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Landru si apre su una breve serie di immagini prima dei titoli di testa, che come accade spesso tengono insieme le fila del film che si dipanerà di lì a poco sullo schermo. Un carrello avanti entra in una stanza, un salotto borghese, ripreso di fronte e inquadrato di lato da due tende tirate a scoprire la scena, come fosse un palcoscenico. Una famiglia, in abiti primo Novecento, sta per pranzare; un uomo, con tutta evidenza il capofamiglia, siede a capotavola ed è ripreso di spalle, mentre una cameriera serve il pasto. La camera si avvicina alla nuca calva dell’uomo in primissimo piano mentre questi, con un certo disgusto, commenta la pietanza che ha davanti: «Carne tritata! Ancora carne tritata!». Dal dettaglio del vassoio colmo di carne lo sguardo sale al volto dell’uomo, e questi, alla replica della moglie, che rammenta le ristrettezze della guerra e la necessità di accontentarsi, risponde con un caustico «Appunto! Di questi tempi non si sa cosa c’è dentro». Il cinismo della battuta si lega al litigio subito successivo con la donna, che rinfaccia al marito il poco denaro posseduto e il modo scorretto con cui lo ha guadagnato, timorosa al contempo di rivelare ai figli magagne da tenere segrete. Il pianto della cameriera al pensiero del fidanzato disperso sulla Marna apre, infine, a immagini di repertorio della Grande Guerra: soldati in marcia, scoppi di ordigni, trincee in fiamme, riprese aeree di città distrutte accompagnate da una musica battente e cupa. Poi, all’improvviso e in modo piuttosto incongruo, la camera inquadra una sorta di fondale dipinto con un paesaggio lacustre, e le note di un’opera accompagnano i titoli di testa [fig. 1].

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Avevo ‘ritrovato’ Barbablù nel 1999 leggendo la monografia Barbablù di Ernesto Ferrero e, sull’onda di quel saggio, il racconto lungo di Max Frisch Barbablu – che in Italia ha avuto una sola edizione, einaudiana, del 1984 – e mi ero fatta un’idea strana: pensavo che l’Italia avesse declinato in molti modi il mito di Barbablù. Mi sbagliavo: perché il nostro non è (a differenza, per esempio, della Germania e dell’Inghilterra) il paese delle restituzioni e dei rifacimenti letterari di quella favola. Quel che il sondaggio dice è che l’Italia è, tutto sommato, abbastanza ‘barbabluistica’ (il libro di Ferrero è un calibro non da poco), ma poco ‘barbabluografa’.

Si consideri che esiste una sola fiaba italiana che si avvicina alla storia del primo Barbablù, il pluri-uxoricida seicentesco di Charles Perrault (le cui pagine sono state mirabilmente tradotte da Collodi): mi riferisco alla piemontese Naso d’argento, che peraltro circola pochissimo e non ha sostanzialmente forme epigoniche nel resto della penisola.

Si consideri che tra quella favola e i tre testi ‘moderni’ che eleggono Barbablù ad argomento di narrazione – La vita scellerata del nobile signore Gilles de Rais che fu chiamato Barbablu (e la vita illuminata del suo re) di Massimo Dursi, del 1967; Io e le spose di Barbablù, di Ada Celico, del 2010; Blu. Un’altra storia di Barbablù, di Beatrice Masini, del 2017 – vi è solo il romanzo primonovecentesco, pressoché sconosciuto, I tre delitti di Barbablù di Virgilio Bondois, pubblicato nel 1920 a Livorno per i tipi della Raffaello Giusti, la casa editrice fondata da Ugo Giusti nel 1881 [fig. 1].

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