2.4.Trame fluide: la ricerca di Irit Batsry fra materia, identità e senso delle immagini

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Il percorso di Irit Batsry è caratterizzato da un costante movimento fra luoghi, attività, tematiche e modalità di sperimentazione con l’immagine elettronica ma anche al confine con la fotografia e con il cinema, indagato in molteplici aspetti, fino alla matericità della pellicola usata e trattata in vari modi.

Nata nel 1957 a Ramat Gan in Israele, famiglia di origine irachena, dal 1983 Batsry si è spostata a New York (negli ultimi anni vive anche a Lisbona). Protagonista della scena videoartistica internazionale, il suo percorso nomade si snoda fra paesi e continenti e fra varie arti, sperimentazioni e attività. Pluripremiata, residente per creazioni e ricerche anche in Brasile, Francia, Italia, Canada (ha esposto in oltre trenta paesi e sue opere sono conservate, fra gli altri, al MoMA di New York e al Reina Sofia di Madrid) rivela nella sua opera – realizza video dal 1982 – un’attenzione alle questioni dello sguardo e dell’identità, un dialogo con alcuni cineasti e cineaste della modernità ma anche con artisti e artiste e con le loro poetiche e le loro riflessioni, e un uso di forme narrative e poetiche non canoniche e talvolta al confine col documentario e col video-saggio. Dalle sue opere ha anche tratto grandi fotografie esposte in gallerie d’arte.

Batsry ha studiato in Israele, all’Accademia di Belle Arti di Gerusalemme (dopo un apprendistato alla ceramica in un kibbutz). Qui si è dedicata all’autoritratto fotografico, e nello scivolare verso il cinema (non presente però in Accademia) si è iscritta a un corso di arte video. All’attenzione per forme e materiali, nella parte laboratoriale e creativa del proprio percorso formativo, si è intrecciata così una curiosità tecnica per le attrezzature presenti in Accademia: senza timore, e con la stessa attitudine artistica e una manualità esploratrice e creativa, la giovane Irit si mette a testare in solitudine la versatilità del video e, come avevano fatto i pionieri della videoarte, che allora lei non conosceva, inizia a sperimentare da autodidatta effetti, temporalità, fluidità dell’immagine elettronica. Questa duplice attitudine (manualità e sperimentazione tecnico-espressiva) si trova unificata dalla cifra dell’attenzione ai materiali, che siano creta o carta o l’immagine stessa, che per quanto evanescente e sfuggente come quella elettronica può essere trattata, modellata come Irit faceva con la ceramica, ricreata. Vedremo come questa artista, partita dal lavorare su materiali ‘concreti’, del resto mai abbandonati nei decenni successivi, operi oggi quasi prevalentemente sul dialogo fra oggetti (dalla pellicola a pannelli trasparenti) e luce, sulla soglia fra fotografia, cinema, arti plastiche. Del resto l’attenzione alle mani, al gesto, al fabbricare, è frequente anche nella sua opera più importante, These Are Not My Images (2000), con riferimenti espliciti al rapporto fra gesto quotidiano e costruzione del film. Qui alla sequenza della manipolazione della pellicola da parte di uno dei personaggi (la storia narra dell’espropriazione e centralizzazione di ogni ripresa da parte di un potere centrale, e della clandestina resistenza) si affiancano tanti diversi gesti: costruire un film, fabbricare un oggetto. Una punteggiatura fatta di mani che dipingono, vangano, lavano animali, inchiodano, scopano cortili, pettinano fibre, intrecciano capelli e reti, spargono acqua sui fiori e sciacquano panni variopinti. [fig. 1]

In Batsry e nel suo lavoro artistico è all’opera un’estrema cura per i dettagli, sia nella preparazione che nelle modalità di presentazione, lontana da qualsiasi idea (o ideologia) dell’amatorialità. Ogni immagine ripresa, in particolare in questa sua complessa opera monocanale (che ha una durata da lungometraggio e che richiede una visione in sala), è sottoposta a molte elaborazioni e a incessanti ritocchi, con effetti ogni volta diversi, come diversi sono il tempo e il ritmo impressi alla sequenza o al singolo frame. Anni di prove, di cesellature, finché non è l’immagine giusta a rivelarsi, a emergere, come in un processo fotografico analogico, e ad essere scelta. Una vera e propria tessitura che si fa e si disfa fino a trovare la giusta combinazione, la giusta ‘trama’. Stessa cura e stesso dialogo fra materiali e immagini nelle sue videoinstallazioni. Stessa cura per i testi (definibili forse come prosa poetica), intesi anche come parola da trasformare visivamente [fig. 2], e per la tessitura sonora.

Ma l’opera di Irit Batsry non ci parla solo del dialogo fra materia e immagini, e dell’importanza di stabilire una relazione di prossimità e intimità con le immagini stesse e la loro capacità di rivelarsi. Ci interroga anche sulla nozione di identità, di attraversamento, di spaesamento. Dalla terra natale a New York, e da lì in poi artista in residenza in vari paesi del mondo, mostre e premi e festival, una ricca bibliografia, retrospettive (come quella al Jeu de Paume a Parigi nel 2006, promossa in collaborazione col Festival International de Film des Femmes), artista perennemente in cammino, poliglotta, viaggiatrice consapevole e accorta, Batsry esplora le molte identità, l’idea di appartenenza (anche delle immagini), l’alterità, le alterazioni (anche dello sguardo). In dialogo esplicito con una serie di artisti e artiste: Godard, Marker, Maya Deren, Vertov in ambito cinematografico, ma anche con i videoartisti della lentezza, dell’intravisto. Fluttuazioni, più che opposizioni: fra l’io e il noi, fra il testo e l’immagine; fra presenza e assenza; fra ombra e luce; fra distruzione e costruzione; fra il qui e l’altrove. Fra memoria e oblìo. Gli attraversamenti e le soglie in Batsry sono anche quelli fra narrazione, video-saggio, road-movie, videopoema, in una fluidità e mescolanza fra generi.

E, soprattutto, riflessione sulla visione, anche attraverso i suoi disturbi e le sue fallibilità, le cecità (come dice l’artista) rispetto all’alfabeto visivo noto. Non a caso due opere di Batsry incentrate sui problemi della vista e della rappresentazione vedono l’uso di testi di Buckminster Fuller e di Alberto Giacometti: A simple case of vision, 1991, Giacometti's Scale, 1995. Nel video girato in India, These are not my images, il personaggio della guida sta perdendo la vista e si abitua ad uno stato di visione sfocato e alterato, che infine impara ad apprezzare, per la possibilità di “mescolare realtà e fantasia”.

Il cinema, in quest’opera, è anche (in modo indiretto ma consapevole) quello dello sguardo di Pasolini e Rossellini sull’India; ma in Batsry è presente anche nella videoinstallazione Set (Whitney Museum, 2004), fra le cui fonti Batsry indica il Godard del video Scénario du film Passion e che, in modo complesso e articolato, si riferisce appunto al set, come quello di Madame Satâ di Karim Aïnoutz, Ancora una volta riflessione sulla rappresentazione e sullo statuto delle immagini, come in These Are Not My Images, nella sua trama e nel suo testo in voce over:

 

Queste non sono le mie immagini. Anche se sono io che ho puntato la macchina da presa su questi ragazzi, e che ora cerco di animarli, di convincermi che c'è ancora vita in loro [...] Per me non c'è cinema senza intimità. L'anima delle immagini, la loro essenza, nasce dalla loro storia, dalla possibilità di vederle e rivederle, lasciando ogni volta tracce diverse sulla superficie della percezione…

 

Il processo di elaborazione del video ha ispirato anche una installazione, To Leave And To Take, 1997, percorso avvolgente fra immagini e materiali [fig. 3].

L’attenzione al cinema si rafforza e si articola ulteriormente nell’ultimo periodo, caratterizzato lunghi soggiorni a Lisbona, dove Batsry partecipa attivamente a progetti artistici e culturali e dove, nel suo luminoso atelier sulla riva del Tago e nel suo studio in città, crea opere esposte anche in centri e musei cittadini [figg. 4-5].

Se nelle installazioni, in particolare, Batsry svelava una specifica propensione a creare opere in cui la lavorazione di materiali poveri (carta, riso) accompagnava le proiezioni, nelle ultime opere il found footage (film di varia natura e provenienza, dal film scientifico all’home movie, e di diverso formato, trovati nei mercatini) diventa materiale plastico, e la pellicola viene lavorata come un nastro o inserita in particolari pannelli, forma volute in dialogo con la luce naturale o artificiale; crea riccioli e ricami attraversati da proiezioni; è disposta su tele, a formare quadri scanditi dai fotogrammi [fig.6], è presente in evocazioni architettoniche. Talvolta i fotogrammi stessi (in immagini astratte, ad esempio) compongono geometrie insolite; altre volte sono i titoli dei film o le tracce rimaste in coda a svelarsi nella loro ripetuta immobilità. Le materie prime sono la pellicola e la luce, anche nella mutevolezza del trascorrere del giorno, come nelle esposizioni in cui schermo e proiezione sono incarnati da finestre reali nei luoghi espositivi.

Una ricerca, quella di Batsry, attenta alla creazione di un linguaggio video non naturalistico, di effetti elettronici di grande suggestione e senso, ma anche attenta alla matericità e plasmabilità della pellicola, in vari modi ricreata ed esposta.

Alla fine in Batsry è sempre una questione di identità: identità nomade e fluida, da interrogare e da ripensare; terrestre e insieme aliena. E in ogni senso oltre i generi. Identità delle immagini, incerta, ambigua e mutante. Identità da creare, da costruire, da esporre alla nostra riflessione, con la pazienza, con l’impegno e con la responsabilità morale del pensiero e del gesto artistico.

 

Bibliografia

Aa.Vv., Irit Batsry, Traces of a Passage/Traces d’un passage, Editions du CICV, Montbéliard-Belfort, 1994.

S. Cargioli (a cura di), Immagini oltre. Incontri con Irit Batsry e Dominique Smersu, “I Quaderni di Ondavideo”, n. 10, Pisa, 2001.

I. Batsry, Hybrid Images, a selection from Neither Here Nor There and These Are Not My Images, Irit Batsry Studio, New York NY, 2003.

S. Lischi, ‘Œuvre, film, installation: These Are Not My Images de Irit Batsry’, Cinéma&Cie, n. 8, Fall 2006.