6.1. Alba Rohrwacher: la libertà del corpo

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È grazie a Matteo Garrone che Alba Rohrwacher nel film Il racconto dei racconti (2015) realizza il suo sogno di lavorare in un circo, di portare sul set «i miei vecchi trampoli». Da bambina Rohrwacher praticava la ginnastica artistica con il sogno di diventare acrobata. Ed è proprio questa passione per l’acrobazia, provocata da un istinto verso la libertà del corpo, che l’ha avvicinata al mestiere di attrice.

Per Rohrwacher liberarsi dal corpo significa spingersi oltre i limiti della propria esteriorità, allontanarsi dalla sua apparente fragilità. Fondamentale per la sua formazione artistica è stato l’insegnamento di Emma Dante e il suo metodo che nasce dal principio di Pirandello così come è espresso in I giganti della montagna: «Nessuno di noi è nel corpo che l’altro ci vede». In effetti nella motivazione per il premio Cabiria al Torino Film Festival del 2016, l’approccio alla recitazione dell’attrice viene definito una «irruzione gentile sulla scena cinematografica», mettendo in evidenza quella fragilità «solo apparente» di un’attrice «sensibile, dotata e versatile» che si cala nei personaggi con grande coraggio e generosità. Non fermandosi mai alla superficie dei personaggi che interpreta, Rohrwacher scava fino in fondo svelando figure spesso in bilico o intrappolate tra ribellione e ostacoli, tra amore e ossessioni; personaggi complessi, con aspetti spesso contraddittori o ambigui, mobili e transitori, alla ricerca della propria identità e soggettività.

Nei due film esplorati in questo saggio, Vergine giurata di Laura Bispuri (2015) e Hungry Hearts di Saverio Costanzo (2014) vediamo Rohrwacher operare in contesti cinematografici multilinguistici e multiculturali, proponendo personaggi sovversivi e resistenti alla ricerca della propria libertà e identità. Le idee di Judith Butler sulla performatività del genere, di Rosi Braidotti su nomadismo e trasposizione, di Adriana Cavarero sull’ambivalenza materna e di Chris Wahl sul film multilinguistico offrono le chiavi di lettura di questi due film.

 

1. Vergine giurata: un’acrobazia tra genere e culture

Vergine giurata è un film che fa riflettere (nella prospettiva di Judith Butler) sulla costruzione del genere e sulla ricerca dell’identità sessuale. Le tematiche del film si rispecchiano nel racconto e nelle immagini di un viaggio che attraversa confini insieme geo-politici, temporali e linguistici. Il film alterna il passato in Albania al presente in Italia per raccontare la storia di due sorelle alla ricerca della libertà, ovvero dei diritti che la società patriarcale dalla quale provengono nega loro. Le scelte sono due: fuggire dal paese e da un matrimonio combinato come fa Lila, oppure – ed è la scelta della ‘sorella’, Hana – giurare castità eterna di fronte alla comunità maschile del villaggio. Questo giuramento implica un’operazione performativa di travestimento, di assunzione di aspetti esteriori e comportamenti che definiscono il genere come identità agita che opera attraverso la ripetizione degli atti (Butler 1990), paragonabile al dressage descritta da Foucault. In questo modo Hana diventa Mark e accede all’agognata libertà, altrimenti prerogativa degli uomini, resa tramite una macchina da presa che riprende il muoversi continuo e irrefrenabile di Mark attraverso gli spazi delle montagne albanesi. Le immagini pero rivelano una libertà parziale e superficiale, segnata dalla solitudine del protagonista [fig. 1] e dal corpo bendato, sofferente o nascosto, svelato negli interni della casa [fig. 2].

La performatività di Mark e la sua sessualità ambigua sono intuite subito da Jonide, la figlia della ‘sorella’ italiana che Mark incontra quando arriva a casa di Lila in Italia. L’Italia rappresenta per Mark uno spazio di possibilità per sperimentare quell’identità sessuale che gli è stata negata. Il processo di graduale avvicinamento a se stessa (tramite le tantissime inquadrature in cui si guarda allo specchio) e alla cultura italiana è letto attraverso la prospettiva dell’alterità (Mark è riconosciuto come albanese per il dialetto che parla e al quale non rinuncia mai) e per il tramite della performatività di genere nel contesto italiano che, anch’esso, pone dei limiti alla libertà. Seguendo lo sguardo curioso di Mark sulla materialità dell’essere donne, ci troviamo di fronte a manichini femminili che espongono reggiseni che non sono altro che un’alternativa più elegante alle bende di Mark [fig. 3]. La corsa del gruppo di giovani donne imprigionate in vestiti da sera e tacchi a spillo tutti uguali (in un’eco di quella che Butler chiama «ripetizione») è anch’essa lontana dall’ideale di libertà rappresentato dall’immagine della corsa sfrenata delle due ‘sorelle’ attraverso la foresta albanese che vediamo all’inizio del film.

Infine, è il luogo per eccellenza della parte italiana del film, la piscina pubblica, dove il corpo vestito di Mark si contrappone ai corpi in libertà, di ogni genere, età e corporatura. In confronto ai corpi liberi che frequentano la piscina, i corpi della giovane Jonide e delle sue compagne che praticano il nuoto sincronizzato sono esempi di corpi performativi imprigionati, corpi allenati e atletici che faticano sott’acqua per poi emergere e offrire l’immagine di perfetta femminilità desiderata dai giudici e dagli spettatori. Alle confidenze della giovane Jonide, che gli rivela la frustrazione che lo sport le provoca, Mark/Hana risponde spiegandole il concetto del corpo in libertà: «Liberi di non essere per forza qualcosa», suggerendo così un discorso universale sui limiti della libertà femminile.

La regista si allontana da qualsiasi giudizio, culturale e sessuale, proponendo invece il concetto di identità come nozione fluida e in transito. Il film trova la sua conclusione in un terzo spazio, multi-culturale e multi-linguistico: il bar dei migranti dove Lila, trasformatasi in italiana, va regolarmente a cantare in albanese. Non a caso le protagoniste nomadi del film, Hana, Lila e Jonide, occupano spazi culturali ibridi, parlano lingue e abitano in culture diverse ma riescono comunque a comunicare: Mark/Hana capisce l’italiano ma parla solo l’albanese e Jonide, cresciuta in Italia da genitori albanesi, capisce la lingua materna ma parla quasi solo l’italiano. Lila invece passa da una lingua all’altra, è la figura transculturale del film, che accompagna e assiste Mark nel suo incontro con la cultura italiana e nel suo riavvicinarsi all’identità di Hana [Fig. 4]. Il film mette in evidenza la performatività culturale e sessuale e lavora su identità fluide e in transito. In questo modo propone, seguendo la nozione di trasposizione teorizzata da Rosi Braidotti (2006), una visione nomadica della soggettività, secondo la quale i soggetti fisicamente e simbolicamente mobili si oppongono al pensiero e alla rappresentazione tradizionali e offrono in tal modo modelli di resistenza.

 

2. Hungry Hearts: l’amore materno e l’alterità

La scena d’apertura vede i due protagonisti del film bloccati nel piccolo bagno di un ristorante cinese a New York. La fragile Alba/Mina (diplomatica presso il consolato italiano di New York), che indossa un vestitino elegante color canarino, non sopporta la puzza provocata dall’imbarazzato futuro amante/marito, Jude, un ingegnere americano. Da questa scena bizzarra e intima insieme nasce una storia d’amore; Mina rimane incinta, rinuncia alla carriera diplomatica, i due si sposano, e da qui tutto cambia. La trasformazione in genitrice fa della figura di Alba una madre ossessiva, legata pericolosamente a una serie di convinzioni fortissime che mettono a rischio il bambino.

Recentemente il cinema italiano, attraverso alcune registe come Alina Marazzi e Cristina Comencini, sta proponendo realtà materne alternative attraverso film che affrontano il tema che psicologi e studiosi definiscono «ambivalenza materna», ovvero quella «esperienza condivisa a diversi livelli da quelle madri che provano allo stesso tempo sentimenti di amore e di odio per i propri figli» (Parker 1995, 1). Hungry Hearts, invece, ci propone un’altra ‘perversione’ dell’amore materno che invece di trasformarsi in un sentimento negativo di odio diventa un amore ossessivo che a sua volta mette a rischio il neonato. Secondo la nozione di «inclinazione materna» proposta dalla filosofa Adriana Cavarero, il problema principale sta proprio «nel costringere l’io, orgogliosamente incapsulato nella sua verticalità, a rinunciare alle sue pretese di autonomia e indipendenza» (Cavarero 2013, pp. 141-142). La figura apparentemente fragile di Alba/Mina cela un carattere forte: secondo l’attrice «vive una verità tutta sua, che cerca di imporre agli altri, mettendo addirittura in pericolo la vita di un neonato». Non per odio, in questo caso, ma per un amore eccessivo che si trasforma in un’ideologia cieca, la madre vuole proteggere il bambino dagli ambienti inquinati, anticipati nella scena d’apertura e in seguito in una scena in cui Mina, incinta, si muove sul terrazzo del grattacielo newyorchese, circondato da una selva di antenne satellitari. Se in un primo tempo il marito sostiene le decisioni prese da Mina per il nutrimento e la cura del bambino, quando il piccolo sembra non crescere inizia a mettere in dubbio la capacità di lei di svolgere il ruolo di madre. Questa visione di Mina come madre imperfetta viene sostenuta dal punto di vista del film che fa riferimento esplicito a un corpo femminile imperfetto – incapace di nutrirsi, di partorire in modo naturale, di allattare, e dunque di fare scelte adeguate. La costruzione di Mina in quanto madre il cui comportamento sbagliato porta a mettere a rischio la vita del bambino viene rafforzata da scene raccontate attraverso l’uso di obiettivi grandangolari (effetto fish-eye) che trasmettono la sofferenza, la tensione emotiva e la mancanza di comunicazione tra i due personaggi rinchiusi nell’appartamento e isolati dal mondo esterno.

La crescente mancanza di comunicazione e la disintegrazione della relazione tra i due protagonisti deriva anche dalla costruzione di Mina come ‘altra’. Tra Jude e Mina esiste anche una differenza culturale, che lui sembra voler superare quando al matrimonio le canta con molto sforzo, in un italiano storpiato, Tu si’ ‘na cosa grande pe’ me. Questa scena romantica e strappalacrime che esprime una vicinanza culturale mette in evidenza un’attrazione che al contrario si basa sulla differenza e l’esotismo di Mina, marcato dal suo seducente accento italiano (questo aspetto si percepisce solo nel film in versione originale). Ma l’amore iniziale tra i due, riflesso nelle scene in cui li vediamo attraversare le vie di New York [fig. 5] o scambiarsi sguardi affettuosi, in inquadrature a due di corpi e anime in sintonia, si trasforma presto in incomprensione e mancanza di comunicazione. Mina e Jude parlano poco e si allontanano sempre di più a causa di incomprensioni ideologiche e linguistiche [fig. 6]. Mina non si fida dei dottori, della città in cui vive, delle istituzioni; le stesse istituzioni cui Jude si rivolge per cercare di ‘salvare’ il bambino. Sempre di più, il punto di vista del film assume quello di Jude e sostiene la sua assunzione del ruolo materno. Il film nelle sue scelte estetiche abbandona Mina, ‘inclinandosi’ verso Jude e la sua ‘inclinazione’ verso il bambino [fig. 7], che nutre di nascosto (in chiesa, simbolicamente) e che poi finirà per sottrarre alla madre. Il film sostiene il punto di vista del padre, perdonandogli il tradimento (non a caso si chiama Jude), l’aggressione fisica e l’abbandono della moglie, caratterizzata come figura incontrollabile e irrazionale. Le due persone sulle quali Mina avrebbe dovuto poter contare, il marito e padre del bambino e la suocera (sospetta fin dal primo incontro, quando si offre di adottare il bambino), finiscono invece per lasciarla sola in una città e in una cultura che non le appartengono. In un finale senza via di uscita, la madre, che non rinuncia facilmente alla sua maternità e che riesce temporaneamente a riconquistare il figlio, è poi eliminata dall’altra madre disperata, affidando in questo modo la maternità al padre, genitore buono e razionale.

Queste due opere transculturali offrono due visioni diverse del mondo: mentre Vergine giurata propone spazi di apertura e di nuove possibilità, Hungry Hearts preclude ogni spazio a una donna pericolosamente trasgressiva, con il film che si chiude su una scena che rinforza la rigidità sociale e il patriarcato.

 

3. Conclusione

La ricca filmografia di Alba Rohrwacher include produzioni e co-produzioni nazionali e internazionali, dalla commedia al film drammatico al thriller, in cui l’attrice recita in italiano ma anche in francese, tedesco, inglese, albanese. Come si è visto nei casi esplorati qui, nei suoi film Rohrwacher propone nuovi spazi per figure femminili contemporanee, lontane dalle figurazioni tradizionali di madre, moglie, figlia che hanno popolato il cinema italiano. I personaggi interpretati da Rohrwacher in questi due film sono esempi di personaggi sovversivi, trasgressivi, resistenti, forti – corpi che resistono alle regole culturali e istituzionali. Nei suoi ruoli, Rohrwacher si mette in relazione con se stessa e con l’altro, trasformandosi fisicamente e accettando la sfida della difficoltà linguistica, attraversando frontiere di genere e di culture, ribellandosi e resistendo in una continua esplorazione di altri modi di stare al mondo. Infine, si può dire che il lavoro di Alba sul corpo rappresenta quello che Susan Knobloch (1999) definisce «resistance through artistry», resistere attraverso il lavoro artistico. Né troppo controllata vulnerabile, l’attrice usa il suo corpo in modo sovversivo per segnalare le motivazioni interne dei suoi personaggi.

 

 

Bibliografia

H. Bhabha, ‘The Third Space: Interview with Homi Bhabha’, in J. Rutherford (ed. by), Identity: Community, Culture, Difference, London, Lawrence & Wishart, 1990, pp. 207-221.

R. Braidotti, Transpositions: On Nomadic Ethics, Cambridge, Polity Press, 2006.

J. Butler, ‘The Pleasures of Repetition’, in R.A. Glick, S. Bone (ed. by), Pleasure beyond the Pleasure Principle: The Role of Affect in Motivation, Development, and Adaptation, New Haven, Yale University Press, 1990.

A. Cavarero, Inclinazioni: critica della rettitudine, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2013.

S. Knobloch, ‘Helen Shaver: Resistance through Artistry’, in A. Lovell, P. Krämer (ed. by), Screen Acting, London, Routledge, 1999, pp. 106-125.

R. Parker, Mother Love/Mother Hate: The Power of Maternal Ambivalence, New York, Harper-Collins, 1995.

C. Wahl, ‘Discovering a Genre: The Polyglot Film’, Cinemascope-Independent Film Journal, 1, 2005, pp. 1-8.