4.1. Materia, gesto e rito nella sperimentazione filmica di Renata Boero tra anni Sessanta e Settanta

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Nel lavoro di Renata Boero (Genova, 1936) si individua una specifica attrazione per l’immagine in movimentoche si definisce in prima istanzanella ricerca di unadimensione di spazio, di tempo e di ritmo, oltre la superficie.

Partire dalla superficie per analizzare la sua pittura si rivela pertanto riduttivo. Rischia di disseminare letture formali che sollecitano genealogie, in un’oscillazione continua tra gestualità e dimensione concettuale, e forzail suo lavoro all’interno delle differenti declinazioni del ritorno alla pittura degli anni Settanta. Questi indirizziinterpretativivaporizzano il senso profondo della processualità della sua ricercae allo stesso modo offuscano la complessità mediale in cui è immersa la sua operatività, dove fotografia e cinema, come dichiara l’artista, sono un ‘a priori della pittura’; mezzi che scardinano la formalizzazione dell’atto pittorico e ne riattivano il senso in un divenire performativo che coinvolge il corpo e la natura.

Identificando una prospettiva di analisi transmediale non ancora esplorata dagli studi a lei dedicati, questo intervento si propone di riflettere altresì sullaspecifica politicità del suo lavoro. Boero hasempre rifiutato di considerare la sua praticaattraverso una codificazione di genere néha mai voluto definirsi artista femminista, per quanto la sua ricerca, riletta in una costellazioni di gesti e relazioni, faccia emergerel’essenza diun fare domestico e rituale, al di fuori di una visione definibile genericamente intimista che, all’opposto, manifesta la radicalità e il potere trasformativo del suo agire pittorico. Il femminismo per Boero è una ‘pratica di esistenza’. Si inquadra in una più ampia idea di libertà dell’individuo contro le ideologie dominanti, nelrinnovato incontro con la natura e la dimensione spirituale. Dopo il trionfo della civiltà dei consumi, Boero riscopre il gesto dell’uomo in sintonia con i ritmi della natura e all’emergenza di una coscienza ecologica. Un’inversione di rotta e di velocità; un ritorno alle radici, al mito ancestrale, in cui si riverberano letture psicoanalitiche e antropologiche, di Jung e Lévi-Strauss in primis, nonchéla fascinazione per le culture extraeuropee conosciute da lei all’epocatramite pubblicazioni e in una dimensione di viaggio immaginario che si farà reale solo a partire dagli anni Ottanta.

Dopo gli studi in collegio in Svizzera, dove si era avvicinata al pensiero junghiano, Boero completa la propria formazione a Genova, con Emilio Scanavino al Liceo Artistico Barabino. Il suo esordio si inserisce, dal 1958, in un circuito espositivo e di premi che le assicura riconoscimenti e acquisti, tra cui la partecipazione alla Quadriennale del 1959. Ma, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta,Boero è insofferente verso un certo mododi fare pittura e inizia a ricercare una nuova relazione con la natura che dal piano figurativo e come rappresentazione del visibile si volgesse verso una‘natura recuperata per via di pittura’, come ha sintetizzato Paolo Fossati. Prende allora avvio un percorso non lineare che sedimenta esperienze diverse: tasselli che germinano in modo discontinuo, nell’incontro con la materia, con il gesto corporeo, con la natura, il magico, il simbolico e la politica.

Negli anni Sessanta il suo studio è la sua casa – l’appartamento di Genova dove vive il suo essere madre e artista, in una sovrapposizione di vita e lavoro, lontana, sino al 1973, dai circuiti espositivi e dai rapporti con il mercato. Nascono allora i Cromogrammi; parallelamente prende avvio la sperimentazione della fotografia e del cinema. Boero adibisce infatti una stanza del suo appartamento a camera oscura e contestualmente realizza i primi filmini girati in super8. Cromo Crime (col., 4’ 06’’) e La sabbia (col., 3’ 29’’) sono le prime creazioni sperimentali, seguite da La sedia e il mare (col., 7’ 03’’), girato nella seconda metà degli anni Settanta al porto di Genova. Come tutti i materiali di Renata Boero, per questi film non è facile avanzaredatazioni precise, in quanto si tratta di una sperimentazione domestica condotta senza scopi espositivi e in base a una predisposizione dell’artista a sfuggire a determinazioni cronologiche, incasellamenti, linearità.

I Cromogrammi, nelle differenti fasi di realizzazione procedurale e mediale, costituiscono la ricerca ‘del lontano’ e di come tutto si sia mescolato nel tempo, verso una dimensione spirituale nella quale la materia diventa altro da sé; allo stesso modo riflettono l’energia scardinante di una geografia affettiva di frequentazioni e incontri, calata nell’effervescenza culturale e nelle contraddizioni sociali che caratterizzano l’atmosfera genovese degli anni Sessanta.

Tra le molteplici conoscenze legate al mondo dell’arte, del teatro e della musica d’avanguardia, Boero – ricordando oggi quegli anni – porta l’attenzione sull’amicizia con due donne: Enrica Basevi e Caterina Marcenaro. A Enrica Basevi, che le ha aperto la ‘coscienza politica’, è legata la frequentazione della Società della Culturae la militanza nel Pci; a Caterina Marcenaro, direttrice dell’Ufficio di Belle Arti del Comune di Genova, con la quale ha collaborato nei primi anni Sessanta, si deve il rapporto con le pratichedel restauro, il corpo a corpo con la tela e l’incursionenelle antiche tecniche della pittura. Incaricata di restaurare alcuni dipinti della quadreria di Palazzo Rosso, Renata Boero si immerge nelle alchimie della pittura per studiare le antiche tecniche del colore: letture come il Naturalis Historia di Plinio Il Vecchio e il De Rerum natura di Lucrezioaprono il suo sguardo verso i materiali naturali che diventeranno essenzadel suo fare pittorico. Inoltre,mediante la pratica del restauro il rapporto con il quadro non è più di contemplazione frontale ma si fa possibilità di entrare all’interno del corpo della pittura, conducendo l’artista a prendere coscienza del supporto e dei materiali, al di là la superficie. Oltre a queste acquisizioni, messe a fuoco attraverso le riflessioni e i ricordi di Boero stessa, è forse utile avanzare un'altra considerazione relativamente all’azione museografica portata avanti da Caterina Marcenaro a Genova,in collaborazione con Franco Albini,che può in qualche modo aver sedimentato per vie indirettenell’immaginario di Boero. Per l’allestimento di Palazzo Bianco, ideato tra il 1949 e il 1950, il progetto Marcenaro-Albini presupponela presentazione dei quadri nel percorso espositivo senza le cornici (se non coeve al dipinto) – decisione di grande radicalità e modernità che generò non poco stupore e scandalo nel milieu culturale genovese. Significativo osservare che per Boero un punto imprescindibile del suo fare pittura sarà la centralità e la libertà del supporto che deve vivere in relazione e continuità con lo spazio architettonico, senza la mediazione della cornice, anche nelle opere di più piccolo formato.

Nella definizione di Cromogramma è insita la dimensione ritmica di una scrittura di colore che si dispiega nel tempo e nello spazio. I Cromogrammi sono grandi telèri ripiegati che vengono immersi in un materiale cromatico ottenuto dalla macerazione diradici ed elementi naturali come la curcuma, l’henné, la cocciniglia. I primi grandi esemplarisono realizzati su tela recuperata al porto di Genova,luogodi grande fascinazione per Boero, per un duplice motivo. Il porto è legato al lavoro operaio e alle prime manifestazioni che denunciano le drammatiche condizioni di lavoro dei “camalli” (termine genovese con cui si designano gli scaricatori delle navi),le loro rivendicazioni di giustizia e uguaglianza. Significativo osservare che,nel 1976, Boero condividerà un’azione con i “camalli”, documentata da una serie di fotografie, consistente nell’allestimento di una tela di venti metri all’aperto, nei cantieri navali Baglietto a Varazze (Savona) [figg. 1-2]. Allo stesso modo il porto apre un immaginario connesso al viaggio, alla lontananza e allalibertà. È associatoall’immagine del vento che trasporta altrove, così come le tele di Boero, svincolate dal telaio, si muovono libere, in relazione agli agenti atmosferici che le modificano nel tempo. Per tale ragione l’artista ha voluto fotografare i primi Cromogrammi all’aperto, sulle alture del Righi, a Genova [fig. 3], come fossero parte del ciclo della natura, e ha voluto realizzare altre azioni performative, tra cui, appunto, quella nei cantieri navali di Varazze.

 

Tra i lavori fotografici ascrivibili allo snodo Sessanta-Settantasi individuaanche il ciclo dedicato alle mani, una sorta di archivio di gesti compiuti dalla mano dell’artista (talvolta è ripresa quella di sua madre)nel fare pittura, come a portare l’attenzione sulla dimensione primaria di un atto generativo che sposta la tensione dall’opera (d’arte) al lavoro (in quanto atto orizzontale e subalterno) [figg. 4-5]. Il tema della mano è connesso altresìalla scrittura e permette,peraltro,di tracciare una serie di rispondenze e affinità con alcune sperimentazioniaudiovisive portate avanti, in quegli anni, da donne artiste. I materiali fotografici relativi ai gesti delle manisono montati in sequenze, tra cui sono rielaborati nel video Processo operativo realizzato per la mostra Ipotesi 80 curata da Maurizio Fagiolo Dell’Arco a Bari nel 1977. I diversi montaggi realizzati sono espostinelle mostreaccanto o sopra ai Cromogrammi stessi (dopo il 1973 la ricerca di Boero ottiene attenzione da parte della critica e si moltiplicano le occasioni espositive in Italia e all’estero). Attraverso le proiezioni, lo spazio della mostrasi fa un luogo porosoche non accoglie esclusivamente le opere finite, ma anche il prima e il dopo della pittura: ovvero le procedure, l’esperienza, il divenire, in una tensione multimediale.

Grazie al montaggio video,le sequenze fotografichediventano per Boeroimmagini in movimento al pari dei primi film sperimentaligirati insuper8che sono realizzati con il desiderio di entrare sempre più nel profondo della materia e del gesto. La sabbiaracconta la magia della metamorfosi: un dialogo intimo del gesto con la materia. Le riprese sono alternate al montaggio di immagini fotografiche, ad accentuare la sensazione del vitalismo della materia, nella sua trasformazione da radice in polvere [fig. 6]. Il risultato è una sorta di pittura ‘temporalizzata’.

«Cromo Crime – svela Renata Boero – nasce dalla voglia di creare delle immagini suggerite dalla materia stessa, in modo anche violento, come una lama affilata che penetra nel terreno» [figg. 7-8]. Si tratta di una sperimentazione difficile da incasellare nella sua dimensione ibrida, tra film d’artista e documentazione di un’azione performativa. Le ripresesono infatti affidate a un cameramen ed è Boero stessa ad agire in prima persona in relazioneai materiali naturalie alla tela: le sue mani toccano e strofinano i materiali, sfogliano come un libro la tela, strusciano il pennello intriso di colore sul supporto collocato a parete da cui sgocciola il pigmento rosso. Nel film si sovrappongono le simbologie, già a partire dal cromatismoche domina l’atmosferaistintualeed erotica sospesa tra attrazione e repulsione, tra vita e morte. Il film si apre con un primo piano sulmateriale rosso che sobbolle come un occhio di sanguein una pentola, quasi a rievocare un rito magico e alchemico. Dopo l’apparizione del titolo realizzato con polveri, radici e semi, la visualesi sposta sulle azioni dell’artista,per poi restringersi e tornare circolarmentealle immagini iniziali, e chiudersiinfine con la firma che riprende la modalità di scrittura del titolo. Le riprese iniziali e finali senza sonorosono intervallatedalla musica sperimentaleutilizzata come sottofondo per accompagnare l’atto performativo.

Nella relazione che si istituisce tra il gesto corporeo, la trasformazione e la manipolazione dei materiali, questi filmpossono essere analizzatiattraverso una serie di assonanze e rispondenze tematiche o formali con lecoeve sperimentazioni audiovisive di artisti operanti nel contesto italiano e internazionale, tra pratica comportamentale e earth works: da Laura Grisi a Dennis Oppenheim; da Richard Serra a Robert Smithson; oltreché condurre a riflettere sul genere delfilm processuale in relazione all’emergenza di una pittura che si fa rituale performativo.

 

 

Bibliografia

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<https://pianob.unibo.it/article/view/9222/9057> [accessed 31.08.2020].