3.4. No room for the (black female) avant-garde? Il cinema di Julie Dash

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I didn’t wake up one morning feeling dissatisfied.

These feelings just became more and more intense,

until by the time the sixties ended I’d look in the mirror

and see two faces, knowing that on the one hand I loved

being black and being a woman, and that on the other it was

my colour and sex which had fucked me up in the first place.

Nina Simone

 

Stati Uniti, fine anni Sessanta, essere donna e nera. Nina Simone scrive Four Women, quattro donne, generazioni diverse, dalla schiavitù di Aunt Sara (My back is strongenough to take the pain) alla pelle schiarita (my skin is yellow) della mulatta Sofronia, nata dalla violenza dell’uomo bianco, alla prostituta Sweet Thing (My hips invite you) fino a Peaches, fiera e intransigente, trasfigurazione dell’autrice (I'll kill the first mother I see / my life has been too rough/I'm awfully bitter these days / because my parents were slaves). Pubblicato nel 1966 nell’album Wild is the Wind, Four women anticipa in qualche modo nel campo artistico quella pratica della genealogia femminile che sarà poi introdotta dalla psicanalista femminista Luce Irigaray a partire dalla conferenza di Montreal Le corps à corps avec la mère del 1980. La genealogia individuata da Irigaray è duplice: una basata sulla procreazione, che lega direttamente alla madre e alle generazioni di donne precedenti, seguendo la linea della maternità; l’altra basata sulla parola, sulla produzione culturale femminile del passato.

Qui entra in scena Julie Dash, nata a New York nel 1952, che nei primi anni Settanta si trasferisce a Los Angeles per studiare Etno-Communications all’UCLA, dove aderisce al gruppo che sarà poi chiamato ‘L.A. Rebellion’, formato tra gli altri da artisti, critici e cineasti indipendenti di origine africana e caraibica come Teshome Gabriel, Haile Gerima, Jacqueline Frazier, Jamaa Fanaka and Barbara McCullough. Nel 1975 Dash realizza il cortometraggio sperimentale in 16mm a colori con lo stesso titolo, Four Women, dove la danzatrice afroamericana Linda Martina Young interpreta le quattro donne cantate da Nina Simone. Young danza e recita, nel prologo, l’inizio della storia delle nere in America con il corpo imbrigliato in un velo che si articola tra gesti di liberazione su uno sfondo sonoro di acqua, tamburi e fruste. Quando la musica di Nina Simone comincia, Young veste i panni delle quattro donne, compiendo un percorso di emancipazione che muove dalle braccia serrate di Aunt Sara intorno al proprio corpo, fino allo slancio liberatorio di braccia e gambe di Peaches [figg.1-3]. La cinepresa di Dash, che inquadra e restituisce attraverso un montaggio serrato questa metamorfosi genealogica, ci pone di fronte a una diretta filiazione con la ricerca di Maya Deren nella costruzione di un linguaggio visivo nuovo, che fa un «uso creativo della realtà» operando una «manipolazione del tempo e dello spazio» espressa appunto nella danza (Deren 2004, p. 124);A Study in Choreography for Camera (1945), Ritual in Trasfigured Time (1946) [fig. 4], The Very Eye of Night (1952-55) sono i lavori in cui Deren affina le possibilità di questa ricerca:

Most dance films – scriveva nel 1945, poco dopo aver finito A Study in Choreography for Camera – are records of dances which were originally designed for theatrical stage space and for the fixed stage-front point of view of the audience. […] In this film I have attempted to place a dancer in a limitless, cinematographic space. Moreover, he shares, with the camera, a collaborative responsability for the moviments themselves. This is, in other words, a dance which can exist only on film (Clark, Deren, Hodson, Neiman 1988, p. 262).

L’approdo a una sorta di realismo fantastico di Maya Deren arriva dopo gli studi sul vudù haitiano al quale fu introdotta dalla coreografa e antropologa afroamericana Katherine Dunham (1909-2006). Come scrive So Mayer,

Dunham's presence is palpable in Dash's film through her work with Young as well as her use of the genre founded by Deren, proposing not only a revisionist history of African American female representation on screen, but a radical reconceptualization of the history of avant-garde film that would not only centre feminist genealogy, but demand that it be intersectional (Mayer 2019, p. 82).

Nel 1991, dopo diversi cortometraggi e documentari, Dash arriva al suo primo lungometraggio, che le richiede una gestazione lunga oltre un decennio, destinato a diventare un cult nella storia del cinema nero americano. Un’opera chiave nella narrazione della storia dei neri e delle nere d’America declinata attraverso una prospettiva femminista con un linguaggio sperimentale che si muove tra diversi registri. Daughters of the Dust è il primo film diretto da una regista nera americana a trovare una distribuzione commerciale, dopo la selezione al Sundance Festival nel dicembre 1991 dove vince l’Excellence in Cinematography Award. [figg. 5-6] Con il passaggio televisivo il film avrà una visibilità ancora maggiore e, a venticinque anni dalla prima uscita nelle sale, riuscirà a beneficiare di un lavoro di restauro e di una nuova distribuzione. Sul primo lungometraggio di Dash esiste una ricca documentazione e una folta letteratura critica nel campo accademico anglosassone, che ne restituisce la portata avanguardistica sia artistica che politica. Dal rapporto della regista con gli studios hollywoodiani (Dash 1998, p. 381) alla questione della spettatorialità, femminile e maschile, bianca e nera, dalla messa in scena al casting, al montaggio e ai costumi, ogni aspetto di Daughters of the Dust capovolge e rivoluziona la pratica filmica. A cominciare dal corpo e dal suo riposizionamento nella rappresentazione, corpo che viene spesso ripreso attraverso una nuova temporalità, come nei diversi tableaux vivants o nell’uso del ralenti dei primi piani, come a fornire uno spazio diacronico dilatato durante il quale lo spettatore e la spettatrice possa finalmente collocarsi.

Da The Birth of a Nation (1915) di Griffith in poi, il nero e la nera americani hanno trovato posto quasi esclusivamente come figura ‘alterizzata’ (Gallagher 1982, pp. 68-76). Se all’uomo spetta il ruolo di ‘altro’ dallo schiavo sottomesso o violento all’assassino, per la donna nera c’è spazio solo per le governanti dalla forte corporatura, da Mammy della famiglia Cameron interpretata in blackface da Jenny Lee del kolossal di Griffith, a Mami, premio Oscar per Hattie McDaniel in Gone with wind, passando per il ruolo di Delilah di Louise Beavers in Imitation of life (1934), raro caso in cui una ‘mami’ ha un nome proprio. La questione della rappresentazione hollywoodiana della donna nera è un tema caro a Julie Dash che in un mediometraggio del 1981, Illusions, racconta una storia ambientata negli anni Quaranta con protagoniste Mignon Dupree, una donna nera che lavora alla produzione dei film nei National Studios di Hollywood, fingendo di essere bianca, ed Esther Jeeter, una giovane cantante nera di cui usa la voce per il doppiaggio dei film. In Daughters of the Dust, lasciando completamente fuori i personaggi bianchi (con una sola eccezione sui si tornerà più avanti), Dash abbandona il dualismo della cultura occidentale a cui anche i primi esempi di black cinema hanno fatto ricorso, seppur rovesciando lo sguardo.

È il 1902, al largo della costa della Carolina del sud sulle Sea Islands la comunità dei Gullah (da cui discente la famiglia della regista) si trova a vivere un cambiamento epocale, poiché è giunto il momento di lasciare l’isola per emigrare verso Nord, sulla terraferma. A differenza di altri gruppi discendenti dall’Africa Occidentale, grazie al proprio isolamento la famiglia Peazant è riuscita a mantenere riti e costumi africani e ora il rischio della dispersione è molto alto. Il film racconta il giorno prima della partenza, quando tutti sono chiamati intorno a un picnic per celebrare l’evento. Due voci narranti cadenzano la giornata, polarizzando la narrazione tra passato e futuro, quella di una bambina che sta per nascere (vedrà la luce dopo la partenza) e quella della bisnonna Nana Peazant.

«I am the first and the last. I am the honored one and the scorned one. I am the whore and the holy one. I am the wife and the virgin. I am the barren one and many are my daughters. I am the silence that you can not understand. I am the utterance of my name».

I versi in voice over di Nana nell’incipit del film suonano come un manifesto che svela le contraddizioni in cui le donne nere sono state imprigionate, quando non completamente oscurate. Il cinema rompe il silenzio restituendo alle donne le diverse soggettività attraverso quattro generazioni. Nana (Cora Lee Day) ha 88 anni, pratica ancora la magia riturale e presagisce la fine delle tradizioni. Viola (Cherly Lynn Bruce) è una devota battista ormai lontana dallo spiritualismo, ma fervente cristiana. Haagar (Kaycee Moore) denigra la propria eredità africana definendola ‘hoodoo’, impaziente di integrarsi nella middle class americana. Yellow Mary (Barbara-O), rientrata sull’isola per l’evento, è la paria della famiglia, tenuta a distanza dalle donne del gruppo perché prostituta. Il conflitto più instabile è tra la nipote di Nana, Eula (Alva Rogers), e il marito Eli (Adisa Anderson), convinto che il padre del bambino nel grembo della moglie sia di uno stupratore bianco. Attraverso un rituale compiuto da Nana, Eli alla fine si rende conto di essere il padre della figlia che sta per nascere, voce narrante del film. La relazione genealogica con le quattro donne del brano di Nina Simone coreografate da Young nel film del 1975 è forte. Nana Peazant, forte abbastanza da sopportare il dolore è Aunt Sarah, Yellow Mary, che ha lasciato Ibo Landing per lavorare per i bianchi, incarna Saffronia e Sweet Thing, Eula sopravvissuta al rapimento è Peaces.

Il trauma, il dolore, la memoria, la proiezione nel futuro così come le differenti soggettività anche all’interno della stessa generazione sono tutte declinate da personaggi femminili interpretate da attrici provenienti da altre esperienze di cinema indipendente. Se per i neri, come ricorda bell hooks, la pratica cinematografica sembra non potersi allontanare dal racconto realistico o documentaristico (hooks 1996), Dash invece rivendica il diritto di raccontare la storia attraverso un linguaggio sperimentale.

One of the major problems facing black filmmakers is the way both spectators and, often, the dominant culture want to reduce us to some narrow notion of "real" or "accurate." And it seems to me that one of the ground breaking aspects of Daughters of the Dust, because it truly is a ground breaking film, is its insistence on a movement away from dependence on “reality”, “accuracy”, “authenticity”, into a realm of the imaginative (Dash, Hooks 1992).

Daughters of the Dust che Hooks definisce «critical commentary on the etnografic film» si muove tra gli stilemi del film documentario ed etnografico, tra il film sperimentale e quello narrativo. La struttura del film incarna una concezione non lineare del tempo che interseca il passato con la proiezione nel futuro attraverso ricordi, visioni, voci di chi non c’è più e di chi sta per arrivare. Fin dalle prime scene emerge chiaramente come il tempo presente non possa essere rappresentato se non attraverso il passato, persino i colori si muovono nel tempo restando indelebili sui corpi, come l’indaco delle mani dei lavoratori e delle lavoratrici schiavizzati.

La restituzione della memoria e della storia in Daughters of the Dust avviene attraverso la decostruzione della pratica filmica proponendo una nuova teorizzazione dell’identità, agendo sia nel campo della soggettività che della spettatorialità nera femminile. Se, come afferma Stuart Hall, nulla si costruisce al di fuori della rappresentazione, il cinema di Julie Dash si muove nella direzione da lui indicata, ossia di guardare al film «non come uno specchio di secondo ordine che riflette unicamente ciò che già esiste, ma come una forma di rappresentazione capace di costituirci come nuovi tipi di soggetto, che ci consente quindi di scoprire chi siamo» (Hall 1990, pp. 236-237).

 

Bibliografia

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J. Dash, b. hooks, «Dialogue: Between bell hooks and Julie Dash 26 April, 1992», in J. Dash, Daughters of the Dust: The Making of an African American Film, The New Press, New York, 1992.

M. Deren, Essential Deren. Collected Writings on film, ed. By B.R. McPherson, Kingston-New York, Documentext, 2004.

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S. Mayer, ‘Being a together woman is a bitch’: an ‘African American woman's film’ genealogy of Julie Dash's FourWomen (1975)’, in L. Reynolds (ed.), Women Artists, Feminism and the Moving Image: Contexts and Practices, London, Bloomsbury Academic, 2019.

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