5.2. La diva divina dell’Orsa Minore: Lucia Bosè

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Nel provino Lucia Bosè rivelò un’aria fosca e conturbante, giustissima. E quando […] cominciammo a metterle addosso abiti di alta sartoria e gioielli veri, si trasformò in uno splendore. […] Aveva 19 anni, era meravigliosa, non si poteva non innamorarsene.

Michelangelo Antonioni

 

Guarda il cielo. C’è una costellazione che ha nome «Cavaliere»? […]

Anche la congiunzione astrale inganna.

Pure, per qualche istante ci rallegri

credere alla figura. Questo basta.

Rainer Maria Rilke

 

 

Mia madre diceva che il giorno in cui venni al mondo ci fu una nevicata così grande che anche i merli erano bianchi. Mi piaceva questo suo racconto perché per tutta la mia vita ho sentito una profonda attrazione per il bianco. […] Il tatto è il senso che sviluppo maggiormente nei primi giorni di vita. Il fatto è che non aprivo gli occhi. Forse perché presentivo che in seguito li avrei tenuti ben aperti e per molto tempo.

Inizia così, in un giorno ‘troppo bianco’ per essere vero, la favola della piccola Lucia Borlani, nata in una famiglia contadina di San Giuliano Milanese e destinata a diventare, con il nome di Lucia Bosè, una delle stelle più fulgide nel firmamento del cinema popolare italiano degli anni Cinquanta. Una stella dell’Orsa Minore, a voler essere precisi, tenendo conto della collocazione siderale attribuita a Bosè da Stefano Masi ed Enrico Lancia nella loro personalissima galleria delle dive più importanti del secondo dopoguerra, elaborata sulla base di una semi-seria tassonomia astronomica. Ammesso che abbia senso interrogarsi sui criteri di gusto in base ai quali certe attrici figurano in una determinata costellazione anziché in un’altra – sarebbe un gioco fin troppo lezioso –, l’unica considerazione spendibile potrebbe, forse, riguardare un’evidenza strutturale che rimanda direttamente alla forma degli astri: l’Orsa minore o Piccolo carro ripropone il medesimo schema stellare delineato dall’Orsa maggiore, ma in scala ridotta; si tratta di una costellazione che somiglia ad un’altra, di un’identità che si definisce a partire da un’alterità, di un qualcosa che, allo stesso tempo, ‘è e non è’. Ed è proprio questa particolare tensione dinamica tra polarità mobili, tra differenze proporzionali, tra realtà e apparenza, a contraddistinguere il percorso cinematografico (e umano) di Lucia Bosè, per quanto concerne la fase aurorale della sua carriera di attrice, che coincide in definitiva con l’affermazione del suo astro divistico attraverso le collaborazioni con registi come Giuseppe De Santis (Non c’è pace tra gli ulivi, 1950, e Roma ore 11, 1952), Luciano Emmer (Parigi è sempre Parigi, 1951, e Le ragazze di Piazza di Spagna, 1952) e Michelangelo Antonioni. È il regista di Ferrara, in particolare, a plasmarne l’immagine cinematografica di «diva divina» (come viene definita dalla sua biografa spagnola, Begoňa Aranguren) e a fissarla nell’immaginario iconografico del decennio, affidandole il ruolo della protagonista in due film molto importanti: Cronaca di un amore (1950) – il primo lungometraggio di Antonioni – e La signora senza camelie (1953). Si deve partire senz’altro da quest’ultimo titolo per iniziare a tratteggiare i contorni di un ideale profilo di Lucia Bosè, perché in esso è racchiusa l’essenza del mistero che ammanta la sua figura di attrice e di donna, mistero che può essere inscritto in un interrogativo tanto banale quanto fondamentale (soprattutto se ci si sta muovendo in un contesto dai richiami evidentemente melodrammatici): cosa significa ‘non avere’ camelie?

Il personaggio in questione è quello di Clara Manni [fig. 1], un’aspirante attrice molto avvenente ma non dotata di uno spiccato talento recitativo, che muove i suoi primi passi nel sistema cinematografico italiano dell’epoca e finisce stritolata nella morsa di un ingranaggio crudele e asettico, tra produttori rapaci e media impietosi. Clara non potrà disporre di camelie, secondo Antonioni – al contrario di altre eroine melodrammatiche celebri come Margherita Gauthier e Violetta Valery –, eppure della camelia, uno dei topoi più infestanti della retorica melodrammatica, questa giovane donna evoca la fragilità, il suo candore artificiale, quell’eleganza sofisticata e fredda. Non a caso, la camelia è un fiore ornamentale, pieno di petali, eccessivo, senza fragranza, coltivato sotto vetro, per certi versi ‘falso’ nella sua biologia, come se recitasse il ruolo di fiore senza esserlo del tutto. Marie Duplessis, la vera ‘dame aux camélias’ a cui si ispirò Alexandre Dumas per il personaggio del romanzo, deve il soprannome alla sua particolare costituzione delicata, a causa della quale non poteva sopportare il profumo di alcun fiore. Le protagoniste delle opere di Flaubert e Balzac indossano camelie sui vestiti e tra i capelli, ma si tratta di fiori che possono essere ugualmente associati alle vergini per il loro candore, come ricorda Emilio Sala in un saggio sull’argomento: «All’artificialità per eccesso della cortigiana (che si concede senza essere innamorata) si passa all’artificialità per difetto della vergine (che ama ma non si concede)».

Ora, intendiamoci, Clara Manni non è Margherita Gauthier, così come Lucia Bosè non è Greta Garbo – che ha interpretato la signora delle camelie in Margherita Gauthier (Camille di George Cukor, 1936) – ma nel trionfo di doppiezza che infesta, nell’ordine, il melodramma in sé come genere (e i suoi personaggi femminili), il cinema di Antonioni, le questioni dell’attorialità e del divismo, emerge come un’atmosfera sottile di consonanze e rimandi, una sorta di velata, muta, certezza secondo cui tutto ciò che riguarda le camelie (l’averne, il non averne, ‘l’essere camelia’) ha a che fare con Bosè, a partire dal quel ‘senso di bianco’ che ha segnato il suo fato fin dalla nascita.

Rispetto alle altre attrici apparse nel brodo primordiale del nuovo divismo italiano – le cosiddette ‘maggiorate’, portentose creature archetipali che ibridano fisici da pin-up a una vocazione fisiognomica celebrante il legame tra la donna e la terra, si pensi a Silvana Mangano e al suo ‘corpo-paesaggio’ – Lucia incarna una controtendenza minoritaria: è nuova, essenziale, delicata, astratta, moderna. Giovanna Grignaffini la descrive come il risultato di un’intertestualità, l’espressione di una certa koinè sovranazionale: «l’immagine stessa di una mobilità geografica e sociale, che trasforma il soggetto in una stratificazione di provenienze ed appartenenze». Eletta Miss Italia a Stresa nel 1947, in un’edizione ricca di presenze considerevoli (seppure ancora sconosciute al pubblico) come Gina Lollobrigida e Gianna Maria Canale, Bosè si impone proprio grazie alla sua particolare «sottolineatura patetica», come dichiara uno dei giurati del concorso, il giornalista Orio Vergani: «Io “tenevo” per Lucia Bosè […]. Il concorso di quell’anno non si svolgeva attraverso le selezioni delle feste di ballo: bastava inviare una fotografia. Ne erano arrivate almeno un quintale. In fondo al mucchio, avevo trovato un microscopico “formato Leica”, un’istantanea sul sagrato di piazza Duomo, con il viso di una ragazza che era certamente un “tipo”». Quell’aspetto dimesso, da timida Cenerentola di periferia, il suo sembiante malaticcio – Lucia soffre di tubercolosi, tanto per continuare a cavalcare l’onda delle suggestioni melodrammatiche – è solo lo strato più superficiale, la corolla di petali più esterna, di una femminilità inquieta, complessa, doppia. Il giorno successivo all’incoronazione arriva, infatti, il primo scandalo: Lucia viene convinta dai fotografi a farsi immortalare nel letto della sua stanza d’albergo in una posa (neanche tanto) vagamente lasciva, con una sigaretta tra le labbra. La fotografia viene pubblicata sul Corriere della sera e solleva un vespaio, come si evince dalla finta lettera – creata ad arte dai redattori del quotidiano – di un lettore che si proclama indignato perché la ragazza appare «seminuda e peggio che nuda, addobbata secondo la moda delle prostitute, le labbra verniciate spudoratamente; e dalle labbra penzola la Lucky-Strike e fra le dita il ‘lighter’ acceso, la fortunata bambina stravolge gli occhioni». Da giovane commessa sconosciuta di una pasticceria di Milano, attraverso questo primo bagno di popolarità, Lucia viene proiettata di colpo verso uno stadio di femminilità più artefatto e misterioso, quello che Simone De Beauvoir ne Il secondo sesso (1949) cristallizza come polo dell’Antiphysis (Società), in contrapposizione a quello della Physis (Natura):

 

Così la donna non è solo physis; è anche antiphisis. E questo non soltanto nella civiltà della permanente elettrica, della depilazione a cera, dei busti di latex, ma anche nei paesi delle negre, in Cina e dovunque sulla terra. […] l’uomo vuole che la donna sia bestia e pianta e nello stesso tempo che si nasconda entro un’armatura fittizia; e la ama mentre esce dai flutti e da una casa di moda, la ama nuda e vestita, nuda sotto le vesti, precisamente come la incontra nell’universo umano. L’uomo che vive in città cerca nella donna l’elemento animale; ma il contadino che fa il servizio militare proietta sulla casa di tolleranza tutta la magia della città. La donna è campo e pastura, ma è anche Babilonia.

 

Questa tendenza, per così dire, anti-naturalistica associata a Bosè viene rafforzata nel passaggio alla carriera cinematografica – dopo un bucolico esordio da contadina con De Santis – dal meticoloso lavoro d’immagine che intellettuali, registi e stilisti operano su di lei. Lucia è come una statua viva nelle mani dei suoi pigmalioni e (ri)vive costantemente nella diegesi filmica il dilemma metamorfico ed esistenziale che il divenire diva comporta: essere, al contempo, riconoscibili e inconoscibili, sé e altro da sé, esposizione e nascondimento, eccesso e difetto, corpo e riflesso, visione e memoria, oggetto dello sguardo e pupilla, voce ed eco, vergine e cortigiana [figg. 2-3]. Alla sua silhouette originaria si sovrappongono negli anni tanti gusci identitari più o meno intercambiabili: l’icona glamour, la borghese rampante, l’upper class woman, la mannequin, l’emblema della modernità femminile sudeuropea [figg. 4-5]. Strato dopo strato, diventa praticamente impossibile distinguere la donna dall’attrice, il personaggio pubblico dal ruolo interpretato, come se si trattasse dei singoli petali di un unico fiore, una bianca enigmatica vaporosa camelia [fig. 6].

 

 

Bibliografia

B. Aranguren, Lucia Bosé. Diva, divina, Barcellona, Planeta Singular, 2003.

S. Masi, E. Lancia, Stelle d’Italia. Piccole e grandi dive nel cinema italiano dal ’45 al ’68, Roma, Gremese, 1989, pp. 27-30.

A. Levantesi, ‘Lucia Bosè, metamorfosi di una donna’, in Cronaca di un amore – Un film di Michelangelo Antonioni. Quando un’opera prima è già un capolavoro, a cura di T. Kezich, A. Levantesi, Torino, Lindau, 2004, pp. 73-83.

E. Mosconi, ‘Lucia Bosè: cronaca di una diva cosmopolita’, Quaderni del CSCI, 11 (2015), pp. 58-63.

V. Camporesi, ‘Lucia Bosè. A Star Across Borders’, Cinéma&Cie, 7 (2005), pp. 142-157.

S. Gundle, Figure del desiderio. Storia della bellezza femminile italiana, trad. it. di M. Pelaia, Roma-Bari, Laterza, 2009.

R. Buckley, ‘Glamour and the Italian female film stars of the 1950S’, Historical Journal of Film, Radio and Television, 3 (2008), pp. 267-289.