Negli anni Settanta molte artiste cambiano radicalmente il loro modo di pensare e fare arte adottando un approccio intermediale, non inteso come un processo mirato all’ottenimento di un’opera finita, bensì volto a un duplice percorso di conoscenza, ma teso da un lato all’analisi delle immagini e delle loro pratiche di produzione, dall’altro alla scoperta delle motivazioni profonde all’origine del proprio processo creativo, indipendentemente dal medium di volta in volta adottato. Le pratiche sperimentali di Valentina Berardinone sia nel campo delle arti plastico-grafiche che in quelle audiovisive sono in questo senso esemplificative.
Attraverso una metodologia d’indagine non solo interdisciplinare ma «transarchivistica» (Cavallotti - Virgili 2016; Cavallotti 2019) – volta cioè a mettere in relazione e rendere accessibili documenti, sculture, disegni e fonti audiovisive, talvolta inedite, provenienti da differenti corpus archivistici (Archivio Galleria Milano, Archivio privato di Valentina Berardinone, e Archivio Home Movies) – questo primo breve contributo si propone di iniziare a rileggere i temi centrali nella produzione dell’autrice alla luce dei nuovi materiali emersi dall’incontro delle nostre ricerche.
A partire dal libro d’artista L'arte dell'immagine. A mia immagine e somiglianza, una sorta di diario personale e al contempo un raffinato compendio poetico, emergono una serie di elementi ricorsivi di tutto il lavoro di Berardinone. In questo storyboard alla rovescia i disegni ottenuti ricalcando i fotogrammi dei suoi film così come le tracce delle sue sculture, rendono evidenti una serie di passaggi mediali volti a catturare l’origine interiore di una idea visiva, del «desiderio» di catturare un’immagine nel movimento «incessante» del mondo (Berardinone 1978, s.p.).
Il volume nasce dal recupero di appunti, poesie e materiali vari accumulati nel corso di due anni, inizialmente prodotti a margine della produzione artistica vera e propria e poi, successivamente, ritenuti parte integrante di essa: «un giorno mi sono accorta che “il margine” risultava importante quanto la “cosa marginata” […]. Così, piano piano, tutti questi fogli sono slittati dai bordi delle mie osservazioni al centro del mio interesse». Diviene allora un vero e proprio viaggio dove sono messi in dialogo materiali privati ed intimi come fotografie di famiglia, note, battute colloquiali e interrogativi che hanno a che vedere con l’immagine, la somiglianza, l’apparenza, la propria posizione nel mondo. Il risultato è volutamente ambiguo, perché più che assertivo vuole mantenersi su un piano interrogativo: «l'interruzione diviene il divenire e l'immagine latente l'unica possibile evidenza: un continuum di false somiglianze e di ambiguità rivelate, di interrogativi e di desideri, di confessioni censurate e di censure confessate, il tutto a costituire, sotto mentite spoglie, “L'arte dell'immagine”» (Berardinone 1978, s.p.).
I materiali qui raccolti si rivelano una indispensabile chiave di lettura per comprendere tutta la produzione di Berardinone, anche dei decenni a venire. L’aspetto è composito, ai caratteri dattiloscritti si alterna la mano libera, insieme a disegni, fotografie, progetti, ritagli e fotogrammi, esprimendo una «indifferenza della presentazione», un «rifiuto sistemico di fare un’opera» – come individua Filiberto Menna – al fine di portare il discorso su un piano che è prettamente mentale (Menna 1976, s.p.). Anche il layout è vario: tra i fogli di carta quadrettata – per altro, già visti anche nel suo film del 1972 Letture n. 3 – ne sono inseriti alcuni di carta velina, dove sono riportate le impronte della mano destra dell’autrice: pagina dopo pagina, sono riprodotte le cinque dita e il palmo – essendo la superficie trasparente, il lettore ha l’illusione di vedere la mano nella sua interezza – e poi, improvvisamente, la mano sinistra, rovesciando il gioco e al contempo rivelando che si tratta solo di un’illusione [fig.1]. Questa progressione è da collegarsi al problema dell’autorappresentazione e alla somiglianza impossibile, che è tematizzata in tutto il libro. «Tutto quello che indovino è nella mia mano, tutto ciò che non posso dire dico, tutto ciò che è la mia memoria è il mio futuro – e questo non è gusto dei contrasti ma consapevolezza» (Berardinone 1978, s.p.), chiosa l’artista nella pagina seguente: la verità è sempre soggettiva e il suo unico luogo possibile è la memoria.
Il discorso sulla somiglianza è indagato in molte delle opere di questi stessi anni, con slittamenti significativi: in Immagine, del 1975, l’immagine di una goccia è analizzata in quattro stadi diversi in progressione, mettendo a confronto disegno e copia fotostatica, così come in Quattro momenti della ‘cosa’, dello stesso anno, dove alle medesime immagini sono denominati a penna i differenti stadi: «reperto - immagine - calco - traccia», ovvero i quattro ‘momenti’ del titolo. L’utilizzo della Xerox, proprio grazie alla sua capacità di reiterazione, permette un’indagine analitica che si apre a molteplici «decantazioni dell’immagine» (Dorfles 1977, s.p.), così come il calco, individuato qui come uno degli altri quattro stadi, consente un’ulteriore messa alla prova.
Nell’ottobre del 1976 realizza Resemblances [fig. 2], dove ritorna ancora la goccia, questa volta riproposta tridimensionalmente attraverso la resina epossidica, a cui fa da contraltare il calco in gesso scavato nello stesso, e bidimensionalmente, ancora attraverso la copia fotostatica e il disegno su legno. Ha commentato l’artista, in conversazione con chi scrive [Bianca Trevisan nda]: «il calco della è goccia irrealizzabile, questo lavoro è sulla presenza e, al contempo, sull’impossibilità».
Tale impossibilità è tematizzata in La somiglianza è un furto [fig. 3], del 1978, dove ad essere giustapposti sono i calchi di due impronte digitali: ancora, Berardinone torna a riflettere sull’identità, la propria, sviluppata anche in Quintetto per mano destra, dello stesso anno, composta da cinque scatole in cartone contenenti tavolette di gesso con le proprie impronte digitali. Disegno, fotocopia, calco, gioco di trasparenze, mettono lo spettatore di fronte ad un’immagine che è sempre inconoscibile nella sua interezza. In questo senso possiamo considerare un punto d’arrivo Le mensole [fig. 4], dove le tavolette di gesso riportanti le impronte della mano sono spaccate a metà. L’immagine è rotta, frammentata e, come spiega Berardinone in apertura alla pubblicazione, la sua stessa mano diviene strumento mnemonico o, meglio, «oggetto di memoria», riflesso del soggetto «che nell’affermarsi-imprimersi si allontana e si divide» (Berardinone 1979, s.p.). Svincolarsi dal meccanismo di rappresentazione è, in definitiva, una forma di liberazione: «libera da ogni tipo di calcolo, posso anche disegnare e scrivere che l’immagine è la forma del desiderio, che la dissimulazione è l’unica evidenza, che la somiglianza è un furto» (Berardinone, 1976, s.p.).
Somiglianza, desiderio e autorappresentazione tornano anche nella produzione filmica di Berardinone. D’altra parte, come si è avuto già modo di indagare (Malvezzi 2020), la sua metodologia intermediale trova un momento chiarificatore, spesso all’inizio dell’iter creativo, nell’uso della cinepresa come strumento esplorativo, di inseguimento di una traccia: «parto da un fatto visivo che mi sembra possa aderire alla mia “libido profonda” e al mio desiderio di espressione. Poi filmo cercando di seguire questa traccia» (Berardinone 1981, pp. 132; 135-136).
In tutta la produzione filmica dell’artista, Imago (1975, Super8, b/n, 10’) è certamente la pellicola che meglio esplicita i discorsi sul desiderio profondo dell’immagine e sulla possibilità di afferrarla, ma anche sul rapporto tra identità e somiglianza, attraverso l’uso di una serie di elementi gestuali e di oggetti significanti che vengono agiti. Va precisato che le tracce lasciate sulla materia o tratteggiate nello spazio da gesti compiuti con le mani sono presenti anche in altri suoi film precedenti a Imago (Letture n.3, Urbana), ma da questo in poi assumono un ruolo centrale nella sua produzione, dai lavori plastici e grafici di cui sopra fino al suo ultimo film, Superficiale (1982, Super8; col, 12’45’’) vero e proprio inno alla ‘apticità’ dell’immagine cinematografica (Marks, Polan 2000).
In una sequenza programmatica di Imago Berardinone riprende le sue stesse mani mentre compiono i gesti dello sviluppo fotografico – si badi, sono azioni della quotidianità dell’artista che insegnava fotografia – ma che qui vengono eseguiti come in una pantomima, cioè senza i supporti materiali. Ancora una volta all’artista non interessa ottenere un’immagine compiuta, ma fare un discorso sulla latenza dell’immagine, sull’impossibilità di catturarla nel suo compiersi. Ciò che resta è la traccia lasciata dai gesti che, modificando la superficie del liquido nella vaschetta, fanno dello stesso riflesso della luce nel bagno di sviluppo un’immagine latente, materialmente inafferrabile [fig. 5]. Un gioco di riflessi e impronte rafforzato, come lei stessa spiega, dalla presenza della parola scritta:
Questo film […] è nato in strettissima consonanza con la mia ricerca plastica. Il tema infatti è quello dell'analisi dell'immagine, delle sue ambiguità, complicità, rimandi. Poter girare delle sequenze sfruttando il fattore tempo - interruzione - memoria mi ha dato la possibilità di osservare meglio la “modificazione” di un’immagine/evento e approfondirne i significati, e di porre il problema tra “rappresentazione” e “rivelazione” in termini di domanda aperta. Alcune didascalie appaiono nel film; esse hanno il carattere di “parole filmate”, partecipano cioè anche esse all’IMMAGINE, pur avendo un loro senso letterale ben preciso. (Berardione in Fagone 1978, p. 11)
Le «parole filmate» come anche tutta una serie di immagini private presenti nel film – il figlio Alessandro da piccolo, il volto di un’amica, un grande poster di Alain Delon – che vengono manipolate direttamente con le mani e che ritornano in L'arte dell'immagine. A mia immagine e somiglianza [figg. 6-8], concorrono a ‘deconcettualizzare’ il discorso e a riportarlo sul piano dell’empirico, della ricerca – personale – di un universale. Come hanno evidenziato Detassis e Grignaffini in un’intervista all’artista, la sua non è solo una ricerca «del senso dell’immagine» ma anche «il proposito di utilizzare l'immagine come ricerca del tuo senso. Come se non esistesse nessun “al di là” delle immagini, come se non esistesse nessun significato ultimo delle cose» (Detassis - Grignaffini 1981, p. 132). Ed ecco l’importanza ultima del ricalco a mano, così presente nel libro, anche e soprattutto in rapporto ai fotogrammi dei suoi film:
Il disegno a mano, anche il più fedele, rimanda alla mano di chi lo ha disegnato […] Il cinema invece, pur essendo fotografia, restituisce anche il movimento e lo spessore degli oggetti. E proprio attraverso il movimento può sottolineare il rapporto tra te che guardi e la persona/cosa guardata. Anche se si tratta di un rapporto unilaterale. (Berardinone 1981, p. 133).
La riflessione di Berardinone sulla somiglianza porta costantemente all’inattuabilità dell’uguale: le immagini, passando da un media all’altro, non sono altro che il banco di prova di tale consapevolezza. L’identità e il riconoscimento del soggetto si trovano e ritrovano nelle pause, negli interstizi, nelle fratture, congelati nel territorio dell’eterna possibilità. Il desiderio, d’altra parte, è costantemente alimentato dalla sua stessa insoddisfazione: «avevo detto che l’immagine è la forma del desiderio. Ma se, strada facendo, il desiderio avesse perduto il suo oggetto?» (Berardinone 1978).
* Pur essendo il contributo frutto di un lavoro sinergico, le parti relative ai lavori audiovisivi sono state scritte da Jennifer Malvezzi; quelle relative ai lavori plastici e grafici sono invece di Bianca Trevisan.
Bibliografia
F. Menna, ‘Sulle tracce dell'immagine’, Documenti d'oggi, 3-4, 1976.
V. Berardinone, Valentina Berardinone. Sulle tracce dell’immagine, catalogo della mostra, Genova, Galleria Unimedia, 1976.
G. Dorfles, Valentina Berardinone, testo critico riportato sull’invito alla mostra, Roma, Lastaria Galleria d’arte, 1977.
V. Berardinone, [scheda film], in V. Fagone (a cura di), La tradizione del nuovo, Imago, II, 2, aprile 1978, p. 11.
V. Berardinone, L'arte dell'immagine. A mia immagine e somiglianza, Macerata, La Nuova Foglio, 1978.
V. Berardinone, Le mensole, catalogo della mostra, Milano, Galleria dell'Ariete, 1979.
‘Conversazione con Valentina Berardinone’, in P. Detassis, G. Grignaffini (a cura di), Sequenza segreta. Le donne e il cinema, Milano, Feltrinelli, 1981, pp. 131-139.
L. U. Marks, D. Polan, The Skin of the Film: Intercultural Cinema, Embodiment, and the Senses, Durham, Duke University Press, 2000.
D. Cavallotti, E. Virgili, ‘Queering the Amateur Analog Video Archive: the Case of Bologna’s Countercultural Life in the 80s and the 90s’, Cinema&Cie, 26-27, 2016, pp. 91-105.
D. Cavallotti, ‘Transarchivio. Note sul rapporto tra archivi e controcultura’, Zapruder,47, pp. 116-123.
J. Malvezzi, ‘Silent Invasion(s). Appunti per la riscrittura della storia del cinema d’artista a partire dall’archivio privato di Valentina Berardinone’, in D. Cavallotti, D. Lotti, A. Mariani (a cura di), Scrivere la storia. Costruire l’archivio, Milano, Meltemi, pp. 547-565.