Può un’immagine restituire alla memoria uno spazio fisico? Questo è l’interrogativo da cui muove Lo sguardo illuminato. Visioni di città alta ’60 e ’70: popolare e inedita, un progetto pensato da Giulia Castelletti e Alessandra Beltrame con l’Archivio Cinescatti di Bergamo (nato nel 2010, sotto la direzione di Lab 80 film, come centro di raccolta di home moviesprima a livello cittadino e poi regionale). Lo spettatore contemporaneo si sta progressivamente educando alla fruizione di immagini di repertorio disseminate attraverso i canali espressivi più vari – il film di montaggio, la costruzione intermediale dell’oggetto cinematografico, l’installazione, la performance. Attraverso ognuno di questi dispositivi i materiali d’archivio vengono il più delle volte risemantizzati in un contesto che di essi evidenzia l’aspetto estetico-simbolico, ascrivibile cioè ad una risignificazione che faccia parlare l’universalità e l’atemporalità della loro voce. Al contrario, Lo sguardo illuminato riflette sull’incontro tra l’archivio e il suo ‘fuori’ a partire da una precisa localizzazione geografica dell’immagine, tralasciando la sua capacità ‘suggestiva’ e cercando piuttosto nel suo atto rappresentativo la concreta evocazione di un’identità storica – del singolo e della collettività.
Il progetto viene ideato nel 2018, quando si decide di aprire al pubblico il fondo filmico di un singolo cinematore, Pino Tiani. Oggi novantaquattrenne, magistrato nato e cresciuto a Bergamo, negli anni ’60-‘70 Tiani accumula materiali visivi su ‘città alta’, la parte vecchia di Bergamo a quell’epoca quartiere popolare e oggi zona residenziale borghese, svuotata dei suoioriginari abitanti, ristrutturata e ripopolata dal turismo.
Personaggio familiare all’archivio perché in passato direttore del cineclub di Lab 80, Pino Tianinon è un cineamatore qualsiasi: registra la realtà con l’intenzione di fare delle sue immagini un film (che effettivamente realizzò nel 1974, intitolandolo Cronache di quartiere) ed è ben consapevole della qualità estetica dei suoi materiali. Se anche questi ultimi possono essere catalogati come ‘di famiglia’, il suo sguardo indaga i fenomeni sociali del vecchio quartiere, posandosi discretamente sui passanti, sulle dinamiche relazionali tra i cittadini, perlustrando le piazze, i viali, i cortili interni, fino ad entrare nelle case e filmare l’intimità delle famiglie. Così, in 16 e 8 mm, dando vita ad un infinito fondo sul quale Cinescatti ancora oggi sta lavorando, Tiani racconta inconsapevolmente quel perimetro di città alta, chiuso tra le mura medievali e simbolicamente separato dal resto di Bergamo, in una veste oggi inedita: gli anziani che chiacchierano al bar; i bambini che corrono lungo il corso sotto la pioggia; due ragazzi che si sfidano con i loro spadini; una ragazza che si asciuga i capelli in un bagno pubblico [fig. 1]. O eventi più inusuali, come le riprese con Alain Delon sotto il loggiato per Tre passi nel delirio (F. Fellini, 1968).«Piccoli spunti di vita», li definisce lui, accompagnati da un interesse reale per la sorte del quartiere nella voce e nell’azione di un gruppo di impegno (anch’esso ripreso da Tiani) che già allora lavorava alla difesa e alla preservazione del centro storico.
L’idea di mostrare questo fondo ai bergamaschi è nata in Giulia Castelletti e Alessandra Beltrame in modo spontaneo, puntando ad un obiettivo apparentemente semplice e, proprio nella sua essenzialità, particolarmente originale: riconsegnare, attraverso lo sguardo di Pino Tiani, la città alta ai suoi abitanti – come la ricordavano, come la conoscevano attraverso i racconti dei più adulti. L’intento era quello di far rivivere quelle immagini negli spazi di allora, completamente mutati o, come nel caso di alcuni cortili e chiostri interni, chiusi al pubblico, in modo che la memoria del racconto di Tianitornasse ad aderire al suo luogo di nascita riaffermando la sua identità geografica, storica e culturale e restituendo ai cittadini la possibilità di riconoscersi in essa. Uno sguardo “illuminato” in due accezioni: perché capace di illuminare alcuni aspetti socio-culturali della città attraverso una lente di rara sensibilità; perchéproiettato dopo cinquant’anni nelle strade e nelle piazze di Bergamo alta, profilando gli spazi in una nuova luce che provocasse l’incontro tra due temporalità, tra il ricordo del singolo e quello della collettività.
Alla costruzione dell’installazione sono preceduti mesi di ricerca e di graduale costruzione del rapporto con Pino Tiani. Due archiviste trentenni hanno dovuto conquistare passo passo la fiducia del cineamatore novantenne, a cui si chiedeva di «aprire il suo armadio» (nelle parole di Giulia Castelletti), mostrare loro tutta la sua vita racchiusa in quelle pellicole e affidare queste ultime ad un progetto che si serviva di mezzi tecnologici ben lontani dal concepimento e dalla realizzazione di quei materiali. Non bastava visionarli, era necessario riconoscere i luoghi precisi e, dove possibile, le persone che vi comparivano. Le due archiviste, prima di disegnare la mappa del percorso concreto che i cittadini avrebbero seguito tra le immagini installate nella città, hanno ‘tracciato’ la memoria dei più anziani attraverso i loro racconti, segnando sulla carta di città alta i punti precisi filmati da Tiani e andando a loro volta a suonare i campanelli di case private per verificare che si trattasse effettivamente di quelle apparse nelle immagini [fig. 2].
Grazie alla collaborazione dei privati (per case e cortili) e del Comune (per gli spazi pubblici) sono state concepite sette installazioni in altrettanti luoghi di Bergamo Alta. In Piazza Vecchia è stato montato un trittico di pannelli con immagini riprese da tre diverse prospettive spaziali: la piazza vista dall’alto; un concerto di musica all’aperto in cui Tiani si muove tra la folla alternando zoomate sui visi degli spettatori a panoramiche di più ampio respiro; donne che passeggiano [fig. 3]. All’interno del Museo delle Storie, un tempo una scuola, sono state proiettate le immagini di un seggio elettorale. Nei bagni pubblici, oggi ancora in piedi, le immagini della giovane di cui prima dicevamo. E così via,scegliendo per ogni spazio i filmati di quel preciso luogo o, solo in qualche caso per carenza di materiali, rimontandoli con altri che seguissero lo stesso tema rappresentativo (quello ‘da cortile’ ad esempio) utilizzando spesso per le proiezioni le pareti porose dei palazzi antichi o, ancora una volta con grande attenzione alla fusione di rappresentazione e luogo di origine, maschere di proiezione che seguissero la struttura architettonica di archi e colonnati [fig. 4].
Le installazioni – a fianco delle quali compariva una breve didascalia che si curasse di riportare quella che Castelletti ha definito «la matericità» delle immagini (luogo, tempo e formato delle riprese) – sono state attive per tre serate (22-24/08/2018). Ad ogni cittadino veniva consegnata la mappa preparata dalle archiviste e iniziava il suo viaggio nella memoria di città alta [fig. 5]. La prima serata è stata aperta da una performance nel chiostro del Convento di San Francesco che consisteva nella proiezione di tutti i materiali scelti dalle archiviste su un unico schermo accompagnati da musica elettronica live (eseguita dal complesso Inascoltocon i musicisti Fabio Recchia e Francesco Bearzatti) [fig. 6]. Questo ha costituito un elemento in più di interattività – e dunque di più attiva appropriazione delle immagini – da parte degli spettatori. La sonorizzazione dal vivo dei filmati (improvvisata sul momento ma preceduta da uno studio delle pellicole da parte dei compositori) è stata registrata e, da un’ora dopo il concerto, resa disponibile su una piattaforma online a cui gli avventori potevano accedere attraverso un QR code posizionato accanto alla didascalia di ciascuna installazione. Si poteva così scegliere di guardare in silenzio i filmati o di indossare le proprie cuffie e viverle ‘sonoramente’ [fig. 7].
Questa prima ‘condensazione’ dei materiali in un unico spazio e tempo – a chiusura dell’iniziativa, specularmente, è stato proiettato il film originale di Tiani in cui si rivede montata la maggior parte delle bobine – rende la distribuzione successiva (o precedente) tra le strade della città ancora più potente, testimonianza diretta di un archivio ‘in movimento’, che nasce nel raccoglimento e vive nello smembramento delle sue cellule. L’originalità de Lo sguardo illuminato sta tuttavia nel fatto che se quasi sempre la disarchiviazione dei materiali (in qualsiasi ambito performativo) porta alla decostruzione del loro status originale e ad unadeterritorializzazione dei suoi contenuti, in questo caso le pellicole, potremmo dire con un gioco di parole, vivono un processo di riterritorializzazione.Escono cioè dall’archivio per rilocarsi nelle pieghe dello spazio reale in cui hanno preso vita, dismettendo ogni interpretazione da parte dello spettatore e incoraggiando quest’ultimo a prendersi carico piuttosto di un atto di riconoscimento della precisa identità che quel filmato chiama in causa con la sua presenza[fig. 8].
In un certo senso le immagini di Tiani, nelle installazioni pensate dalle archiviste, oltrepassano la loro intrinseca condizione di rappresentazione e ‘perimetrano’ la memoria direttamente sul campo, corrispondendo, prima che al racconto di uno sguardo, allo spazio concreto sul quale quello sguardo si è posato. Il testo dell’immagine diventa così un varco attraverso cui leggere un luogo e la sua storia, evidenziando della riproduzione visiva quelli che Philippe Dubois chiamerebbe gli aspetti«storico-contestuali» o «architettonico-spaziali» (Bertozzi2018, p. 68). Lo scavo archeologico che queste immagini compiono nella memoria dei cittadini si incarna in uno spazio ben lontano da quello cui siamo abituati ad assistere nei canonici montaggi di repertorio. Se questi ultimi giocano spesso sul livello formale della rappresentazione (la conflittualità tra formati, il profilarsi di un racconto attraverso immagini ad esso estranee, l’utilizzo dialettico di una voce narrante)dando vita ad un ambiente di natura esclusivamente mediale, costruito su connessioni ‘deboli’ (nel senso di non immediate) tra tempo e spazio e luoghi non sempre decifrabili da un punto di vista storico-geografico – pensiamo ai film di Pietro Marcello, Alina Marazzi, Sara Fgaier e tutti gli autori che fanno un uso ‘lirico’ del repertorio –, qui l’archivio è messo a servizio di un contesto specificamente connotato.
Parafrasando Lévi-Strauss, Lo sguardo illuminato dà un’esistenza fisica alla memoria di Bergamo, scartando dall’evanescenza e dall’anonimia tipiche di un certo modo di guardare all’archivio e ricercando piuttosto un movimento identificativo da parte degli abitanti di una città: non più un ‘non-luogo’ – direbbe Marc Augé – bensì un luogo che nella sua dimensione rappresentativa si ritrova. Così come si è ritrovata nelle immagini quella ragazza che si asciugava i capelli nel bagno pubblico, contattando le due archiviste che hanno così potuto conoscere e ri-conoscere una delle poche persone di cui l’identità era rimasta ignota.
Il progetto ha avuto un successo insperato e mai vissuto da Cinescatti. Un pubblico entusiasta (non solo bergamasco) ha aderito con convinzione all’iniziativa riscoprendo il patrimonio di una «storia non ufficiale», l’ha definita Castelletti, capace di toccare le corde di più generazioni offrendosi a diversi livelli di lettura – un interesse esterno per la natura della performance o un attaccamento emotivo ai ricordi evocati. In bilico fra «anamnesi individuali e saperi collettivi»(Bertozzi 2012, p. 47) il progetto delle due archiviste è riuscito ad annodare i fili tra la prassi creativa di un singolo e la storia culturale di una parte della città, immettendo l’oggetto in una socialità e in un tempo diversi che ne ricostruissero il profilo. Deleuze e Guattari nel loro saggio su Kafka scrivevano che il fatto individuale diviene «tanto più necessario, indispensabile, ingrandito al microscopio, quanto piùin esso si agita una storia ben diversa» (Deleuze, Guattari 2017, p. 30). Anche nelle inquadrature di Tiani la visione singolare si fonde necessariamente con quella della comunità, una moltitudine di sguardi che in quelle tre serate ha visto il paesaggio incorniciarsi in un’immagine, la propria memoria recuperare spazi fisici dimenticati.
*Una parte dei contenuti presenti in questo testo riprende una conversazione dell’autrice con la curatrice del progetto Giulia Castelletti, che ha inoltre gentilmente concesso le immagini che corredano il saggio.
Bibliografia
M. Bertozzi, Documentario come arte. Riuso, performance, autobiografia nell’esperienza del cinema contemporaneo, Venezia, Marsilio, 2018.
M. Bertozzi, Recycled cinema. Immagini perdute, visioni ritrovate, Venezia, Marsilio, 2012.
G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, trad. it. di A. Serra, Macerata, Quodlibet, 2017.
D. Dottorini, La passione del reale. Il documentario o la creazione del mondo, Milano, Mimesis, 2018.