5.2. Il Politecnico e le «storie a quadretti»

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  • Un istinto da rabdomante. Elio Vittorini e le arti visive →

 

Nell’aprile del 1965 un dibattito fra Oreste Del Buono, Umberto Eco ed Elio Vittorini inaugura il primo numero di Linus, conferendo ufficialmente al fumetto, attraverso tre voci autorevoli della cultura italiana, caratura intellettuale e dignità letteraria. Tuttavia Vittorini ha compiuto questa ‘consacrazione’ ben vent’anni prima, tra le pagine del Politecnico. Settimanale di cultura contemporanea, che, con spirito pionieristico, ospita vignette e ‘strisce’ di importazione americana in un periodico culturale per adulti.

Se infatti oltreoceano è normale ritrovare le strips all’interno dei quotidiani o dei settimanali destinati al pubblico generico, in Italia i fumetti sono considerati un genere per ragazzi e compaiono in giornali e albi appositi, come il Corriere dei Piccoli (1908). Inoltre le vignette italiane vengono solitamente ‘depurate’ dei contestati balloons, che si trasformano in più consone e nobilitanti didascalie, non di rado in rima, giustapposte all’immagine. Del resto un’ampia schiera di politici ed educatori ritiene il fumetto un sottoprodotto culturale quando non apertamente diseducativo.

Dagli anni Trenta gli editori italiani iniziano a ‘importare’ personaggi inglesi e poi soprattutto americani in giornali destinati ad avere molto successo: Jumbo, Topolino, Rin Tin Tin, Il monello, Tigre Tino, Bombolo, Cine Comico, L’avventuroso, Il vittorioso. Il Fascismo ha poi progressivamente inibito i comics americani o ne ha italianizzato i personaggi, fino a giungere a posizioni decisamente censorie e autarchiche; le vignette si popolano di eroi in camicia nera come Dick Fulmine o Romano il legionario, o ospitano riduzioni di grandi romanzi per ragazzi. Dopo la Liberazione i giornali a fumetti di ispirazione americana riprendono vigore, guardati sempre però con un certo sospetto sia dal nazionalismo di destra che dall’antiamericanismo di sinistra. Appare dunque ancor più controcorrente la scelta abbracciata dal Politecnico.

Già il numero 2 si sofferma sulle «storie a quadretti nelle quali il compito di narrare è affidato alle immagini e il dialogo ridotto al minimo indispensabile trova posto in piccole nuvolette che escono dalla bocca dei personaggi» (Trevisani 1945, p. 4), passando in rassegna i characters più convincenti e concludendo che «è possibile raccontare (e raccontare bene) con qualsiasi mezzo, anche con le storielle a quadretti» (ibidem). È forse il primo caso in cui un giornale italiano riflette in modo analitico e circostanziato sul fumetto. L’articolo è accompagnato da due vignette, significativamente proposte in lingua originale e con i caratteristici balloons [fig. 1].

Sul numero 20 viene ospitato un lungo articolo firmato dal grande maestro americano dell’animazione Walt Disney, La mia officina, in cui viene illustrata la complessa costruzione di un film d’animazione e le varie professionalità che vi sono connesse. Disney si sofferma anche su questioni strettamente narrative, specificando l’utilità di ricorrere al meccanismo retorico della caricatura, «arte di rivelare l’essenza di un oggetto o d’una personalità per mezzo dell’esagerazione e dell’accentuazione» (Disney 1946, p. 4). L’articolo è accompagnato da tre vignette con Topolino, Paperino e il lupo mannaro, con didascalie esplicative dei ‘tipi’ umani che i tre personaggi rappresentano.

Sul numero bimestrale 31-32 una lunga storia di Popeye, proposta in lingua inglese e in traduzione italiana [fig. 2], accompagna una riflessione (non firmata) sui personaggi più celebri delle strips americane, da Joe Palooka a Terry, da Dick Tracy a Braccio di Ferro, il marinaio creato da Segar per uno spot pubblicitario e che, senza intenti inutilmente moralistici, grandeggia «come un personaggio di Dickens, non come un personaggio di De Amicis» (Il Politecnico, 31-32, luglio-agosto 1946, p. 82). Non sembra secondario notare che la storia di Popeye, snodandosi per ben sei pagine, accompagna articoli su politica, economia e letteratura, in una disinvolta mescolanza fra la riflessione sull’attualità e inserti leggeri di cultura pop. La scelta di proporre le strisce in inglese denuncia il rispetto filologico per l’originale e consegna al pubblico colto il piacere di accostarsi direttamente alla lingua, cogliendo le comiche ‘sgrammaticature’ di Braccio di Ferro.

In alcuni casi si utilizza il fumetto per tradurre in modo semplice e icastico un concetto complesso, come quando nel numero 4 la vignetta con Super Topolino è occasione per una riflessione sul Superuomo nietzschiano. Secondo Stancanelli la vignetta con la Mucca Checca che compare sul numero 28 – dominato da un’accesa polemica contro la politica vaticana e democristiana – sarebbe «il primo fumetto della rivista a divenire strumento di satira politica» (Stancanelli 2008, p. 35) e ciò in riferimento al fatto che la mula Checca, di Padron Ciccio, perseguita a calci il povero lavoratore Fortunello [fig. 3].

I numeri dal 37 al 39 ospitano – annunciate già in copertina – intere storie di Barnaby e del Signor O’Malley di Crockett Johnson [fig. 4], due personaggi surreali (un vispo bambino americano e il suo ‘fato padrino’) cui il pubblico è chiamato ad affezionarsi progressivamente, secondo il principio, enunciato più tardi da Vittorini nella citata intervista a tre con Del Buono e Eco, per cui nella striscia

 

occorre che i personaggi, i rapporti, gli oggetti in essa trattati ritornino in altre strips un certo numero di volte, sei volte, sette volte, nove volte, anche quindici, sedici volte, accumulando momento su momento e aspetto su aspetto, perché noi si possa entrare nel merito qualitativo del fumetto. A furia di quantità è avvenuto quello che ho chiamato "scatto di totalità", cioè si è formato un significato secondo, che subito si riflette su ogni singola strip, anteriore o successiva, e la carica di importanza, la fa essere parte di un sistema, dandoci il senso di avere a che fare con tutto un mondo (Vittorini 2008, p. 1099).

 

Il giornale di Vittorini conferisce dunque al fumetto la dignità di un prodotto culturale rifinito, di un efficace racconto per immagini. E proprio sull’efficacia del narrare si fondano anche le preferenze della redazione in merito alla cultura artistica passata e contemporanea.

È ben nota la simpatia di Vittorini per il conterraneo Renato Guttuso, celebrato soprattutto come sapiente illustratore di romanzi (nel numero 6 de Il Santuario di Faulkner e nel numero 29 dell’Addio alle armi di Hemingway), dotato di un singolare «istinto da rabdomante che trova ciò che lo scrittore stesso non poteva sapere d’aver detto» (Il Politecnico, 29, 1° maggio 1946, p. 22). Ma non si tratta, a ben vedere, della semplice opzione realista – peraltro ampiamente maggioritaria in seno alla sinistra – in contrapposizione a quella non figurativa. C’è, nelle pagine del Politecnico, una sistematica predilezione per gli artisti o le forme espressive capaci di imbastire grandi narrazioni, raccontare con sarcasmo, insegnare con leggerezza.

È questa la ragione per cui si apprezzano «tre artisti rivoluzionari» come Daumier, Manet e Courbet (Cassou 1945, p. 4), Diego Rivera e il muralismo messicano, un’arte «essenzialmente collettiva» (Rivera 1945, p. 4) paragonabile alla grande epica giottesca. È per questo che si loda la traduzione in vignette della rivoluzione russa realizzata da Poret [fig. 5] o «Chagall, grande pittore russo e pittore di contadini» (De Micheli 1945, p. 5), la nuova scuola xilografica della Repubblica Popolare Cinese (n. 8) o la narrazione novoggettiva di George Grosz, analizzato come sapiente ritrattista caricaturale della borghesia tedesca godereccia e miope (n. 10) o come illustratore della Commedia dantesca (n. 35).

In questa prospettiva è comprensibile, per contro, il giudizio piuttosto severo che viene dato del Surrealismo, «il più disperato e completo dei tentativi della cultura moderna, cioè della borghesia decadente, di ricostruire un mondo di valori dopo averli distrutti, dopo aver rescisso ogni legame con la realtà» (R.I. 1946, p. 3). A conferma di un’opzione estetica ben chiara, parole di apprezzamento vengono rivolte, guardando al panorama contemporaneo, ai giovani pittori realisti milanesi scaturiti da Corrente: Morlotti, Cassinari, Treccani, Peverelli, Testori, Ajmone (nn. 31-32).

Se si considera che sta sviluppandosi la parabola della pittura informale internazionale e che in Italia sta esplodendo la dialettica fra i realisti e i ‘formalisti e marxisti’ di Forma 1, si capisce come Il Politecnico sia sostanzialmente in linea, almeno da questo punto di vista, con la politica culturale della sinistra comunista, benché con uno sguardo decisamente più inclusivo e aperto alle arti cosiddette ‘minori’ e alle esperienze internazionali. Ad esempio, sul numero 9 Egidio Bonfante analizza Il teatro delle marionette, di cui si sottolinea – attraverso esempi tratti da diverse realtà europee – il valore educativo e le enormi potenzialità didattiche per grandi e piccoli. Sul numero 12 Marco Cesarini, in Lotta di classe in un cartone animato, apprezza la grande qualità formale e contenutistica del cartone animato L’idea (1934) di Bertold Bartosch, con musiche di Honneger. L’attitudine è quella di cogliere nelle forme della cultura di massa contemporanea il riemergere dell’antico bisogno di narrare attraverso le immagini: sul numero 35, commentando il lungo racconto fotografico di Luigi Crocenzi Andiamo in processione, si osserva che «il racconto per immagini è antico. Cinematografo e comics (fumetti) non ne sono che le forme più recenti […]. Una terza forma che sta nascendo è il racconto per fotografie» (Il Politecnico, 35, gennaio-marzo 1947, p. 54).

Un altro aspetto merita attenzione: l’impaginazione del Politecnico – curata da Albe Steiner, quindi, dal numero 29, da Giuseppe Trevisani – rivela quello che lo stesso Vittorini ha definito uno «spirito del fumetto» (Vittorini 2008, p. 1096). La grafica steineriana, in particolare, mima soluzioni ispirate alle avanguardie russe, con griglie geometriche a bande rosse e nere, asimmetrie, tagli e incroci inaspettati, inserti di fotografie e illustrazioni, foto-racconti di grande efficacia comunicativa. Ma c’è di più: con un racconto ‘a vignette’ viene spiegata sul numero 12 la complessa procedura attraverso cui il Consiglio di Sicurezza dell’ONU interverrebbe in caso di aggressione [fig. 6]; ‘a vignette’ vengono raccontati i dettagli di complesse opere d’arte, come la natività in Giotto e Brueghel (nn. 13-14); ‘a vignette’ vengono recensiti spettacoli teatrali come Il buon soldato Sc’vèik di Ervin Piscator (nn. 13-14), film come la Corazzata Potëmkin di Ejzenstejn (n. 15) [fig. 7], Sperduti nel buio di Martoglio (n. 18) e Marcia Nuziale di Von Stroheim (n. 19), o ancora romanzi come Black Boy di Richard Wright (n. 17) [fig. 8].

In generale si può forse concludere che per un intellettuale come Vittorini, caratterizzato da un «insaziabile appetito di esperimenti ed esperienze» (Crovi 1998, p. 4), anche il fumetto partecipa a pieno titolo a quell’ambizioso progetto, lanciato nell’editoriale del primo numero del Politecnico, di ‘una nuova cultura’ (cfr. Vittorini 2008, pp. 234-237), in cui l’arte ha un ruolo centrale, purché «ritorni a essere una grandezza cui partecipino tutti» (Vittorini 2008, p. 387).

Come tutte le operazioni culturali condotte con spregiudicatezza dal giornale, anche l’introduzione del fumetto nella cultura ‘alta’ rientra nel disegno più ampio di inserire l’Italia in un contesto europeo e internazionale dopo le angustie dell’autarchismo fascista. Un obiettivo perseguito non solo grazie all’impostazione interdisciplinare e multidisciplinare del periodico vittoriniano, ma anche attraverso un’attenzione spiccata alla cultura visiva internazionale, incluse le forme della cultura cosiddetta popolare, guardate nelle loro potenzialità positive, come sintomo di una modernità multiforme da abbracciare senza snobismi e preclusioni intellettualistiche.

Chiusa l’esperienza del Politecnico, anche in seguito Vittorini avrebbe coltivato la sua passione per il fumetto, interessandosi in articolare al Charlie Brown di Schulz, paragonato, per grandezza letteraria, a Salinger; ma se negli anni Sessanta questa affermazione non scandalizza ormai se non qualche retrivo conservatore, negli anni Quaranta far rientrare il fumetto a pieno titolo tra i prodotti culturali è stato un atto più che coraggioso se non temerario.

 

Bibliografia

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Il Politecnico, diretto da E. Vittorini, Torino, Einaudi, 1945-1947.