4.2. Autonomia autoriale e riconoscibilità pubblica di una documentarista ritrovata: Cecilia Mangini oltre Lino del Frà

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L’intento di questo contributo è quello di inquadrare il lavoro artistico di Cecilia Mangini entro un contesto più ampio rispetto al ventennio del boom economico, in cui la sua figura di regista donna solo con fatica è riuscita ad emergere dai sodalizi creativi che caratterizzavano lo stile produttivo del tempo. Pur considerata una pioniera capace di garantire originali spazi di visibilità al femminile, è stata relegata ai margini della storia del cinema sperimentale mentre il suo lavoro è stato spesso valutato all’ombra delle importanti collaborazioni con registi uomini più autorevolmente riconosciuti.

Solo recentemente, attraverso una interessante operazione di recupero della sua produzione dispersa, si è provato a valorizzare le originali forme espressive che hanno caratterizzato il suo cinema sperimentale, ma anche a restituirle una autonomia autoriale che le garantisse uno statuto di indipendenza e autodeterminazione. È assai interessante come questo processo di rivalutazione, cui lei stessa ha partecipato attraverso una lucida campagna di autopromozione, sia iniziato con il nuovo millennio, vedendola, ottantenne, protagonista di una formidabile primavera di successi e rinnovati stimoli creativi.

Cecilia Mangini è nata a Mola di Bari, in Puglia, nel 1927 ed è cresciuta durante gli anni del regime fascista nella Firenze dei Cineguf. Da subito il cinema è stato per lei salvifico consentendole, attraverso l’affezione alle immagini del neorealismo, di operare una riflessione critica sulla realtà del suo tempo. La stessa che ha iniziato a raccontare attraverso l’obiettivo Tassar di una Super Ikonta Zeiss acquistata con i soldi regalatele per Natale dalla famiglia. È iniziata così, nei primi anni Cinquanta, la documentazione del dramma dei lavoratori nei loro contesti sociali e familiari, attraverso un atto creativo che le ha consentito di coniugare il suo dirompente desiderio di indipendenza con la passione politica.

Trasferitasi a Roma con il marito Lino del Frà nel 1952, ha avviato la sua carriera pubblicando le sue fotografie sulla rivista ‘Cinema Nuovo’, per la quale, come critico cinematografico, ha poi pubblicato numerosi articoli spaziando dalle riflessioni sul realismo all’analisi di filmografie lontane ed esotiche [fig. 1].

Ha poi iniziato a lavorare alla Federazione italiana dei circoli del cinema fino a che il produttore cinematografico Fulvio Lucisano le ha proposto di girare il suo primo documentario. Si trattava di lavorare ad un soggetto ispirato al romanzo pasoliniano Ragazzi di vita, per il quale Mangini si avvalse della collaborazione ai testi dello stesso autore. Il sodalizio e l’amicizia con Pasolini ebbero inizio con questo Ignoti alla città (1958) ma proseguirono oltre. Insieme, infatti, realizzarono altri due documentari: Stendalì – Suonano ancora (1960) e La canta delle marane (1961).

Mentre a metà degli anni Cinquanta nascevano linguaggi nuovi anche grazie all’avvento della televisione, Mangini stringeva amicizie con diversi intellettuali protagonisti della cultura italiana del tempo come Pratolini. Erano gli anni in cui emergeva l’esigenza di indagare gli aspetti più marginali della realtà in una Italia che come nessun altro Paese possedeva una grande quantità di piccole patrie, di mondi dialettali e insieme di travolgenti evoluzioni (Pasolini 1975). In quella Italia di contraddizioni profonde, in cui continuavano a coesistere riti arcaici e spinte al progresso, Mangini ha scelto di affidarsi a precisi modelli, inserendosi nel solco di una ideologia ben precisa che era quella del materialismo storico e della lezione teorica di Umberto Barbaro. La ricerca di paesi sommersi, specie nel meridione, e degli aspetti più cupi delle periferie italiane sono al centro della prima fase della sua produzione, caratterizzata da un cinema etnografico di derivazione demartiniana. Sono gli anni in cui Mangini ha realizzato Maria e i giorni (1959), un documentario di ambientazione contadina attraverso il quale, all’interno del paradigma meridionalista, riesce a far emergere potentemente la figura socialmente dominante di una anziana donna, punto di riferimento di una comunità che stenta a sopravvivere alla modernità che avanza. A questa altezza la voce narrante maschile tende ancora a stemperare la forza espressionista delle immagini di Mangini, la quale sceglierà, nei documentari successivi, di ridurre al minimo le incursioni testuali per affidarsi sempre più alla forte suggestione prodotta dalle immagini e dal montaggio. I film pasoliniani rappresentano tuttavia una parentesi interessante, poiché i testi scritti dall’intellettuale friulano si fanno poesia e musica.

Stendalì – Suonano ancora (1960) è nato dal libro di De Martino Morte e pianto rituale con l’intenzione di restituire la memoria ad una pratica anticamente diffusa nel mezzogiorno d’Italia che andava progressivamente scomparendo. Mangini si è recata a Martano, in Salento, per ricercare esperte lamentatrici disposte a recitare davanti alla camera l’atto di un rito dimenticato dalle nuove generazioni. L’operazione della regista rappresentava il tentativo di studiare e salvare la memoria di quella pratica pagana con più di tremila anni di vita, che ancora per poco avrebbe resistito alla mutazione antropologica che stava cambiando il volto dell’Italia (Rossin 2009).

Con la sola eccezione del breve prologo con le campane a morto che accompagnano le immagini del paese e del finale in cui le spoglie del giovane defunto sono portate in processione, l’intero arco narrativo del film è definito dal compimento del rito, mostrato attraverso l’incalzare ossessivo del pianto delle prefiche in lingua grika. Il testo della lamentazione è stato scritto da Pasolini in quella lingua come commento atto ad esasperare le scelte linguistiche adottate da Mangini. Rinunciando agli stilemi del documentario etnografico, primo fra tutti la fissità della macchina da presa che convenzionalmente restituiva oggettività al girato (Grasso 2005), Mangini scelse invece di enfatizzare ardite soluzioni di montaggio, imponendo il proprio sguardo personale. «Le inquadrature si rivelano spesso inusuali, con la macchina da presa che ora inquadra il gruppo di donne dall’alto, ora si abbassa sino al pavimento a inquadrare i piccoli passi e i salti compiuti dalle lamentatrici, ora si sostituisce agli occhi del giovane defunto disposto nella bara» (Cinequegrani 2019).

Si evidenzia in queste soluzioni espressive il grande debito di Mangini nei confronti del cinema sovietico, allorché, scegliendo di lavorare sulla forma oltre che sul contenuto, evitava di incorrere nella mera riproduzione di una dimensione folclorica, per realizzare invece un’opera di pura «poesia realistica» (Pintus 1960).

Un approccio sperimentale ha caratterizzato anche i film successivi.Ancor più che La canta delle Marane (1960), di nuovo ispirato ai Ragazzi di vita, è nel film Divino amore (1961) che, perseguendo ancora l’agire dell’etnologo, ha documentato i pellegrinaggi compiuti da gruppi di fedeli verso il noto santuario romano situato lungo la via Ardeatina. Il documentario è stato ritrovato fortunatamente nel 2013. All'epoca della realizzazione era stato boicottato con incredibili accuse di carenza artistica e non era stato distribuito.

Anche in questo caso le formule paganeggianti della preghiera vengono enfatizzate dalle scelte espressive, affiorando entro un contesto straniante perché caratterizzato dalle nuove forme della comunicazione turistica e pubblicitaria che si sarebbero sempre più diffuse negli anni Sessanta. Le immagini, montate in una quasi totale assenza di voice over, sono tuttavia accompagnate da un commento musicale decisamente incongruente rispetto al contenuto mistico del film, composto da Egisto Macchi, uno fra i primi sperimentatori di musica elettronica in Italia.

La ricerca etnografica diMangini si è spostata qualche anno dopo in Sardegna. Nel 1966 la regista realizzò per la rubrica L’Italia allo specchio, prodotta dall’Istituto Nazionale Luce, il documentario Sardegna, commissionato dal Ministero dei Lavori Pubblici per promuovere la costruzione della variante alla strada statale Carlo Felice, all’altezza di Sassari. Attraverso l’esplorazione di quel territorio ebbe l’occasione di cimentarsi nel confronto tra arretratezza e sviluppo, resistenza del passato e desiderio di emancipazione. L’accostamento iconografico dei rulli meccanici della nuova cartiera di Arbatax (le cui tecnologie produttive negli anni Sessanta apparivano fra le più avanzate d’Europa) e della spola dei vecchi telai a pedali (simbolo di un territorio la cui economia ancora si basava su agricoltura e pastorizia) consentiva alla regista di mettere in forma le contraddizioni della modernità, nuovi problemi e nuove lotte entro quella che da più parti è stata definita una «poetica dell’anacronismo» (Cinquegrani 2019).

Gli anni Sessanta hanno visto Mangini protagonista anche di scelte produttive diversamente originali. Aderendo al concetto gramsciano di intellettuale organico, si è posizionata in modo strategico rispetto alla realtà che voleva raccontare, scegliendo di coniugare precise esigenze ideologiche con le necessità della contingenza storica. In questo senso i documentari e le inchieste realizzate successivamente tendono a rispondere alla precisa istanza di fare di questioni particolari le ragioni di una lotta culturale collettiva. A questo periodo appartengono i film realizzati con il marito Lino del Frà (La passione del grano, 1960, Fata Morgana, 1961, La statua di Stalin, 1963) e il suo film più noto, All’armi siam fascisti (1962) per cui si avvalse anche del contributo del critico cinematografico Lino Miccichè. Quest’ultimo film rispondeva alla necessità di ricostruire, da una prospettiva antifascista, la storia d’Italia nel clima delle contestazioni al governo Tambroni (Di Marino 2011).

Il film rappresentò l’occasione per sperimentare una nuova pratica fondata sulla ricerca d’archivio che caratterizzerà la sua estetica cinematografica femminista nella fase successiva della sua produzione. Il lavoro di found footage divenne un’arma di lotta culturale anche alla luce del boicottaggio determinato dalla preclusione ai suoi materiali da parte dell’Istituto Luce. Mangini, del Frà e Miccichè furono costretti a svolgere le loro ricerche in archivi stranieri, presso istituzioni britanniche, francesi, jugoslave e svedesi, finendo per creare, attraverso la selezione e la collezione di nuovi materiali, spesso inediti, un nuovo archivio militante (Eichhorn 2013). Mangini offrì al lavoro collettivo un contributo notevole che incise sulla dimensione estetica modernista del film. Dalila Missero ha analizzato approfonditamente queste strategie discorsive, postulando che nelle scelte di composizione, taglio e posizionamento delle immagini di archivio Mangini ha seguito una logica preordinata, determinata da precise scelte ideologiche. Ha così collocato la regista italiana nel solco di una genealogia matrilineare che trova il suo capostipite nel lavoro di documentazione storico-cinematografica Padanie Dinastii Romanovykh (1927) di EsfirShub (Missero 2016a).

Realizzare film di montaggio ha consentito aMangini di ritornare, in una terza fase della sua produzione, a reimpossessarsi delle pratiche della quotidianità per metterle a confronto con le questioni aperte appartenenti ad un passato irrisolto, specie per l’universo femminile. Se una delle funzioni del found footage è l’abolizione della dicotomia passato-presente per attuare una strategia di «appropriazione tattile del passato basata sul montaggio»(Dall’Asta 2004) che consenta materialmente (secondo una accezione benjaminiana) di attivare un rapporto fisico tra gli oggetti del passato e le immagini del presente, l’esempio più eloquente di questa posizione assunta da Mangini è stato senza dubbio il film Essere donne (1965), un’opera problematica capace di offrire un regime di visibilità alla questione femminile in un’epoca in cui questa era ancora da definirsi nella sua specificità [fig. 2].

Il film venne realizzato nel 1963 in occasione della campagna elettorale del Pci che lo produsse per il tramite della casa di produzione affiliata Unitelefilm e l’intermediazione dell’Unione Donne Italiane che in quegli anni, attraverso la rivista organica ‘Noi donne’, si poneva quale strumento di negoziazione tra le politiche del partito e le pratiche di consumo culturale delle donne di sinistra che la leggevano (Cardone 2009). Fu Luciana Castellina, anima storica dell’associazione, a pensare di proporre il progetto aMangini, affidandole il compito di indagare la condizione femminile nei settori produttivi delle fabbriche e nelle campagne, in una Italia che andava sempre più modernizzandosi. Il film venne ostacolato sin da subito: in passato Mangini si era già scontrata con la censura [fig. 3], ma questa volta l’esclusione dalla programmazione obbligatoria da parte della commissione del Ministero del Turismo e dello spettacolo venne giustificata da un giudizio di scarsa qualità tecnica e artistica. Sebbene il film avesse ricevuto già diversi premi in festival internazionali e fosse partita una campagna in sua difesa sulle pagine della stampa di sinistra, l’esclusione dal circuito delle sale impedì il raggiungimento della visibilità sperata.

In tempi più recenti, come vedremo, è stato recuperato il valore pionieristico di Essere donne, sia attraverso il riconoscimento del suo peso politico, sia per le specificità linguistiche che rappresentano uno degli aspetti meno indagati del cinema di Mangini. Dobbiamo ancora a Dalila Missero il lavoro di approfondimento degli aspetti peculiari dello stile della regista in questo film, aspetti che, attraverso il found footage e particolari tecniche di montaggio sonoro, hanno consentito alla regista di appropriarsi delle forme canoniche del cinema di propaganda per riusarle e modellarle al fine di creare uno specifico spazio femminile in un contesto culturale e produttivo di evidente egemonia maschile. «Le questioni che ci pone oggi Essere donne, al di là del suo valore di documento in senso stretto, riguardano l’uso anticipatore dell’immagine politica attraverso alcune marche avanguardistiche che costituiscono delle vere e proprie crepe in cui si insinua quel controcinema delle donne teorizzato quasi dieci anni dopo da Claire Johnston» (Missero 2016b).

Se è vero che l’assemblaggio e il montaggio riprendono i modi e le azioni antiche del lavoro femminile (Bruno 2014) e che per questo il found footage è una pratica privilegiata nel cinema delle donne (Tralli 2015), Mangini sembra trovarsi a proprio agio nell’associare immagini recuperate da rotocalchi e riviste che rappresentano vistosamente l’immaginario del presente, con altre immagini di repertorio che mostrano donne impegnate in scioperi, manifestazioni pacifiste e contrasti con la polizia. Facendo scontrare queste diverse tipologie di immagini e di immaginari, produce un effetto di senso potentemente eloquente nell’affermare la necessità di lottare per la collettività e non solo per se stesse.

Inoltre, così come abbiamo visto nei primi documentari, anche qui Mangini tende ad abolire quasi del tutto la voice over per puntare piuttosto sulla ricorsività delle immagini in movimento. Recupera ancora una volta forme care alla tradizione avanguardistica (specialmente sovietica) come la ripetizione, che «costituisce in questo caso una crepa controcinematografica capace di scardinare la forma del documentario di propaganda, basata su un uso blindato del rapporto tra le immagini e della voice over» (Missero 2016b), oppure l’a-sincronismo, evidente nelle sequenze in cui, montando diverse testimonianze di donne al lavoro, fa convivere sullo schermo frammenti di corpi operosi e una pluralità di voci isolate in un insieme creativo che, infrangendo l’unità narrativa, riesce a restituire la potenza espressiva di ogni singolo racconto e insieme di un più generale riconoscersi nelle istanze della lotta di classe.

Il film parlando del lavoro delle donne si rivolgeva tuttavia ad un pubblico eterogeneo. Non a caso Mangini realizzò subito dopo due importanti documentari dedicati alle contraddizioni della imminente industrializzazione del mezzogiorno: Tommaso (1965) e Brindisi 65 (1966) sono storie di ragazzi di vita, di paure e sogni nei confronti del futuro, di impegno civile in cui sono miscelate capacità drammaturgiche diverse insieme con l’utilizzo delle voci degli intervistati che si fanno cassa di risonanza di una denuncia dei miti del progresso.

Alla luce di questa complessa produzione, nella quale il ruolo della documentarista è consapevolmente quello di chi intende avviare una rielaborazione della realtà attraverso precise scelte grammaticali e sintattiche (Mangini 2012), possiamo sintetizzare le ragioni della esclusione o marginalizzazione di Mangini nella storiografia del cinema sperimentale in almeno due grandi questioni: da una parte la tendenza a riconoscere del suo lavoro la sola dimensione collettiva che vede la sua attività registica come irrimediabilmente legata a quella di del Frà, di Pasolini e Micchichè; dall’altra l’influenza di pregiudizi interpretativi storicamente determinati che hanno imposto di leggere i suoi film come direttamente condizionati dalle istanze della politica italiana di sinistra, condannando molte delle sue opere all’oblio per diversi decenni.

Non è un caso se dopo il 1965, pur avendo lavorato molto anche come sceneggiatrice per altri registi, si parli pochissimo di lei sulle riviste specializzate e sulle riviste femminili.

Soltanto negli anni 2000 si è avviato un processo di recupero del suo cinema determinato dal ritorno della stessa Mangini nel panorama dell’industria culturale italiana. Riteniamo che sia stata in grado di imporre il riposizionamento della sua figura di artista con la precisa intenzione di definire la misura del suo contributo di cineasta donna ai lavori collettivi degli anni Sessanta.

Inoltre, il restauro dei suoi film, le numerose mostre fotografiche e retrospettive che lei stessa ha contribuito ad allestire, i documentari biografici (e autobiografici), sono parte di questo disegno e rappresentano per lei, oggi, gli strumenti per sperimentare nuove forme di soggettività, indipendenti dai sodalizi creativi del passato e per perseguire uno statuto autoriale mai raggiunto.

Si è trattato di un processo complesso, caratterizzato da tappe salienti che hanno visto il coinvolgimento di numerose figure artistiche e diverse istituzioni.

Probabilmente si può considerare come prima tappa di avvio di questa nuova fase della carriera di Mangini la collaborazione con Nico D’Alessandria alla stesura della sceneggiatura diRegina Coeli (2000). Si tratta di un film indipendente, ambientato nel carcere di Rebibbia, che racconta la storia di una anziana donna che svolge attività di volontariato nella casa circondariale e che si innamora di un pastore sardo semianalfabeta. La scelta del regista di chiedere aMangini (ancora accreditata Mangini del Frà) di collaborare al progetto che vede protagonista Magali Noël,una attrice francese âgée protagonista di molto cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta, risulta assai interessante.

Sarebbe il caso di soffermarci a riflettere sulla questione della rappresentazione del corpo della artista che, a partire da qui e per tutto il primo ventennio Duemila, si esibisce nella sua dimensione anagrafica. L’età avanzata sembra restituire aMangini una nuova riconoscibilità pubblica. In rete esiste pochissimo materiale iconografico legato agli anni della sua maggiore produzione, mentre sono moltissime le fotografie che la ritraggono da anziana e le videointerviste in cui ci parla del suo lavoro del passato e del valore del cinema documentario nella sua vita.

In questo senso appare metodologicamente necessario chiamare in causa gli agingstudies(Jermyn 2014; Harrington, Bielby, Bardo 2014) che hanno articolato riflessioni sui processi di invecchiamento nel settore audiovisivo sia in una dimensione ‘on-screen’, in riferimento alle rappresentazioni visive dei corpi attoriali e allo sviluppo dei personaggi, che in una dimensione ‘off-screen’, che attiene alla condizioni delle professioniste mature nel settore audiovisivo, in tutti i comparti creativi e manageriali [fig. 4].

Se le discriminazioni di genere – in particolare quelle legate all’età delle attrici, ma il discorso può essere esteso alle altre categorie professionali – nell’evoluzione del sistema audiovisivo sono assai evidenti all’interno di una cultura che desessualizza la donna matura e in un sistema industriale che prevede per lo più ruoli secondari e fortemente stereotipati per le attrici anziane, la vicenda di Mangini sembra invece muoversi in senso oppositivo rispetto alle prassi attive nel settore del cinema e dei media audiovisivi.

In un contesto in cui i codici socio-culturali di interpretazione dei processi di invecchiamento, soprattutto in relazione all’identità femminile, impongono una riflessione sul tema dell’aging, appare del tutto originale l’attenzione che l’industria cinematografica rivolge alla regista che, passando dall’altra parte della macchina da presa, accetta di ri-presentarsi al pubblico attraverso una rinnovata formula identitaria.

Nel 2011 Davide Barletti e Lorenzo Conte le dedicano un documentario attraverso cui la sua storia si intreccia alla storia d’Italia, agli anni del nascente boom economico con le sue lacerazioni e la sua vitalità. Non c’era nessuna signora a quel tavolo è il primo importante omaggio aMangini che passa davanti alla macchina da presa per sperimentare una nuova formula di autorappresentazione: finalmente cade il secondo cognome e si parla solo di lei come regista. Qualche anno dopo, un’altra documentarista italiana chiede aMangini di partecipare ad un progetto che ricorda i lavori dedicati alla nascente industrializzazione del Sud Italia tra l’Italisider di Taranto e la Monteshell di Brindisi. Quando Mariangela Barbanente intercetta Mangini per realizzare insieme In viaggio con Cecilia (2013) è appena scoppiato il caso Taranto con il sequestro da parte del Gip delle acciaierie. Ed ecco che Mangini si ritrova di nuovo al centro della scena. Per sua stessa ammissione, come emerge da una intervista realizzata durante la presentazione del film alFestival dei Popoli di Firenze, questo lavoro rappresenta l’occasione per poter tornare a parlare delle questioni che da sempre le stanno a cuore, ma soprattutto per rivalutare agli occhi del pubblico contemporaneo il suo cinema del passato. E sorprende che lo faccia anche attraverso un utilizzo consapevole e attivo dei canali social opportunamente creati per la promozione di questo film e delle innumerevoli altre attività in cui è coinvolta [fig. 5].

Nel 2016 il canale Rai Storia produce Corto Reale, una trasmissione dedicata ai più importanti documentaristi italiani commentata da Marco Bertozzi. Una delle puntate è dedicata a Cecilia Mangini, che si fa ancora una volta intervistare, riuscendo ad affermare il riscatto definitivo di cinquant’anni di oblio.

Nel 2019 è ancora la Rai a dedicare una delle puntate della trasmissione Le ragazze alla ormai novantenne Mangini. Davanti alla camera, il volto scavato dalle rughe, la regista ripercorre la sua storia, puntellandola dei momenti dolorosi (spesso in riferimento all’esaurimento della stagione d’oro del documentario, finito per diventare un mezzuccio finalizzato al perseguimento dei premi di qualità delle produzioni cinematografiche) (Bertozzi 2008) e dei momenti di gioia (come quello che sta vivendo oggi, in un’epoca che rivitalizza il documentario come forma espressiva e consente originali forme di sperimentazione anche grazie alle nuove tecnologie).

In questi anni, molti dei suoi film sono stati recuperati e restaurati (si pensi all’impegno della Cineteca di Bologna che ha, tra le altre cose, istituito il Fondo Mangini Del Frà o a quello dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico che ha contribuito alla diffusione delle sue opere anche attraverso la piattaforma Youtube); numerose sono state le mostre fotografiche e le retrospettive che lei stessa ha contribuito ad allestire.

Nell’estate 2020, al Maxxi di Roma, ha presentato il suo ultimo lavoro realizzato in collaborazione con Paolo Pisanelli, il direttore artistico della Festa del cinema del reale che dal 2005 accoglie in Puglia Mangini come una star. Insieme alla “donna rock del documentario” ha realizzato Due scatole dimenticate – un viaggio in Vietnam, un film da camera costruito attraverso l’assemblaggio delle fotografie inedite scattate in occasione di un reportage realizzato durante i sopralluoghi per un film dedicato alla lotta del popolo vietnamita per conquistare l’indipendenza, e Grazia Deledda, parole e colori (2020), un nuovo documentario prodotto con il sostegno della Sardegna Film Commission e dell’Istituto Superiore Regionale Etnografico della Sardegna con l’obiettivo di consentire alle nuove generazioni di riscoprire il lavoro di un’autrice spesso ingiustamente sottovalutata [fig. 6].

Difficile enumerare gli omaggi, i premi, le occasioni pubbliche, le lezioni universitarie, le collaborazioni, le retrospettive, le mostre che negli ultimi anni hanno visto coinvolta Mangini, così come sono molti ancora i progetti che ha in cantiere. Tutti insieme rappresentano la testimonianza delle visioni e delle passioni [fig. 7] di colei che viene finalmente considerata come ‘la madre del documentario italiano’ [fig. 8].

Se dunque da un lato, attraverso il cinema innovativo e dirompente della regista, ha iniziato a prendere forma in Italia un’idea diversa della realtà che ha contribuito a gettare le basi per il riconoscimento della specificità della questione femminile, dall’altro l’approdo pervasivo della sua immagine pubblica nel discorso mediale consente, una volta per tutte, l’affermarsi definitivo e autodeterminato di una nuova questione Mangini.

 

 

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