddoti ella descrive il proprio carattere come «troppo impulsivo. Ero proprio una discolaccia». La selezione degli eventi è quasi di gusto picaresco e la protagonista esclusiva è lei, che «con movimenti da clown, proseguiv[a] la strada con il nasetto alto nell’aria»: l’immagine suggerita da Silvi rievoca quella che Bragaglia fermò nel più ‘divistico’ dei ritratti fotografici dell’attrice [fig. 4]. La foto propone una sensualità (segno inedito in Silvi) composta da tratti artificiali (la chioma illuminata à la Hollywood, il trucco appariscente) e smorzata dalla posa giocosa.

Nell’intervista condotta da Savio si conferma la tendenza alla sovrapposizione dei piani attrice-personaggia nell’autonarrazione di Silvi; tale sede è altresì utile nell’analisi delle performance dell’attrice. Tendenzialmente refrattaria alle domande relative allo stile recitativo, ella propone un’unica considerazione: «quando leggo, ancora adesso, che attori e attrici studiano, cercano, io non ci credo. Perché, secondo me, un attore, o entra subito nel personaggio, creandoselo di botto, di primo acchito, oppure non c’entra»; il personaggio non già come frutto di uno studio progettuale, dunque, ma come esito istintuale.

L’identità persona/persona, così pregnante nella prosa di Duranti e di Silvi, è invece assente ne I coetanei di de’ Giorgi [fig. 5], romanzo per il quale la specificazione ‘autobiografico’ risulta insufficiente a descriverne la complessità, e in cui il racconto del sé si allaccia alla cronaca storica, divenendo un buon esempio di quanto Cesare Grisi afferma in merito alla narrativa autobiografica postbellica in cui l’autore «sa e sente che il cambiamento principale deve partire da un’istanza interiore e, solo in un secondo momento, espandere i suoi confini alla realtà in cui è immersa» (Grisi 2011). La sensibilità letteraria di de’ Giorgi restituisce non già il ritratto di una vita ma di un’epoca, di un Paese e della sua intellighenzia. L’analisi lucida di questa affidabile testimone del clima culturale dell’Italia fascista tuttavia non dedica spazio alla propria attività attoriale – di cui solo incidentalmente fa menzione – e al proprio divismo. Dovrà passare del tempo perché de’ Giorgi accetti di riflettere su questo ‘distintivo’ intellettualmente rifiutato: «[a Savio] sono un’antidiva, questa è la verità. Perché l’educazione che mi aveva dato mio padre e perché tutta una mia filosofia, ancora oggi, mi ha portato sempre a detestare la posizione di diva». Ma quando si tratta di una mitologia, di un insieme strutturato di segni, non è solo questione di volontà, e de’ Giorgi lo realizza: «Però io ero una diva, io lo sono stata. […] Avevo la gente che mi fermava per strada». Il tentativo di una definizione che medi volontà e realtà non è possibile, e così fama e antidivismo si risolvono in una sintesi complessa: «quella che è stata una popolarità di attrice, quella che è stata una simpatia di persona che mostrava il suo volto nel cinema, questa io l’ho avuta in maniera pienissima». Da questa presa di coscienza de’ Giorgi riemerge con l’impegno di non affidare ad altri la propria esistenza performativa: «ho smesso il cinema, proprio smesso, negli anni della guerra […] mi si rivedrà come attrice di cinema diretta da me stessa». Promessa – pochi lo ricordano – alfine mantenuta.

 

 

Bibliografia

V. Cortese, Quanti sono i domani passati. Autobiografia, a cura di E. Rotelli, Milano, Mondadori, 2012.

E. de’ Giorgi, I coetanei [1955], Milano, Feltrinelli, 2019.

D. Duranti, Il romanzo della mia vita, a cura di G.F. Venè, Milano, Mondadori, 1987.

R. Dyer, Star [1998], Torino, kaplan, 2003.

C. Grisi, Il romanzo autobiografico. Un genere letterario tra opera e autore, Roma, Carocci, 2011.

P. Léjeune, Il patto autobiografico [1975], Bologna, il Mulino, 1986.

M. Rizzarelli, ‘L’attrice che scrive, la scrittrice che recita. Per una mappa della ‘diva-grafia’’, in L. Cardone, G. Maina, S. Rimini, C. Tognolotti (a cura di), Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano, Arabeschi, 10, luglio-dicembre 2017, pp. 366-371, ˂http://www.arabeschi.it/13-/> [accessed 10.10. 2019].

F. Savio, Cinecittà anni Trenta. Parlano 116 protagonisti del secondo cinema italiano (1930-1943), Roma, Bulzoni, 1979.

L. Silvi, Una diva racconta se stessa e il suo cinema, Firenze, Aida, 2005.