6.4. Farsi immagine: gli esperimenti di Marinella Pirelli davanti alla cinepresa

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Figura eccentrica nel panorama dell'arte italiana, pur non aderendo a nessuna delle correnti artistiche degli anni Sessanta e Settanta, Marinella Pirelli ha avuto contatti personali e frequentazioni costanti con molti esponenti dell'avanguardia di quegli anni. L'artista si è dedicata a lungo alla sperimentazione in un percorso intimo e solitario da cui emergono due aspetti fondamentali della sua pratica, su cui lei stessa ha riflettuto lasciandone testimonianza nei suoi scritti e diari – oggi conservati nell'Archivio a lei dedicato. Il primo, l'impossibilità da lei avvertita, di «stare dentro un linguaggio – costruirsi un limite»,koinè comuni. Il secondo aspetto ha a che fare con il suo costante desiderio di sperimentare, una forza quasi che la costringe «a provare e non ripetere mai». Un'avventura che si rinnova inscritta in un concreto fare artistico, in una progettualità che si esprime in maniera diversa a seconda dei linguaggi con cui di volta in volta si confronta. Non a caso nel suo variegato repertorio si trovano opere che spaziano dai quadri ai film sperimentali, dai disegni alle fotografie fino a giungere a installazioni ambientali.

Agli inizi degli anni Sessanta, la famiglia Pirelli si trasferisce a Varese. È questo un momento di fervida attività per Marinella che affianca a una intensa attività pittorica – «io dipingo moltissimo», appunta nel diario –, una felice sperimentazione con la cinepresa, a cui si accosta proprio in questo periodo, in continuità con i suoi interessi sulla rappresentazione della luce: «uno strumento rapido per prendere appunti... i mutamenti della luce, le atmosfere luminose» (Gualdoni 1997, p. 53).

La macchina da presa le permette inoltre di cogliere la mobilità dei processi: «Più che cristallizzare un’immagine o un gesto o un pensiero in un momento – scrive in un appunto manoscritto – mi interessava dare il senso del farsi di un’immagine, di un gesto, di un pensiero» (Gualdoni 1997, p. 54); insieme alla possibilità di indagare una nuova dimensione che si crea nella relazione tra corpo e tecnologia, grazie all'impiego di cineprese leggere e maneggevoli.

Si apre così la sua più felice e pionieristica stagione artistica nell'ambito del cinema sperimentale interpretato come progressiva scoperta di una tecnica legata alla luce e al movimento, che la porta a confrontarsi con le maggiori tendenze del cinema di ricerca del periodo: dall'animazione (Gioco di dama, 1961-63; Pinca e Palonca, 1963-64), all'autoritrattistica (Narciso, film esperienza, 1966-67 e Doppio autoritratto, 1973-74), ai film d'artista su mostre e installazioni fino all'anticipazione, con il progetto Film Ambiente (a partire dal 1967 e presentato per la prima volta nel 1969), di quella forma di visione che si sarebbe chiamata solo in seguito Cinema Espanso.

Tre pellicole in particolare saranno prese qui in considerazione, momenti di riflessione autobiografica sulla femminilità e sull’essere artista, su cui indubbiamente ha influito l'amicizia con Carla Lonzi, protagonista del film-documento Indumenti (1966-67). Narciso, film esperienza, un'esplorazione del proprio corpo, in un momento di intimità domestica, la cui colonna sonora è costituita dalla stessa voce dell'artista registrata al magnetofono mentre si interroga sulla propria identità. Infine, Doppio autoritratto, realizzato tra il 1973 ed il 1974, in cui Marinella Pirelli torna a filmare se stessa e con il quale l'artista chiude la stagione di sperimentazione con la pellicola.

 

 

1. Narciso, film esperienza

Seduta nel suo studio Marinella Pirelli riprende parti del proprio corpo avvicinando così tanto la cinepresa fino quasi a deformarne le fattezze. Frammenti di parti di sé si mostrano al nostro sguardo [fig. 1]: prima i piedi, poi le gambe di cui scorgiamo la grana della pelle, le piccole variazioni del tessuto; a seguire le mani con le vene in evidenza, le dita che stringono una sigaretta accesa, la fede all’anulare. La cinepresa ruota intorno all’artista che si trova ora in piedi, nuda di fronte all’obiettivo [fig. 2]. In questo suo scrutare continuo e ravvicinato di sé si vedono di sfuggita il ventre, l’ombelico, un capezzolo, e poi ancora le gambe e i piedi. Il corpo diviso in frammenti si parcellizza, si deforma, mostra la perdita dell'unità di sé, di una possibile identità.

Durante una proiezione in casa della pellicola 16 mm — in sottofondo si sente per tutta la durata del film il ronzio del proiettore – Marinella Pirelli aggiunge al film il sonoro dei suoi commenti mentre si interroga sulla possibilità di essere stessi, sulla dimensione di artista e di donna, che la sera si riesce a ritagliare dei momenti di lavoro, quando i bimbi al piano di sopra dormono.

Infine, tematizzata anche nelle parole, si fa evidente la tensione che si crea tra la struttura oggettiva del film e la dimensione soggettiva dell'esperienza delle riprese. Vedendo per la prima volta le immagini di se stessa proiettate nel proprio studio, l'artista si mette nella medesima posizione dello spettatore, di cui ricerca la complicità, perché si possa realizzare una «contemporaneità (non di vita) ma di soggettivo che si oggettivizza quando diventa linguaggio» (Gualdoni 1997, p. 62). Grazie alla dimensione cinetica del film, l'artista porta così a consapevolezza i processi del farsi del linguaggio, che si ripeteranno ogni volta che qualcuno guarderà Narciso, perché l'esperienza vissuta dell'artista si è trasformata, grazie alle immagini e alle parole, in ‘un oggetto-esperienza’.

I commenti registrati al magnetofono – «Ho un registratore nel cervello» sussurra a un certo punto del film – sono un chiaro riferimento alle interviste che la sua amica Carla Lonzi stava conducendo proprio in quegli anni con alcuni fra i maggiori artisti che operavano allora sulla scena italiana. Dal libero montaggio di quegli incontri intimi nasce Autoritratto, pubblicato per la prima volta da De Donato nel 1969. Un testo seminale il cui intento è quello di riprodurre una specie di convivio «reale per me che l’ho vissuto, anche se non si è svolto nell’unità di tempo e di luogo» – come chiarisce lei stessa nell’introduzione (Lonzi 2010, p. 6). Libro anomalo e cruciale, costruito senza pause e né articolazioni interne, in cui la studiosa intende dare spazio agli artisti che parlano di sé in prima persona, sottraendosi dal proprio ruolo di critico, lasciando spazio all’automatismo della registrazione e alla costituzione della soggettività possibile solo nell'incontro con l’Altro. Sempre più in questi anni Carla Lonzi avverte il momento critico estraneo all’attività artistica e ne fa emergere tutta la falsità, denunciandone le implicazioni con una società il cui scopo è quello di contenere l’attività creatrice, renderla accessoria, addomesticarla. Con grande coerenza di lì a poco Carla Lonzi avrebbe abbandonato il mondo dell’arte in favore dell’impegno diretto nel movimento femminista, di cui sarà una delle pioniere in Italia, dando vita nel 1970, insieme alla pittrice Carla Accardi, al gruppo Rivolta femminile.

 

2. Indumenti

Il sodalizio che lega Carla Lonzi a Marinella Pirelli è qui documentato: nel breve tempo dello svolgersi di una bobina 16 mm l’artista riprende un momento privato fra la critica d’arte fiorentina e Luciano Fabro. Un estemporaneo calco dei seni di Carla Lonzi con della carta velina bianca alla fine di una cena tra amici [fig. 3]. Con precoce intuizione Marinella Pirelli si era già inserita con Luce e movimento (1967) nel panorama particolarmente ricco dei film d'artista su mostre che si sviluppa lungo la metà degli anni Sessanta in Italia. Il film è un susseguirsi di forme astratte e geometriche che prende spunto dall'esposizione di opere cinetiche alla Galleria dell’Ariete di Milano curata da Gillo Dorfles.

In Indumenti la performance d’arte si sdoppia: davanti all’obiettivo si dà l’azione artistica di Fabro, dietro di esso l’azione cinematografica di Marinella Pirelli. La pellicola assume qui la duplice funzione di documentazione e di processo generativo in cui – sottolinea Èrik Bullot – «il corpo femminile assume un significato politico e artistico all’interno di una pratica performativa del cinema» (Aspesi, Ratti 2019 p. 124).

 

3. Doppio autoritratto

Siamo nel gennaio 1974, a meno di un anno dalla morte in un incidente stradale del marito Giovanni, la cui scomparsa traspare in questo lavoro complesso e toccante che mostra Marinella Pirelli di nuovo impegnata nel duplice ruolo di operatrice e attrice.

Il film va letto come una sorta di contraltare di Narciso. Marinella Pirelli torna, infatti, a riprendere se stessa, questa volta però abbandonando ogni controllo sulla cinepresa. Il film alterna a suoi ritratti frontali, ieratici, girati in studio su sfondo bianco [fig. 4] – il cui volto appare attraversato da accenni di emozioni che ne increspano appena la superficie – a sequenze girate attraverso un movimento incontrollato della cinepresa rivolta verso il proprio corpo. Immagini sfocate, confuse, la cui sequenza inizia nuovamente con un primo piano dell'artista, questa volta però ripreso con la macchina a mano [fig. 5], per poi spostarsi verso il collo, perdersi nella stanza e infine ritornare ancora su di lei, in maniera molto ravvicinata: passano davanti all'obiettivo parti del corpo, i capelli, la nuca, le dita della mano.

D'improvviso la musica, che si era interrotta bruscamente sulle riprese frontali, riprende. Ma se prima era il Lamento di Arianna di Monteverdi – il canto di una donna abbandonata che invoca la morte come liberazione del suo martirio – a fare da sfondo ai primi piani di Marinella Pirelli, ora è la Juditha Triumphans di Vivaldi ad accompagnare la sequenza delle immagini che seguono.

L’artista si abbandona all'idea di un cinema che non si può (e non si vuole) dominare, un linguaggio automatico che la oggettivizza, facendola paradossalmente sparire dal suo autoritratto. Guardando la propria immagine – il proprio farsi in immagine, il proprio oggettivarsi – non si coglie più se stessi, come suggerisce la dedica all'opera di Vincenzo Agnetti, Quando mi vidi non c’ero, l'altro autoritratto cui fa riferimento il titolo.

Marinella Pirelli con questo film rinuncia dunque alla propria soggettività per darsi a tutti in immagine, oggetto pronto per lo sguardo di tutti – come si legge all'inizio del film: «La cinepresa era il mio partner: ognuno di voi è ora il mio partner».

Dopo essersi consegnata a noi in immagine, Marinella Pirelli si ritrae quindi dal mondo scegliendo di vivere appartata nella campagna della bassa veronese per dedicarsi alla coltivazione della frutta. Una lunga pausa riflessiva in cui continuerà anche a disegnare e a sperimentare con la macchina fotografica e con la cinepresa in una ricerca intima che le permettesse di cogliere una visione necessaria, questa volta però solo per sé.

 

 

Bibliografia

L. Aspesi, I. Ratti (a cura di), Luce. Movimento. Il cinema sperimentale di Marinella Pirelli, Milano, Electa, 2019.

F. Gualdoni (a cura di), Vita intensa e luminosa di Marinellia Pirelli, Milano, Skira, 1997.

Lonzi C., Autoritratto. Accardi, Alviani, Castellani, Consagra, Fabro, Fontana, Kounellis, Nigro, Paolini, Pascali, Rotella, Scarpitta, Turcato, Twombly, Milano, Et al./Edizioni, 2010.