3.1. Le recensioni cinematografiche sul Bargello

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  • Un istinto da rabdomante. Elio Vittorini e le arti visive →

 

Nell’ambito della assidua collaborazione al Bargello, la quale accompagna in modo assai significativo la maturazione culturale e politica del Vittorini degli anni Trenta, un posto più di nicchia – ma certo non privo di interesse ai fini di una complessiva ricostruzione dei rapporti dello scrittore con le arti visive – è occupato dalle recensioni cinematografiche che in periodi diversi (nel 1932 e poi nel 1936-’37) vengono da lui destinate alle pagine della rivista. Il primo gruppo di testi è esplicitamente legato ad un’‘occasione’ specificamente fiorentina, la costituzione di un Cine Club domenicale in città, che invoglia Vittorini a fare un po’ di critica cinematografica sui film d’essai. A ridosso dell’esordio della nuova rubrica, non senza qualche estremizzazione, lo scrittore scrive a Quasimodo di essere ormai passato dalle recensioni di libri a quelle dei film per sfuggire alle pressioni dei troppi gerarchi aspiranti scrittori («non recensisco più libri. Mi sono dato ai films»), anche se in realtà gli interessi letterari continueranno, parallelamente a quelli cinematografici, a caratterizzare la sua attività di collaborazione al Bargello fino alla fine del rapporto con la rivista.

Nell’aprile del 1932, il primo film proiettato al Cine Club ad attirare l’attenzione vittoriniana è Ronny di Reinhold Schünzel [fig. 1], produzione tedesca del 1931 che avrà anche una versione francese con la co-regia dello stesso Schünzel. La pellicola dà occasione al recensore di riflettere sui rapporti tra dimensione teatrale e dimensione cinematografica e sull’auspicabile affrancamento di quest’ultima dalle convenzioni da palcoscenico che inficiano invece il film preso in esame, nel quale anche il parlato si risolve «in senso didascalico, esplicativo; cioè teatrale» (Vittorini 2008, p. 585). Sono piuttosto i film di Clair, pur ‘operettistici’, ad essere presi da Vittorini ad esempio di come un’opera «dovrebbe dare nell’espressione cinematografica qualcosa di molto diverso che non possa dare nella comune espressione di palcoscenico» (ibidem): emerge già la fascinazione vittoriniana per la ricerca del dire ‘diversamente’, del dire ‘di più’, che guiderà molte ‘scommesse’ culturali e artistiche dell’autore anche nel campo dei rapporti tra scrittura e immagini.

Quindici giorni dopo, la lettura cinematografica di Vittorini si rivolge ad un film documentario della British International Pictures, diretto nel 1931 da Walter Summers (Men like these) dedicato al salvataggio di un gruppo di marinai intrappolati in un sottomarino, e rispetto al quale lo scrittore apprezza la risoluzione in un registro narrativo di fantasia di elementi realistici (da cui l’Istituto Luce avrebbe dovuto – a suo parere – prendere esempio), secondo la lezione di certo cinema russo capace di esprimere una dimensione poetica anche attraverso la forma documentaristica. Il riferimento alla poeticità come valore anche sullo schermo ricorre in più casi nelle recensioni cinematografiche di Vittorini che ad essa riconduce l’armonia del «movimento» quale cardine espressivo ed estetico, in base ad un nascente canone critico specificatamente filmico che non può più appoggiarsi agli elementi propri della critica teatrale («soggetto, tecnica, recitazione», p. 599).

A parere dello scrittore, manca appunto di questo fluido «senso di divenire che è proprio della visione cinematografica» (p. 590) un’altra a suo tempo celebre pellicola semidocumentaristica tedesca proiettata a seguire al Cine Club di Firenze, La melodia del mondo di Walter Ruttmann, la quale, per spunti tematici, vorrebbe restituire un’ideale antologia degli usi e costumi dei diversi popoli del mondo.

Intaccano colpevolmente la continuità del movimento filmico anche i tagli della censura, cui il Vittorini ‘cinematografaro’ del Bargello dedica un paio di settimane dopo un pezzo carico di rimostranze, prevalentemente estetiche, per le maldestre sforbiciate degli addetti a questo compito, incuranti se il taglio «rompa o no il tempo, se alteri o no il ritmo» (p. 591). Le proiezioni del Cine Club permettono invece al pubblico di godere di film d’autore nella loro estensione integrale, come accade in quella cineclubica primavera fiorentina del ’32 per le programmazioni di A nous la liberté di René Clair e Kameradschaft di Georg Wilhelm Pabst [figg. 2-3], usciti entrambi nel ’31. Le riflessioni di Vittorini sui due film e i due maestri sono affidate a due diversi numeri della rivista e differiscono non poco nell’impostazione del discorso critico: a più ampio respiro si mostrano le considerazioni su Clair, del quale – a supportare le argomentazioni dell’articolo – vengono ricordati molti titoli (Paris qui dort, Entr’acte, Il cappello di paglia di Firenze, I due timidi, Il Milione, Sotto i tetti di Parigi) fino all’ultimo A nous la liberté di cui Vittorini apprezza la perfetta armonia di visivo e sonoro che si fondono senza giustapporsi. Figlio di un Europa che – a differenza degli Stati Uniti – non conosce il gusto ingenuo del cinema, Renè Clair fa dei suoi film un prodotto di cultura e di coscienza critica, debitore della lezione di tanti maestri, primi fra tutti Ernst Lubitsch per l’aspetto sonoro e Chaplin per quello visivo, filtro – quest’ultimo – attraverso il quale il francese veicola gli stessi riferimenti pittorici a lui cari.

Anche il cinema di Pabst viene inquadrato a più ampio respiro dal Vittorini recensore, che mette in dialogo le proprie considerazioni sul cinema (anche in riferimento al precedente articolo su Clair) con le conclusioni affidate da Paul Rotha al volume The film till now, in cui Pabst viene posto ai vertici della cinematografia internazionale insieme ad Ejzenstejn. Titolo di merito del regista austriaco di Kameradschaft è la finezza nella gestione «di ritmo, di tempo, di movimento» (p. 596), anche se la stessa non riesce ad eguagliare i livelli di film come La febbre dell’oro di Chaplin o Ombre bianche di Van Dyke; e Kameradschaft «è tra i film di Pabst quello che meglio rivela lo stringente ritmo di quest’arte» (p. 597), soprattutto attraverso i rimandi ad ambientazioni in esterni rispetto alla tragedia della miniera franco-tedesca rappresentata nella pellicola.

A chiudere la piccola rassegna di veloci ritratti di grandi registi confezionati attraverso la forma della recensione è un articolo sul Doctor Jekyll dell’armeno Rouben Mamoulian [fig. 4], film poco apprezzato da una critica incapace di rinnovarsi e che continua a valutare il cinema con metri teatrali e non col metro della poesia data dal movimento. Vittorini ritorna dunque sulla poeticità della rappresentazione filmica, che la pellicola di Mamoulian restituisce soprattutto nella descrizione della figura femminile o tramite l’uso della soggettiva, con una armonia complessiva che si pone ben al di sopra del ‘mestiere’ dimostrato dallo stesso Mamoulian in Vie della città. Tra lo scritto su Pabst e quello su Mamoulian Il Bargello ospita anche una breve recensione di Vittorini ad un libro italiano sul cinema, che in qualche modo fa gruppo con la serie di articoli di argomento cinematografico usciti nel 1932. Il volume in questione è Cinema ieri e oggi di Ettore Margadonna (Milano, Domus, 1932), fototesto che, attraverso immagini e scrittura critica, delinea un panorama del cinema in grado di stare al pari con altri precedenti libri stranieri (Charensol, Moussinac, Rotha). Agli occhi del recensore Vittorini ne emerge una forte differenziazione tra la mentalità standardizzatrice del cinema americano e il forte potere suggestivo dell’arte che governa la produzione dei russi. Senza tentare di costruire una specifica estetica del cinema, Margadonna riconosce alcune opere filmiche russe, americane ed europee come prodotti di arte e bellezza, in un elenco che contempla i principali registi già presi in considerazione dal Vittorini che scrive di cinema, ma ai quali lui dichiara che avrebbe senz’altro aggiunto Show-boat di Harry A. Pollard, Front-page di Lewis Milestone e The love-parade di Ernst Lubitsch. Un’appendice a questo scritto, ideale prolungamento dell’impegno ‘cinematografico’ vittoriniano del 1932, apparirà nel gennaio del 1933 su L’Italia letteraria a seguito delle insistenze dello scrittore con Falqui perché gli assicurasse la recensione del testo di Margadonna (e l’invio del libro assai costoso da parte della casa editrice). Più severa che non sul Bargello è la presentazione di questo libro da lui fatta per i lettori dell’Italia letteraria, ai quali argomenta chiaramente e puntualmente il valore storico e critico assai sommario del lavoro, ritornando con proprie considerazioni anche sul concetto di opera d’arte applicabile al cinema e concludendone come l’unico autore che possa fregiarsi di fare arte sia in realtà il solo Chaplin.

Dopo questa lunga escursione nei territori del cinema d’essai datata 1932, il Vittorini del Bargello riprende ad occuparsi di film nel novembre del 1936, da posizioni politiche ormai fortemente eterodosse che coincidono con la puntuale adozione di pseudonimi posti a firma degli articoli. Nei ‘pezzi’ cinematografici, Elio diventa così Bellarmino, permettendo alla direzione della rivista di imputare ad altri (a Vasco Pratolini, ad esempio) la stesura delle recensioni scritte in realtà da Vittorini. Bellarmino non si occupa più di film da cineclub ma di pellicole distribuite nei circuiti ordinari con un cambio di passo che allontana dagli scritti vittoriniani ogni riflessione su una possibile estetica dell’opera filmica e che lo fa infatti esordire dichiarando come – a suo parere – il cinematografo abbia ormai dimostrato di non poter essere più e completamente vera arte e come esso possa tuttavia utilmente ricavarsi un ruolo ancillare rispetto alla cultura alta. Lo spunto glielo dà la Vita del dottor Pasteur (1936) di William Dieterle, biografia cinematografica da prendere ad esempio anche in Italia per la capacità nel restituire il pensiero – e non banalmente la vita – del personaggio rappresentato.

Le riflessioni più interessanti affidate a questo secondo gruppo di articoli sul cinema sono contenute in uno scritto su Becky Sharp di Mamoulian che, con il titolo Il colore del cinema, confluirà poi in forma più duratura nel Diario in pubblico [fig. 5]. La sapiente regia dell’autore armeno fa sì che il colore si fonda al movimento senza giustapposizioni, in un’armonia che il Vittorini del ’32 individuava nella felice fusione di visivo e sonoro dei film di Clair. Rispetto al visivo e al sonoro, il colore viene teorizzato da Vittorini come terza espressione del movimento filmico e pertanto se usato con maestria – come nel caso di Mamoulian – non si offre con staticità fotografica, in posizione di dipendenza dall’immagine, ma con un dinamismo tutto cinematografico, autonomo ma perfettamente integrato col movimento dei suoni e delle stesse immagini.

Dopo questo articolo sul film a colori (da Vittorini inaspettatamente chiuso con un’incongrua battuta velenosa nei confronti di Mastroianni) l’impegno dello scrittore-recensore si affievolisce in pezzi giornalistici poco incisivi che scivolano frettolosamente da un film all’altro. Sempre nel novembre 1936 egli trova così modo di accennare a Giovacchino Forzano che in quell’anno con Tredici uomini e un cannone porta in Italia la grammatica cinematografica del movimento, mal declinata invece in Due sergenti di Enrico Guazzoni e nel Conquistatore dell’India di Richard Boleslawski. Intensità narrativa e bellezza estetica, non fusa però nel succedersi della vicenda, cercherebbero – secondo Vittorini – una difficile armonia in Bozambo di Zoltan Korda (UK, 1935), mentre rinuncerebbe ad inseguire questo difficile connubio il coevo e riuscito Gli ammutinati del Bounty (La tragedia del Bounty) di Frank Lloyd. Si tratta di giudizi veloci che offrono al lettore solo una indicazione di massima sui film presi in considerazione, come nel caso dell’opinione positiva espressa nel dicembre successivo su La Bandera (1935) di Julien Duvivier, pellicola di gran classe ma poco fortunata, in cui il regista restituisce la lentezza di analisi dei grandi romanzieri ponendosi al livello del Pierre Chenal di Delitto e castigo; o dell’opinione negativa riservata invece alla ricchezza puramente decorativa de I lancieri del Bengala di Henry Hathaway (salvato solo dalla popolarità di Gary Cooper), e alla lentezza irritante del melodrammatico Il desiderio del re di Joseph von Sternberg (1936) dedicato all’abusata vicenda storico-sentimentale di Francesco Giuseppe e Sissi di Baviera; ed è rispetto all’inutile prolissità dei due film precedentemente citati (ben distante dal respiro narrativo lungo di La Bandera) che viene al contrario valorizzata da Vittorini la positiva movimentazione di Il domatore di donne di Tay Garnett, serrato e dinamico come Vie della città di Mamoulian.

Nel gennaio del ’37 uno spiraglio di interesse viene dedicato dallo scrittore a pellicole italiane del ’36, messe tuttavia in fila in una carrellata per lui deludente che comprende: L’idiota che sorride (erroneamente chiamato L’uomo che sorride) di Mario Mattioli, con interprete un De Sica poco apprezzato da Vittorini («con quel tal ganzo della borghesia, come si chiama?, De Sica», p. 1053); il Pensaci, Giacomino di Gennaro Righelli, con protagonista un Angelo Musco assolutamente fuori dall’atmosfera pirandelliana; l’oleografico Corsaro Nero di Amleto Palermi. Ma questo frettoloso Vittorini delle recensioni 1936-’37 non risparmia strali neanche al grande cinema straniero, ed in particolare a L’angelo delle tenebre (1935) di Sidney Franklin (colpevole di non riuscire a rinnovare i fasti lacrimogeni della Famiglia Barret del 1934); al dickensismo di quart’ordine del Lord Fountleroy di John Cromwell; alla «categorica banalità» di Stenka Rasin (I cosacchi del Wolga) di Alexandre Volkoff (1936); agli «sgambetti di cretineria» (ibidem) di Sarò tua (1936) di William A. Seiter (film fatto oggetto di citazione in giudizio della Columbia Pictures da parte di Frank Capra, risentito per il fatto che le copie inglesi della pellicola portassero per errore il suo nome come regista). Meritano qualche parola in più del recensore Primo amore (1935) di George Stevens, intrattenimento per giovanette in cui per Vittorini è forse da valutare positivamente solo l’interpretazione di Katherine Hepburn, e il film danese L’imperatore della California di Louis Trenker, regista tedesco che imita paradossalmente due cineasti ebrei come Vidor e Murnau, e che in questo caso è anche sceneggiatore ed interprete della pellicola, nonché per essa vincitore a Venezia della Coppa Mussolini. A fine articolo (17 gennaio 1937) il recensore cita anche di sfuggita Il fantasma galante di Clair ed È arrivata la felicità di Capra, film sui quali tornerà in un pezzo breve di fine mese, che della pellicola di Capra, eccessivamente sdolcinata nell’ostentato trionfo di bontà e beneficenza, salva soltanto la recitazione di Gary Cooper.

L’unico articolo uscito a firma di Vittorini-Bellarmino nel febbraio del 1937 si distingue per alcune riflessioni riferite in particolare ai diversi modelli attoriali e interpretativi rappresentati da Miriam Hopkins ed Edward Robinson, protagonisti del film La costa dei barbari (1935) di Howard Hawks [fig. 6]. L’una incarnante un tipo sempre uguale a se stesso e perciò chiaramente riconoscibile, come le maschere della Commedia dell’Arte; l’altro, invece, estremamente versatile, pronto ad ogni ruolo, attore ottocentesco forse non più al passo con le esigenze cinematografiche. La pellicola di Hawks si gioverebbe, secondo Vittorini, pure di una buona capacità di «costruzione atmosferica», ovvero di costruzione dell’atmosfera di determinati ambienti, elemento di valore anche nel caso in cui il regista si trovi magari a ripetere cose già espresse da altri. Del tutto privo di queste «qualità atmosferiche» (p. 1055) si presenta invece il poco convincente Sotto due bandiere (1936) di Frank Lloyd, incomparabile con la superiorità di Nostri parenti di Harry Lachman, interpretato magistralmente da Stan Laurel e Oliver Hardy, il significato umano della cui straordinaria comicità Vittorini si propone di prendere in esame presto da quelle stesse colonne del Bargello. Non lo farà mai, ma un intervento sulla forza attoriale dei due comici avrebbe senz’altro costituito un tassello interessante della storia del Vittorini recensore cinematografico della rivista, e magari una chiusa di quella collaborazione più incisiva dell’ultimo articolo (14 marzo 1937) frettolosamente dedicato a tre film con grandi movimenti di masse, ma di scarsa presa – ancora una volta – non tanto sul pubblico, quanto sullo scrittore nelle vesti di esigente critico dello schermo (La carica dei seicento di Michael Curtiz, San Francisco di Van Dyke, I cavalieri del Texas di King Vidor).

 

Bibliografia:

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E. Vittorini, ‘[«Men like these»]’, Il Bargello, IV, 19, 8 maggio 1932, ora in LAS, pp. 587-588.

E. Vittorini, ‘La melodia del mondo’, Il Bargello, IV, 20, 15 maggio 1932, ora in LAS, pp. 589-590.

E. Vittorini, ‘La censura – Film di Clair’, Il Bargello, IV, 23, 5 giugno 1932, ora in LAS, pp. 591-595.

E. Vittorini, ‘[G.W. Pabst] – Kameradshaft’, Il Bargello, IV, 27, 3 luglio 1932, ora in LAS, pp. 596-598.

E. Vittorini, ‘Un panorama del cinema’, Il Bargello, IV, 48, 27 novembre 1932, ora in LAS, pp. 578-580 (recensione al libro di Ettore Margadonna, Cinema ieri e oggi, Milano, Domus; recensione replicata in forma diversa dallo scrittore, con il titolo ‘Cinema ieri e oggi’, su L’Italia letteraria, V, 4, 22 gennaio 1933, ora in LAS, pp. 632-637).

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E. Vittorini, ‘Insegnamento di un film’, Il Bargello, IX, 2, 8 novembre 1936, ora in LAS, pp. 988-990.

E. Vittorini, “Becky Sharp” e il film a colori’, Il Bargello, IX, 3, 15 novembre 1936, ora in LAS, pp. 991-993 (poi anche, con il titolo Il colore nel cinema, in Id., Diario in pubblico [1957], a cura di F. Vittucci, Milano, Bompiani, 2016, pp. 81-82).

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E. Vittorini, ‘[Cinema]’, Il Bargello, IX, 5, 29 novembre 1936, ora in LAS, pp. 998-999.

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E. Vittorini, ‘[Cinema]’, Il Bargello, IX, 12, 17 gennaio 1937, ora in LAS, pp. 1053-1054.

E. Vittorini, ‘[Cinema]’, Il Bargello, IX, 14, 31 gennaio 1937, ora in LAS, p. 1054.

E. Vittorini, ‘[Film della settimana]’, Il Bargello, IX, 15, 7 febbraio 1937, ora in LAS, pp. 1054-1056.

E. Vittorini, ‘[Cinema]’, Il Bargello, IX, 20, 14 marzo 1937, ora in LAS, p. 1071.