1. Lina: una e molteplice
Con i suoi stivali da cavallerizza, gli occhiali aerodinamici e il cilindro da Cappellaio matto, Lina Mangiacapre sembrava un fiabesco folletto emerso da un cratere lunare.
Angela Putino studiosa di Karl Jaspers e Simone Weil, che con Mangiacapre ha condiviso una proficua riflessione sulla figura della donna guerriera, scriveva che «la differenza è una messa in gioco del molteplice» (Putino 1998, p. 20). Lina era la perfetta incarnazione di quel pensiero.
Angela Putino e Lina Mangiacapre hanno dialogato sul comune terreno del Mito, il locus della performer partenopea, la dimensione in cui le Nemesiache hanno conquistato lo spazio per restituire una visione originale dell’azione femminista tra gli anni Settanta e gli anni Novanta del Novecento. In realtà, la storia del gruppo è andata ben oltre, ma è nell’ultimo ventennio del secolo scorso che l’attività di Mangiacapre è esplosa in una sperimentazione plurima, con la pittura, il teatro, l’azione politica e il cinema.
Nella proliferazione dei femminismi coevi l’aspetto più originale dell’operare delle Nemesiache è il legame con il territorio. La città sembra avere, nei suoi luoghi direttamente o indirettamente riferibili a racconti mitologici, una rete di gate, porte di passaggio verso un orizzonte di rigenerazione della creatività femminile: i Campi flegrei, il rione Terra, Cuma, Capo Posillipo. Questi angoli di memoria vengono usati da Mangiacapre come immagini creatrici capaci di svelare energie sospese tra passato e presente. Se nel teatro, primo habitat performativo dell’opera di Lina Mangiacapre, il corpo dissacrante disegna spazi di azione politica, nel cinema la riflessione sul reale è affidata alle qualità metamorfiche della macchina filmica. La sicura individuabilità dei luoghi non chiude il racconto nella celebrazione involuta del territorio. La prospettiva mitopoietica rende ogni luogo scelto fucina di un discorso ampio sulla ricostruzione del femminile, che nell’idea di Mangiacapre e delle sue compagne passa attraverso la riscoperta delle origini. Soprattutto le origini del cinema, dimensione creativa e ‘magica’ per eccellenza.
2. Città/Origine/Donna
La città come sfondo/personaggio/energia accomuna l’opera di Mangiacapre, in arte Nemesi o Màlina, a quella di Elvira Notari, a cui, nella cornice del Festival di Venezia, la stessa artista ha dedicato un premio. Persino il carattere artigianale dei set allestiti dalle Nemesiache, che cuciono gli abiti di scena e predispongono le scenografie, ricorda il laboratorio familiare e pionieristico della Dora Film.
La questione delle origini, o meglio dell’Origine, acquista, allora, un’importanza centrale: nel percorso di ricerca di Nemesi/Màlina l’appartenenza a un territorio è un valore fondante. Se poi nel mezzo di questo processo una catastrofe imprevedibile fa saltare tutti i vecchi punti di riferimento, la crisi, nel senso stretto di fase decisiva di un cammino, obbliga a un’urgenza di soluzioni a cui è impossibile sottrarsi. È quanto accade al percorso di Mangiacapre con il terremoto del 1980, che distrugge parte dell’Irpinia e mette Napoli di fronte alle sue criticità urbanistiche, architettoniche e sociali. La ricostruzione del territorio appare, allora, un passaggio determinante nella nascita di una nuova dimensione creativa legata alle donne. La città acquista un valore cosmico: ciò che «succede a Napoli non si ferma qui, ma è riflesso indicativo di quello che succede nel resto del mondo» (da un’intervista di Lina Mangiacapre citata in Campese 2019, p. 46). Negli anni Settanta il capoluogo campano è un centro propulsore della pratica dell’arte e della riflessione estetica, tuttavia il lavoro delle Nemesiache è interessante soprattutto per lo sforzo di uscire dai confini territoriali passando attraverso l’azione del e sul femminile.
Città/donna, donna/evoluzione, particolare (territoriale)/universale sono questi i binomi che potrebbero precisare le caratteristiche delle scelte di Lina: la città e il femminile, come principi di una nuova era creativa e politica, si sovrappongono.
Tuttavia, questa è il risultato di un’altra sovrapposizione più drammatica: la violenza storica subita dalle donne le accomuna al loro devastato territorio. Dalla ferita deve scaturire una rigenerazione, una moderna origine. D’altronde è ciò che Mangiacapre e il suo gruppo affermano con forza fin dai primi progetti. In Cenerella (1973/74) e in Le sibille (1978) il cinema e il ricorso ai miti classici e moderni diventano strumenti per rileggere il passato e denunciare la condizione femminile meridionale, subalterna in un sistema patriarcale. Per Lina e le Nemesiache non si tratta semplicemente di rintracciare le radici culturali, quanto di ritornare a un livello di immaginazione dove persiste «uno spazio di nascita in cui toccare ciò che è stato rubato dalla violenza filosofica (e politica) del logos» (Pigliaru, 2015). Il risultato è una topografia di luoghi dall’energia mitopoietica ben individuata da Giulia Damiani in Napoli in the Unmapped Practice of Le Nemesiache (2014).
In questi loci, e grazie al cinema, il pensiero di Lina si fa magia, rimescola le dimensioni temporali fino a far risorgere dal fango dei Campi Flegrei la regina di Cartagine in Didone non è morta (1987). Il racconto della storia di Enea e Didone acquista forza dalla mescolanza dei contrari, che Furio Jesi ha individuato come uno dei caratteri determinanti della mitologia (Jesi 1989).
3. Regina e Fenice
L’amante del fondatore della stirpe italica è da sempre il simbolo del conflitto tra passione e ragione. Per tanti Elissa è una vittima; per Lina Mangiacapre, il corpo, il pensiero, l’amore della Regina diventano i limiti contro cui si infrange il sogno di unione della molteplicità mediterranea. La storia di Didone ed Enea è vista nella prospettiva di un rito che ‘deve’ essere rivissuto per comprendere le ragioni di una donna capace di scegliere il proprio destino. Didone non è morta, è ancora presente, persino in una discoteca della fine degli anni Ottanta, luogo di nuovi rituali, dove una scultrice di talento (Teresa Mangiacapra, qui De Blasio) apre un varco verso il passato per raccontare della regina perduta. La Sibilla cumana, ancora una volta, come fu per Enea, è tramite per la discesa all’Averno [fig. 1]. Penetrando nella fessura dell’antro flegreo, assistiamo al rito della resurrezione di Didone [fig. 2], che ‘ricomincia’ la sua storia: di nuovo verrà abbigliata da regina, di nuovo verrà incoronata e ancora cambierà il suo nome. C’è, tuttavia, un particolare che segna la sovrana fenicia quale donna rinata: completando l’abito regale, le ancelle le cingono la vita con un ornamento dalla forma di ali scarlatte [fig. 3], simbolo dell’araba Fenice. Didone, nella città di Partenope, altra suicida per amore, assume su di sé l’immagine dell’uccello favoloso che rivive dalle sue ceneri. La vedova di Sicheo è in grado di esercitare un’influenza trasformativa sul tempo – ella stessa invoca, prima di morire, una tregua di Crono –, sullo spazio e sulla Storia. Didone/Fenice attraversa i secoli e muore vestita da ragazza degli anni Ottanta. Qualche scena dopo la ritroviamo anima dell’Ade [fig. 4], in fuga da un Enea calato nei panni di un ufficiale americano che vaga nella ferrovia cumana trasformata nell’Oltretomba. Su un treno a cui l’eroe troiano non può accedere, Anchise, anonimo vecchio in abiti moderni, restituisce senza aprir bocca l’eco di un pensiero distruttivo: «Non c’è futuro per l’Italia se non sarà infranta la maledizione di Didone» [fig. 5]. In quest’ultima frase pare esserci la radicale attribuzione di un cambiamento del paese alle scelte politiche legate al mondo femminile. Didone è colpevole della sua debolezza e per questo condannata a rinascere – prima del suicidio la regina indossa daccapo l’ornamento alato della Fenice – per essere ancora sconfitta, in una sorta di loop inarrestabile [fig. 6]. A questa vicenda, simile a tante altre storie di donne, Didone non è morta pare attribuire le criticità della condizione femminile. Tuttavia, la condanna a rivivere l’abbandono di Enea è un rito necessario, un’occasione per riflettere ogni volta su quali siano state le svolte che hanno condotto le donne, la città e il paese a quella situazione. Lo scopo è stimolare un’azione di cambiamento. Il compimento di questo progetto arriva forse negli anni successivi, quando Lina ricostruirà in Faust/Fausta, allucinato e affascinante lungometraggio del 1991, il mito dell’androgino. Tra i progetti del gruppo c’è da tempo quello di anticipare una nuova era del «ritorno dell’androgino, l’essere intero non separato» (Mangiacapre 1991). Per Nemesi le tecnologie (compreso il cinema) ricostruiscono il pensiero intero attraverso l’immagine moltiplicata. Nell’idea della fondatrice delle Nemesiache tutto il pensiero androgino e mitosofico ha come «radice l’estetica e come forza di guerra la bellezza» (Mangiacapre, 1991), ricrea il passato e il futuro (Mangiacapre, Putino 1988). Soltanto il ritorno al territorio del mito, la vera origine, ha consentito alle Nemesiache di esplorare il pensiero androgino, definito «nemesis prima del prima» (Mangiacapre 1991), inizio di tutto. È in questa zona di figurazione primigenia che Lina Mangiacapre intende condurre il suo cinema, là dove l’immagine diventa incontrollabile e suscettibile di stupefacenti – ma anche paurose – moltiplicazioni cosmiche e metamorfosi continue. La macchina cinematografica, logica e magica, riannoda le immagini moltiplicate, rilanciando le dimensioni spaziali e temporali in una prospettiva singolare. In quest’ottica rinnovata, il femminile offre un territorio elettivamente creativo: la femminilità originaria di Nemesi è il punto di partenza verso la totale libertà dell’espressione di sé.
Bibliografia
S. Campese, La nemesi di Medea (Una storia femminista lunga mezzo secolo), Pineto (TE), L’inedito, 2019.
G. Damiani, Napoli in the Unmapped Practice of Le Nemesiache, London, Royal College of Art, 2014.
F. Jesi, Mito, Milano, Mondadori, 1989
L. Mangiacapre, ‘Civiltà dell’immagine’, Manifesta, 1-2 [numero doppio], marzo 1991, pp. 1-3.
L. Mangiacapre, A. Putino, ‘Premessa’, Manifesta, 0, giugno 1988, pp. 1-3 [estratto della relazione al convegno Donna e Guerra nel mito e nella storia, tenuta dalle due filosofe a Udine nel dicembre del 1987].
A. Pigliaru, ‘Regina delle Amazzoni postumana’, Ilmanifesto.it, 7 marzo 2015
A. Putino, Amiche mie isteriche, Napoli, Cronopio, 1998.