5.7. L’antidiva Gabriella Ferri

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Nota principalmente come cantante, Gabriella Ferri era invece un’artista completa. Donna intensa, irrequieta, profondamente sensibile esprime il suo talento soprattutto nell’interpretazione di canzoni e di sketch brillanti.

Capitolina di nascita (1942), deve al quartiere Testaccio la sua romanità che le darà l’identità artistica. «Il dialetto è la mia lingua» diceva spesso, e difatti non l’abbandonerà mai, rendendolo l’insegna della sua autenticità.

Scopre le canzoni popolari grazie al padre, al quale era profondamente legata, e riesce a dare forma alla sua passione per gli stornelli e la musica folk quando incontra Luisa De Santis, figlia di Giuseppe (regista di Riso Amaro). Insieme danno vita al duo Luisa e Gabriella e vanno a cercare fortuna a Milano dove vengono ribattezzate le ʻromanineʼ. La fortuna le trova e nel 1964 fanno il loro esordio televisivo nella trasmissione La fiera dei sogni presentata da Mike Bongiorno, cantando La società dei magnaccioni. Nei giorni seguenti all’apparizione televisiva il 45 giri del brano venderà un milione e settecentomila copie. «Non mi piace parlare della mia carriera. È nata per caso e continua per caso», scriverà anni dopo la Ferri. Punto di vista che nel racconto della sua carriera rispettiamo e facciamo nostro, tranne che nell’accendere dei fari sugli incontri tra questa casualità e gli ʻschermiʼ.

Il primo è il piccolo schermo che, grazie alla suddetta trasmissione di Bongiorno, le dà subito grandissima visibilità. È un mezzo che a malapena ha dieci anni, trasmette le immagini in bianco e nero, ma soprattutto è una vetrina attenta ai giovani.

Successivamente, nel 1965, è ancora uno schermo a dare grande popolarità al duo Luisa e Gabriella. Stavolta però è il grande schermo cinematografico con il ʻmusicarielloʼ 008 Operazione Ritmo, del regista e produttore Tullio Piacentini. Il film, che è una sorta di parodia di quelli dell’agente 007 interpretati da Sean Connery, anticipa i videoclip. Propone un susseguirsi di ʻcanzoni sceneggiateʼ di cantanti molto noti e non, tra cui le due ʻromanineʼ, intervallate da vignette umoristiche. A differenza della TV il cinema era a colori, così nel ʻmusicarielloʼ la Ferri si mostra per la prima volta con la sua pelle bianca, i capelli biondi, gli occhi chiarissimi, conquistando il pubblico, oltre che per la sua voce, anche per la sua bellezza.

Il duo continua a riscuotere successo ma Luisa è troppo timida per il grande pubblico e, dopo aver inciso altri 45 giri con canzoni popolari, si separa da Gabriella la quale, animata dal fuoco sacro dell’arte, prosegue da solista. Nel 1966 edita il suo primo album, torna a Roma e diventa la cantante ufficiale del Bagaglino, una compagnia di varietà (che darà i natali a molti comici romani di successo) fondata a Roma nel 1965 da Pier Francesco Pingitore e Mario Castellacci. Per Ferri il palco del Bagaglino sarà una grande palestra dove manifesterà il suo talento, affinerà le sue capacità attoriali e imparerà a gestire la sua naturale presenza scenica.

Nello stesso periodo è anche tra i protagonisti che animano la vita notturna dei locali underground della capitale, soprattutto il Piper Club. Lì conosce e stringe amicizia con Patty Pravo, spirito libero che come lei non conosceva convenzioni e amava divertirsi.

Sempre in quegli anni spensierati Ferri è la prima persona che Renzo Arbore incontra a Piazza del Popolo, appena trasferitosi da Napoli a Roma con la sua FIAT Cinquecento. Tra i due è subito love story e, mentre lui la avvia al repertorio napoletano, lei lo introduce alla romanità e al giro degli artisti della capitale come una moderna ʻCiceronaʼ. Gabriella è giovane, bella, piena di energia, amata da scrittori, poeti e attori.

Ma ecco che torna il piccolo schermo a segnare la casualità della sua carriera: nel 1969, dopo aver firmato un contratto discografico con la RCA, Ferri partecipa al Festival di Sanremo in coppia con Stevie Wonder. Presentano il brano Se tu ragazzo mio dalle sonorità beat e rhythm and blues, scritto da lei insieme al padre Vittorio e a Piero Pintucci. Della sua canzone dirà che «ha un testo abbastanza ingenuo» e forse per questo verrà eliminata al primo turno, ma non dimenticata dal pubblico, grazie anche alla sua voce e al suo look moderno: capelli corti biondissimi, vestitino con minigonna e stivaloni di pelle nera alti fino al ginocchio. La sua interpretazione e la sua immagine segnano il suo personaggio.

La partecipazione a Sanremo sancisce la nascita della ʻstellinaʼ Gabriella Ferri secondo la teoria del filosofo francese Edgar Morin (espressa nel saggio Le Star, 1995): «La stellina è a metà strada tra la pin-up e la star. Una stellina è quindi una ragazza carina capace di mettersi in evidenza e di imporre il suo nome. La stellina è alla ricerca degli attributi della sua personalità». La personalità della Ferri, infatti, verrà fuori successivamente, prima con l’incisione di altri album e poi grazie ad una grande popolarità ottenuta all’estero. Ed è proprio fuori dall’Italia che da stellina si trasforma in ʻstarʼ, inducendo conseguentemente la Rai a dedicarle dei programmi TV.

Nel 1971 la sua carriera torna così a imbattersi nel piccolo schermo con la serata speciale Questa sera... Gabriella Ferri, e poi nel 1973 con un varietà del sabato sera che prende il titolo dalla canzone Dove sta Zazà, che la stessa Ferri aveva rilanciato in modo del tutto personale. Il programma prevede quattro puntate con la regia di Antonello Falqui, autore insieme a Mario Castellacci e Pier Francesco Pingitore. Quest’ultimo raccontò anni dopo: «La Rai ci propose di fare una serie di puntate intorno alla Ferri perché aveva un grande successo in America Latina che aveva fatto scoprire, anche a quelli di casa nostra, che c’era un’artista che meritava». In questo programma cucito sulla sua personalità ormai granitica, Gabriella può esprimere tutti i suoi talenti di cantante, interprete, attrice e intrattenitrice. Il carisma, la mimica, l’ironia le permettono di giocare anche sull’identità di genere, tanto che metterà da parte la sua femminilità per indossare i panni di uno Charlot [figg. 1-3]. Introdurrà il programma in rima come un vero maestro di cerimonie e lo chiuderà come un folletto, con la bombetta, il papillon, i pantaloni corti alle caviglie ma soprattutto con delle gote tonde, rosse rosse su un viso bianco bianco. Sono entrate nella storia della televisione le sigle del programma in cui Ferri interpreta Dove sta Zazà e Sempre. E anche quando sveste i panni da Charlot, rappresenta una femminilità nuova, dominante, forte, di carattere [fig. 4]. Indimenticabile il numero con Enrico Montesano in cui i due attori mettono in scena la famosa canzone La cammesella, dove Gabriella, desiderosa di lui, gli chiede insistentemente di spogliarsi. Un ribaltamento di ruoli che rispecchia la sua reale personalità e che porta nel piccolo schermo un modello di donna emancipata. Lo stesso accade quando duetta con Claudio Villa con il quale si sfida al canto a stornello, una sorta di battaglia a suon di battute ʻrimpallateʼ. Mentre lui le canta a mo’ di dispetto «quanto sei brutta e racchia», lei gli risponde a tono, facendogli le mosse, «ma non lo vedi quanto sei tappo, tu madre non ce s’è sprecata troppo».

Con Dove sta Zazà Ferri ottiene un grandissimo successo anche in Italia e assurge allo status di diva, tanto che nel 1975 viene riconfermata dalla Rai come protagonista di un altro programma scritto per lei [fig. 5]. Si tratta di Mazzabubù, in cui si presenta di nuovo come un maestro di cerimonie in abiti clowneschi. E anche qui canta, recita, intrattiene, incanta con la sua voce e interpreta duetti comici con Pippo Franco e Enrico Montesano.

Federico Fellini l’apostrofa «pagliaccio di razza», mentre in virtù della sua romanità viene soprannominata ʻMamma Romaʼ, giacché molti rivedono in lei il piglio di Anna Magnani. Ferri, infatti, incarna la diva che unisce «elementi eccezionali con tratti ordinari, quotidiani», come sottolinea Veronica Pravadelli nel numero Divismo/Antidivismo della rivista ʻAgalmaʼ. In lei il pubblico si identifica, anche perché negli anni Sessanta e Settanta il divismo non riguarda più solo il cinema, ma anche la TV, la musica, lo sport e la moda. Lo spiega bene Carlo Sartori nel suo libro La fabbrica delle stelle, quando scrive che la TV ha determinato «un passaggio dallo ʻstar systemʼ cinematografico al ʻpersonality systemʼ televisivo… Mentre le star si comportano sempre in modo da enfatizzare la loro identità di stelle come dei ruoli che esse interpretano, le personalità televisive ʻinterpretano se stesseʼ»; esattamente come Gabriella Ferri.

Ma essere una diva in quegli anni voleva dire anche assecondare le leggi dello star system che nel frattempo era diventato celebrity system, cioè sistema basato sull’intreccio tra l’industria culturale e la produzione di beni di largo consumo. Spiega sempre Sartori: «Cambia in primo luogo la natura stessa dei protagonisti, le ʻstarʼ. Si porta infatti a compimento la loro trasformazione in prodotti perfetti della società dei consumi». Ma Ferri non era artista capace di farsi prodotto. La sua arte non nasceva a tavolino, era una necessità dell’anima e in quanto tale non poteva sottostare a nessuna regola se non quella del sentire intensamente la vita, soprattutto nel dolore. La morte del padre, durante l’ultima puntata di Mazzabubù, la segna per sempre. La perdita di quell’uomo che l’aveva iniziata al folk e con il quale condivideva tanto, la fa smarrire. Questa sofferenza diverrà un solco indelebile, che minerà la sua emotività e amplificherà le paure celate fino al quel momento, tanto da non farle trovare sollievo nemmeno nella musica. Ferri diventa vittima di una sensibilità sempre più ingestibile e il piccolo schermo televisivo non sarà più il posto giusto per accogliere la sua arte autentica. Gli anni Ottanta segnano un mutamento della TV che sostituisce al talento la visibilità fine a se stessa, rendendo famosi dei personaggi privi di preparazione artistica, capaci solo di creare empatia con il pubblico. Scrive Sartori:

Le star oggi, degradate a celebrities dai loro legami a filo doppio con la società dei consumi, giocano tutte sullo stesso piano, nello stesso, grande ʻstadioʼ multinazionale dei mass media senza altra differenza e possibilità di gerarchizzazione che non sia quella del successo, della permanenza alla ribalta: la quale è ormai peraltro condizionata non tanto dalle loro personali qualità interpretative o divistiche quanto dal ʻvalore aggiuntoʼ che esse sanno procacciare ai settori economici cui sono collegate (Sartori 1983).

Ferri non si lascerà manipolare e inglobare da questo sistema; saltano quindi tutti i presupposti per un ulteriore proficuo incontro con il mezzo che più di tutti l’aveva resa diva, la televisione. Poche altre apparizioni sul piccolo schermo la mostreranno al suo pubblico, prima che la depressione la risucchi nel silenzio dell’oblio e poi della morte.

 

Bibliografia

‘Divismo e antidivismo’, Ágalma, 22, 2011.

C. Sartori, La fabbrica delle stelle, Milano, Mondadori, 1983.

C. Jandelli, Breve storia del divismo cinematografico, Venezia, Marsilio, 2007.

E. Morin, Le Star, a cura di E. Ghezzi, trad. it. di T. Guiducci, Milano, Edizioni Olivares, 1995.

P. Strabioli, Gabriella Ferri sempre, Roma, Iacobelli editore, 2009.

V. Musumeci, Divi a perdere, Milano, Lupetti, 2010.