Identità e rappresentazione sono temi dominanti nella produzione delle pioniere della videoarte negli anni Settanta e primi anni Ottanta.
Il video si configura come un mezzo leggero, agile sia da un punto di vista concettuale, – perché libero dal pesante retaggio patriarcale delle tecniche tradizionali – sia da un punto di vista tecnico – perché non richiede una crew e i lunghi tempi dello sviluppo come il film e con la commercializzazione del Sony Portapack diviene per di più portatile.
Offre dunque l’opportunità di sperimentare corpo e immagine in modo intimo e diretto e innovare il genere dell’autoritratto e del ritratto.
La metafora del video/specchio, presente già in autori quali ad esempio Renato Barilli (1970), viene esplorata in profondità nel noto contributo The Aesthetics of Narcissism di Rosalind Krauss (1976, p. 52):
unlike the visual arts, video is capable of recording and transmitting at the same time – producing instant feedback. The body [the human body] is therefore, as it were, centred between two machines that are the opening and closing of a parenthesis. The first of these is the camera; the second is the monitor, which re-projects the performer’s image with the immediacy of a mirror.
Benché la teoria della critica americana non sia scevra da connotazioni negative di genere legate alla teoria del narcisismo freudiano – questa metafora non è priva di una certa suggestione: per molte pioniere, il video diventa specchio per ri-flettere, esprimere e mettere in discussione paradigmi obsoleti di rappresentazione e reinventare un genere artistico, in dialogo con pratiche femministe contemporanee quali la performance art e l’installazione.
L’uso dello specchio, con il suo simbolismo e la sua profonda tradizione nel ritratto, ricorre in diverse opere che esplorano dichiaratamente o meno identità e rappresentazione.
Si veda ad esempio Vanitas (1977) [fig. 1] dell’inglese Tamara Krikorian (1944-2009), in cui si propone, come suggerito dal titolo, una riflessione sul soggetto della vanitas in relazione al genere dell’autoritratto, e in ultima analisi del video in quanto medium. Nell’opera, l’artista costruisce una complessa struttura di myse en abyme grazie a un gioco di specchi e multiple registrazioni su monitor, divenuto parte della natura morta. La Krikorian interrompe la trasmissione televisiva sul riflesso dello schermo e racconta della sua ricerca sul tema - citando le tele An Allegory of Justice and Vanity di Nicolas Tournier (1623-24, Oxford, Ashmolean Museum) e Vanitas Still-life with a Portrait of a Young Painter (1651, Leiden, Stedelijk Museum De Lakenhal) di David Bailly. Nel riferimento a quest’ultimo si intuisce la possibilità di considerare l’opera nell’ambito di quel genere che la storica dell’arte femminista Marsha Meskimmon nel suo The Art of Reflection (1996) definisce autoritratto ‘occupational’, che celebrando lo status professionale dell’artista donna scardina quel canone patriarcale che l’ha esclusa per secoli.
Un autoritratto in video che rientra in questa categoria è anche Doppelgänger (1979-1981) [fig. 2] della scozzese Elaine Shemilt (1954-). L’opera vede infatti l’artista stessa nell’atto creativo di dipingere il proprio autoritratto allo e sullo specchio, utilizzando il riflesso del feedback di un monitor nascosto alla telecamera e posto perpendicolarmente alla superficie riflettente. La Shemilt confronta quindi la tradizione doppiamente con il video e la pittura, con un riferimento sebbene certamente non voluto a immagini più antiche come le illustrazioni rinascimentali della Marcia registrata dal Boccaccio.
La posa allo specchio nondimeno affascina diverse videoartiste in quegli anni tra cui ad esempio Marion Urch che realizza The Fascinating Art of the Ritual Feast (1979) [fig. 3], in cui sovverte il genere dell’autoritratto esplorando l’imposizione dei canoni di bellezza femminili attraverso i media e l’industria della bellezza. Il volto della modella, spalle alla telecamera, è visibile riflesso nello specchio mentre con del trucco ne manipola l’aspetto, sfogliando alcune riviste femminili. Nell’audio sentiamo una voce maschile che descrive le gioie del realizzare una torta per una casalinga, rievocando un tema – già sollevato ad esempio da The Semiotics of the Kitchen (1975) di Martha Rosler – del ruolo di madre e casalinga a cui la donna è stata relegata per secoli. Con la tecnica del chroma-key, la Urch sovrappone frammenti di fotografie pubblicitarie femminili che gradualmente coprono lo schermo fino a obliterare la sua immagine in un crescendo. All’immagine riflessa con il volto dell’artista si sostituisce una serie di immagini stereotipate, a marcare il trionfo del mercato sull’identità.
I temi della bellezza e della rappresentazione femminile sui media e la manipolazione del corpo sono centrali nell’opera di molte videoartiste contemporanee tra cui la pioniera croata Sanja Iveković che ad esempio nel 1976 dedica a questi temi due lavori, realizzati nel famoso video-incontro di Motovun.
Make up-Make Down (poi registrato in una nuova versione a colori nel 1978) e Instruction N. 1 utilizzano la lente della telecamera come fosse uno specchio: l’artista si specchia nella lente e si rivolge direttamente all’invisibile audience, instaurando con essa un dialogo diretto.
In Instructions N. 1, in particolare Iveković – richiamando al contempo la cosmesi e la chirurgia estetica – tratteggia misteriosi segni sul suo viso per poi cancellarli fino a creare una maschera.
In entrambi i video, le mani dell’artista si configurano come elementi centrali, persino demiurgici, capaci di manipolare l’aspetto femminile, sfidando ancora una volta i canoni patriarcali.
La posa e in un certo senso l’operazione di modifica del proprio corpo ricorda anche Art must be beautiful, Artist must be beautiful (1975) di Marina Abramović, che confronta direttamente la telecamera, proponendo se non strettamente un occupational portrait un’azione che lega identità personale, professionale e tema dell’oggettificazione della bellezza nel mantra ripetuto dall’artista.
Tra gli esempi maggiormente conosciuti che definiscono il genere già nel titolo si annovera A Phrenological Self-portrait (1977) di Marianne Heske. L’opera impiega ‘riflessione’ e ‘sdoppiamento’ (Osswald 2003) che, come si evince dalle opere sopra esaminate, sono elementi ricorrenti nelle opere delle sperimentali degli anni Settanta e primi anni Ottanta. L’artista interagisce con un suo doppio registrato su un monitor, evocando il sistema del feedback e propone il tema del collegamento tra fattezze e aspetti caratteriali tramite una lettura ispirata alla frenologia.
Nella videoperformance Etre blonde dell’ungherese Klara Kuchta, lo specchio ricopre la tradizionale simbologia di apparenza e bellezza fisica. Tramite il gesto dell’artista che lo infrange, diventa frammento in cui non riconoscersi, in un drammatico climax crescente in cui la ripetizione del mantra «La beauté des cheveux c’est sa blondeur, être blonde c’est la perfection» (la bellezza dei capelli consiste nell’essere Biondi, essere Biondi è la perfezione) si distorce, segna la perdita dell’identità individuale in favore di una conformazione ancora una volta ai canoni di bellezza tradizionali. L’artista aveva affrontato questo tema anche in Biondo veneziano (1978), che propone una ricerca storica e al contempo attuale nella manipolazione dei capelli (sin dalla ricetta per la famosa tintura descritta dal Bembo) e quindi dell’apparenza femminile, come metafora della degenerazione del sistema socioeconomico capitalista.
Tra i tanti esempi di occupational portrait in video, possiamo identificarne una versione minimale in The Movotun Tape (1976) della artista croata Ziva Kraus. In questo caso, l’autoritratto è ridotto ai minimi termini, la mano dell’artista che disegna e dipinge e con il suo tocco segna il passaggio esistenziale in una testimonianza in video del hic et nunc.
Le mani sono centrali anche nella pratica dell’americana Nan Hoover che in opere come Landscape (1983) vengono mostrate così da vicino da simulare un paesaggio. Il critico Dieter Daniels (1991) ha commentato sull’opera: «[…] the hand is a self-portrait reduced to its most essential elements’. Questo autoritratto in chiave minimale mostra come l’artista ‘looked for ways of problematizing the appearance of the female body whilst negotiating new forms of visibility».
Un'altra tipologia di ritratto-video che possiamo proporre è quello del journey intimistico: nel video si sviluppa una narrazione che riflette sull’identità e rappresentazione dell’artista, focalizzandosi anche su tratti psicologici e personali. Si assiste nel corso dell’opera a un viaggio, un percorso, una narrazione che si sviluppa. Proponiamo di includere in questo genere Autoritratto in una stanza, documentario (1977) [fig. 4] di Anna Valeria Borsari.
Nell’opera l’artista esplora il proprio corpo in relazione allo spazio e alla tradizione artistica della sua rappresentazione. La Borsari delinea, infatti, seguendo le linee del proprio corpo, una versione al femminile dell’uomo vitruviano, da un lato ponendo in questione canoni di bellezza tradizionali che non comprendono il corpo femminile e dall’altro fornendo una rappresentazione, intima e dell’artista in absentia.
Un altro esempio di questa tipologia è Transit (1986) di Antonie Frank Grahamsdaughter, che investiga tra presente e passato, tra realtà e finzione l’identità femminile con un riferimento a quella figura della ‘wild woman’ delineata con lucidità dalla femminista Clarissa Pinkola Estés nel suo celebre Women who run with the wolves (1992).
Da questa brevissima disamina possiamo concludere che le pioniere si sono profondamente ispirate alle tecniche tradizionali, che stavano abbandonando in favore del nuovo mezzo video: un superamento questo che spesso avveniva durante un’educazione accademica ancora dedicata a quelle pratiche e dominata da un corpo docente prevalentemente maschile. Rivisitandone tropi e simboli le artiste confrontano e sovvertono i canoni che avevano escluso storicamente il contributo femminile alle arti visive.
*Questa presentazione è una rielaborazione del capitolo ‘Self/Portraits: The Mirror, The Self and The Other. Identity and Representation in Early Women’s Video Art in Europe’ in L. Leuzzi, E. Shemilt, S. Partridge (eds.), EWVA European Women’s Video Art in the 70s and 80s, New Barnet, John Libbey Publishing, 2020.
Bibliografia
R. Barilli, ‘Video-recording a Bologna’, Marcatré, n. 58-60, Maggio 1970.
C. P. Estés, Donne che corrono coi lupi, Feltre, Centro Internazionale del Libro Parlato, 2011.
R. Krauss, ‘The Aesthetics of Narcissism’, October, volume 1, Spring, 1976, pp. 50-64 .
S. Wilson, ‘Abstract Transmissions. Other Trajectories for Feminist Video’, in G. Jennings (ed.), Abstract Video. The Moving Image in Contemporary Art, University of California Press, 2015, 52-53.
M.Meskimmon, The Art of Reflection. Women Artists’ Self-portraiture in the Twentieth Century, London, Scarlet Press, 1996, pp. 27-32.
H. Westgeest, Video Art Theory: A Comparative Approach, Malden, MA, Wiley Blackwell, 2016.
D. Daniels, ‘How to use a pencil as a video camera’, in R. Perrée (ed.), Nan Hoover. Movement in Light, Rotterdam, Con Rumore, 1991, p. 72.
C. Elwes, Video Art: A Guided Tour, London, I. B. Tauris, 2005, p. 48.