4.2. Rituali del vivere, dell’uccidere e del raccontare. Landru (1963) di Claude Chabrol

di

     
Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • Barbablù. Il mito al crocevia delle arti e delle letterature →
 

 

Landru si apre su una breve serie di immagini prima dei titoli di testa, che come accade spesso tengono insieme le fila del film che si dipanerà di lì a poco sullo schermo. Un carrello avanti entra in una stanza, un salotto borghese, ripreso di fronte e inquadrato di lato da due tende tirate a scoprire la scena, come fosse un palcoscenico. Una famiglia, in abiti primo Novecento, sta per pranzare; un uomo, con tutta evidenza il capofamiglia, siede a capotavola ed è ripreso di spalle, mentre una cameriera serve il pasto. La camera si avvicina alla nuca calva dell’uomo in primissimo piano mentre questi, con un certo disgusto, commenta la pietanza che ha davanti: «Carne tritata! Ancora carne tritata!». Dal dettaglio del vassoio colmo di carne lo sguardo sale al volto dell’uomo, e questi, alla replica della moglie, che rammenta le ristrettezze della guerra e la necessità di accontentarsi, risponde con un caustico «Appunto! Di questi tempi non si sa cosa c’è dentro». Il cinismo della battuta si lega al litigio subito successivo con la donna, che rinfaccia al marito il poco denaro posseduto e il modo scorretto con cui lo ha guadagnato, timorosa al contempo di rivelare ai figli magagne da tenere segrete. Il pianto della cameriera al pensiero del fidanzato disperso sulla Marna apre, infine, a immagini di repertorio della Grande Guerra: soldati in marcia, scoppi di ordigni, trincee in fiamme, riprese aeree di città distrutte accompagnate da una musica battente e cupa. Poi, all’improvviso e in modo piuttosto incongruo, la camera inquadra una sorta di fondale dipinto con un paesaggio lacustre, e le note di un’opera accompagnano i titoli di testa [fig. 1].

La sequenza d’apertura mette a tema i diversi fili che intessono l’ordito del film. Al racconto – suggerito dal titolo che allude alla terribile e notissima storia criminale del protagonista, Landru-Barbablù, illustrata qualche anno prima da Charlie Chaplin nel celebre Monsieur Verdoux (1947) – e al suo spazio, il salotto borghese, si intrecciano il tema duplice della ‘carne tritata’ − la guerra e, insieme, le azioni criminali dell’uomo – e il modo di inquadrare ricorrente nel film: la cinepresa fissa e frontale a riprendere una scena teatrale, ovvero una messinscena. Vorrei seguire qui il comporsi dell’ordito del film tenendo come traccia per l’appunto le figure e i motivi messi in forma nella sequenza d’apertura.

Il racconto segue il dipanarsi dei crimini di Landru-Barbablù, omicida per denaro di undici donne, sullo sfondo della Grande Guerra. Tema forte della scrittura di Françoise Sagan, autrice della sceneggiatura, è per l’appunto il parallelo stringente tra strage di Stato e crimini privati, dalla matrice borghese comune. Proposta con un discreto cinismo dall’allusione alla carne tritata della prima scena, la dimensione politica che accosta i crimini di Landru ai caduti nel primo conflitto mondiale torna in modo esplicito lungo il film, quando il montaggio ribadisce la similitudine accostando il fermo immagine delle mani delle vittime che firmano le polizze in favore dell’uomo con diverse serie di immagini di repertorio intorno alla guerra. Il motivo politico risuona ancora quando brevi inserti vedono un Georges Clemenceau dall’iconografia codificata e quasi caricaturale – la divisa nera con camicia e berretto – discutere con l’addetto stampa della necessità di utilizzare il processo al nuovo Barbablù per distogliere l’opinione pubblica dalle trattative sofferte che portarono al trattato di pace con la Germania. Lo stesso motivo torna infine dopo l’arresto del protagonista, durante il processo: se il potere mette in scena Landru a guisa di fumo negli occhi, così Landru mette in scena se stesso, recitando il ruolo dell’innocente perseguitato e insieme di sottile seduttore, per far dimenticare i delitti commessi.

Dunque Landru-Barbablù per Chabrol è prima di tutto figura politica giacché si fa strumento di una lettura tagliente della borghesia francese, raffigurata come pienamente consapevole della propria cinica crudeltà. I delitti dell’uomo sono figura dei crimini ben più gravi di una certa Francia, impavida nell’accogliere il massacro delle trincee in nome dell’amor di patria. In questo senso Chabrol è certo il più politico dei registi Nouvelle vague accanto ad Alain Resnais, giacché sposta l’asse della riflessione estetica di taglio modernista tipica dei jeunes turcs verso una dimensione politica che intreccia gli eventi individuali al farsi della storia.

La seconda traccia che vorrei esplorare muove lungo la rappresentazione delle figure femminili. La camera di Chabrol le inquadra già a pezzi, verrebbe da dire, frammentate, prima che dalle mani omicide di Landru, dal montaggio di primi e primissimi piani di volti, spalle, mani e gambe; e comunque, quando apre al piano d’insieme, le donne appaiono raggelate nei ruoli convenzionali dettati dal patriarcato borghese, mogli, amanti, vittime [fig. 2].

Allora la storia dei crimini di Landru è ancora una volta occasione di critica sociale, questa volta a illuminare l’ipocrisia della costruzione familiare borghese, con la donna incatenata in ruoli definiti dai quali non le è possibile svincolarsi. Così Catherine (Françoise Lugagne), la moglie, è costretta ad accettare le assenze, le infedeltà e i crimini del marito, che sospetta o che conosce, perché del tutto dipendente da lui dal punto di vista finanziario; così Fernande, l’amante, è l’unica che al processo viene ferita dai fischi e dalla disapprovazione del pubblico, giacché figura che mostra le crepe dell’istituzione familiare. Del resto, quelli di Catherine e in parte di Fernande sono gli unici casi in cui la soggettività femminile affiora alla superficie del film; le altre figure, le vittime, appaiono «comme des “Autres” radicalement dépourvues de conscience», come scrive Geneviève Sellier (1999), figurine simili le une alle altre e di pochissima profondità psicologica, pronte a farsi sedurre e uccidere con la stessa sorridente inconsapevolezza, in modo da mettere chi guarda in una posizione di superiorità rispetto a loro, mai sfiorate dall’ombra della presa di coscienza.

Infine la terza traccia, forse la più complessa: la messa a tema della visione come problema, ovvero il motivo di fondo del cinema moderno, l’interrogativo sull’affidabilità dello sguardo che porge le immagini.

La messa in inquadratura di Landru evoca più volte la scena teatrale, così da sottolineare l’artificialità della messa in scena [figg. 3-4]. La ripresa frontale e fissa che rimanda alla spettatorialità del palcoscenico è richiamata con insistenza dai sipari che racchiudono l’immagine; è ripresa nelle sequenze del processo segnate da entrate, uscite, monologhi, colpi di scena e reazioni affettive del pubblico; è spazio privilegiato del racconto come luogo di seduzione per Landru, che costruisce il suo personaggio e la messa in scena della seduzione e del delitto in scenografie ricorrenti (il giardino delle Tuileries, la stazione, la villa di Gambais), battute studiate e ripetute (l’inquietante e macabra richiesta, alla biglietteria della stazione, di «due andate e un ritorno»), e sempre davanti a un pubblico: le signore delle Tuileries che ne commentano la vis erotica, la bigliettaia che ripete ridacchiando la consueta richiesta, i due vicini inglesi che, pur disgustati dall’odore acre dei corpi bruciati nella stufa, non si rendono conto degli omicidi seriali. La cura nell’eseguire il rituale del delitto è osservata da Chabrol con uno sguardo sardonico che ne coglie la similitudine con il ricorrere cadenzato delle usanze familiari; come la guerra e il matrimonio, il delitto appartiene al modo di organizzare la società della borghesia.

Il film delinea poi una sorta di percorso nella storia della rappresentazione occidentale che passa per l’evocazione, in svariate sequenze, dell’iconografia della pittura impressionista, l’immagine rovesciata della ripresa fotografica, l’illusione dei giochi ottici del pre-cinema (la boule della veggente), le attrazioni dei primi anni del cinema come i travelogues − che riproducevano lo scorrere delle immagini dal finestrino del treno, registrate su pellicola, con il pubblico che si accomodava in sale simili all’interno di un vagone ferroviario −, i modi della comicità del muto – la rappresentazione dell’arresto di Landru da parte di un gruppo di poliziotti dallo zelo caricaturale – e il romanticismo di zucchero di certi racconti del cinema classico [figg. 5-8].

Cosa affiora, dunque, dalla figura di Barbablù nel racconto di Françoise Sagan e nelle immagini di Claude Chabrol? La lettura che vorrei suggerire ne vede il ruolo di occasione e strumento per svelare le ipocrisie della società borghese e patriarcale e insieme scardinare l’illusione alla base del cinema narrativo classico: il racconto della storia di Landru, oltre a far emergere impietosamente il sostrato crudele e sanguinante della società borghese novecentesca, serve anche a mettere in dubbio il modo di raccontare che quella società ha creato, svelandone l’inganno: che le immagini del film siano rappresentazione e non realtà è parte di una consapevolezza di solito tenuta quieta e come addomesticata dalle convenzioni narrative del cinema narrativo classico, e che invece il film di Chabrol riporta con insistenza davanti ai nostri occhi. Questa, in parte e a un primo sguardo, è la funzione delle immagini di repertorio, che appaiono raccontare la guerra con la forza del vero per contrapporsi alla messinscena esibita e quasi sfacciata che illustra il racconto, così da renderne evidente ancora una volta la falsità. Ma, a ben vedere, anche quelle immagini di bombardamenti, di assalti, di trincee, sono rappresentazioni, costruite secondo un codice diverso da quello narrativo del film ma in ogni caso convenzionale; come arbitraria è la scelta dell’accostamento di quelle immagini e delle sequenze di finzione ai titoli di giornale d’epoca, in un montaggio efficace che gioca sull’effetto di ‘veridizione’ ma che per l’appunto non allude o raffigura una verità o una realtà, ma ne è rappresentazione artificiale.

Che cosa mostrano allora le immagini, e dov’è, se c’è, un punto di approdo, o un appiglio per ancorare la visione e posarla con sicurezza sulle cose, in modo da poterle leggere e interpretare? Il film mette in discussione, in modo sottile ma deciso, l’illusione di verosimiglianza delle immagini giacché ne indica l’inconsistenza e l’insicurezza con sorridente crudeltà, in una linea di riflessione sullo statuto delle figure sullo schermo tipica del cinema moderno che si era aperta in Francia con alcuni film del decennio Cinquanta – ricordo solo i lavori di Max Ophuls, da La Ronde a Lola Montes, insieme al Jacques Becker di Le Trou – e che la Nouvelle vague raccoglie nel fluire impetuoso di anni in cui il cinema francese sembra voler sgranare le maglie del cinema classico per ritesserle in forme inedite. Ancora di più appare allora il ruolo – alla lettera – tagliente di Landru e della sua storia, che seziona le sue vittime mentre scardina l’universo borghese e il suo modo di raccontare per immagini, declinando la ribellione estetica dei jeunes turcs in modi più politici giacché riflette sulla società e insieme sul farsi e sul senso dei film.

 

 

Bibliografia

C. Chabrol, Come fare un film [2004], Torino, Einaudi, 2005.

M. Pascal, Claude Chabrol, Paris, La Martinière, 2012.

G. Sellier, ‘Images de femmes dans le cinéma de la Nouvelle Vague’, Clio. Femmes, genre, histoire, 10, 1999.

G. Sellier., La nouvelle vague, un cinéma au masculin singulier, Paris, CNRS, 2005.