7.4. Sabotaggio, ricerca e paura della verità in alcune riscritture del mito di Barbablù in ambito germanofono

di

     
Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • Barbablù. Il mito al crocevia delle arti e delle letterature →
 

Grazie alla fortunata ricezione del racconto di Perrault [fig. 1], delle varianti dei fratelli Grimm [fig. 2], di Franz von Pocci [fig. 3] e di Ludwig Bechstein [fig. 4], la storia di Barbablù ha conosciuto una diffusione molto ampia in ambito germanofono. La letteratura d’autore si è presto appropriata del mito e dal Romanticismo a oggi sono molti i nomi di rilievo che ne hanno proposto riscritture originali. Se quelle sette e ottocentesche sono per lo più di carattere ironico e giocoso, il Novecento, che pure conosce versioni parodiche, apre all’aspetto inquietante della vicenda: il protagonista della fiaba, lungi dall’essere neutralizzato tramite il comico, acquisisce fisionomia di personaggio letterario a tutto tondo, dotato di un’anima che il testo letterario scandaglia, non per forza con intenti assolutori; allo stesso modo si problematizzano la protagonista femminile e il suo statuto di vittima. L’elaborazione del mito offre un quadro diversificato non solo in base ai periodi e all’originalità degli scrittori, ma anche a seconda dei mitologemi cui le diverse riscritture fanno riferimento. A partire da quello dell’apertura della porta che dà accesso alla stanza proibita – luogo di memoria della violenza –, quindi della indelebile macchia di sangue sulla chiave caduta di mano alla moglie di Barbablù alla vista dei corpi delle sue predecessore, in questo contributo propongo alla riflessione una prospettiva finora trascurata negli studi sulle riscritture di lingua tedesca: la ricerca della verità e le sue conseguenze sul soggetto cercatore.

Nelle varianti fiabesche l’oltrepassamento della soglia che divide i vivi dai morti segna per la moglie curiosa il passaggio da una vita nell’abbondanza, ma ignara, alla scoperta di una verità che toglie ogni pace. Non a caso la vicenda spesso è stata messa in collegamento con la storia di Adamo ed Eva. Al di là della curiosità e della stigmatizzazione della donna, d’interesse per la prospettiva qui proposta sono altri due parallelismi: il divieto di Dio ad Adamo ed Eva di mangiare il frutto dell’albero, che pure colloca nel loro spazio vitale, e quello di Barbablù di non aprire la porta pur dando alla moglie la chiave per farlo, sono accomunati dall’avvertimento della morte (esplicito in Genesi, spesso solo alluso nelle varianti fiabesche) quale conseguenza certa dell’eventuale infrazione [fig. 5]. In entrambi i casi la trasgressione lascia un segno (la scoperta della nudità nella Genesi, la chiave macchiata di sangue nel racconto di Barbablù), ed è solo a causa di questo segno che l’infrazione è scoperta da chi ha impartito il divieto [fig. 6]. Ma l’esito, si sa, è diverso. Mentre Adamo ed Eva, cacciati dall’Eden, sono condannati a una vita mortale fatta di lavoro e di doglie, l’infrazione della moglie di Barbablù non ha conseguenze durature: salvata dai fratelli che uccidono l’uxoricida, la donna eredita tutte le ricchezze del marito e si risposa (in Perrault) o torna alla casa paterna (nelle varianti tedesche). La fiaba conosce i passaggi repentini da uno stadio all’altro, non la trasformazione progressiva di uno stadio in un altro: in genere elimina il ‘male’, ristabilisce l’ordine, e il finale rassicurante è spesso presentato come di lunga durata. Così anche in Barbablù.

Le riscritture letterarie si appropriano dunque di una storia – e di una verità – già scritta, che rimane sullo sfondo come cartina al tornasole. Nel ripensarla esse abitano non di rado quegli spazi (narrativi e di senso) che la fiaba lascia programmaticamente vuoti, non motiva oppure liquida o dimentica velocemente. Così molte riscritture d’autore (serie o comiche) indugiano proprio sull’idea di verità tradizionalmente legata al nome di Barbablù e sugli effetti della sua scoperta.

Brevi cenni a precipue dinamiche testuali presenti in quattro testi possono fornire un’idea della varietà di interpretazioni che ne scaturisce. Si tratta, per certi aspetti, di casi limite e per questo particolarmente importanti per illustrare il campo di indagine qui proposto. I primi due – una delle prime e una delle ultime riscritture – sono accomunati da una prospettiva negativa: per quanto con modalità e finalità assolutamente divergenti i loro autori, Ludwig Tieck e Dea Loher, si servono del mitologema dell’apertura della porta in modo paradossale, ossia per operare una sorta di sabotaggio di questa specifica idea di verità con punte di parossismo comico il primo, grottesco la seconda. Max Frisch e Uwe Timm offrono, invece, due esempi eloquenti di casi in cui il mitologema si metaforizza, e rimanda alla scrittura come modalità conoscitiva.

In Die sieben Weiber des Blaubarts: eine wahre Familigengeschichte (Le sette mogli di Barbablù: una storia famigliare vera) di Tieck, a differenza delle versioni teatrali dello stesso autore, la porta non nasconde alcun segreto terribile: nella stanza proibita inizialmente c’è solo una testa di piombo, il Ratgeber (consigliere), che risponde alle domande dello sciocco Blaubart e gli dà buoni consigli. La testa è un surrogato dell’intelletto di cui è privo il protagonista della storia; ma la sua prima amante Mechthilde la scopre e le pone così tante domande che l’intelletto si esaurisce. Ormai senza guida, Blaubart andrà pian piano incontro al destino di uxoricida morto ammazzato a cui la fiaba di Perrault – che Tieck arricchisce quanto a trama, ma stravolge quanto a strategia narrativa – già lo destinava. La verità, annunciata nel sottotitolo, è pura finzione – come già denotano nome e data riportati sul frontespizio dell’edizione originale [fig. 7]. La riscrittura sta sotto il segno dello scherzo, dell’ironia romantica, dell’arabesco, del meraviglioso poetico; tutto è gioco letterario e metaletterario, e l’antiromanzo di Tieck è, tra le altre cose, Literatursatire che, pur non contenendo segreti, offre al lettore continue sorprese grazie alla fantasia poetica sabotatrice del principio narrativo consequenziale da una parte, della ricerca di un senso e di una verità dall’altra. D’altronde, non c’è sabotaggio senza cosa sabotata: nel caso specifico la ‘griglia’ Barbablù è funzionale a suscitare nel lettore quelle determinate aspettative che il testo ironicamente disattende.

Come già in Tieck, anche nel dramma di Dea Loher Blaubart – Hoffnung der Frauen (Barbablù – Speranza delle donne) del 1997 i personaggi sono marionette scarnificate, oltre che cifre e citazioni letterarie. Ogni donna proietta su un Blaubart privo di carattere il proprio ideale di amore, che la porta a trasfigurare la realtà alla ricerca di una verità superiore [fig. 8]. Questa trasfigurazione è il ‘peccato originale’ da cui derivano meccanicamente dipendenza e violenza. Blaubart uccide tutte le donne – a parte l’ultima che, con un estremo atto di riscatto del genere femminile dallo stato di minorità, si trasforma in sua assassina – e in una scena aggiunta per la versione statunitense della pièce, è lui che apre le porte di sette stanze, tutte vuote: «La stanza vuota. Per essa dovettero morire. La morte la punizione per la scoperta del vuoto. […] Nessuna morta nessun sangue. Restituitemi la chiave ché possa gettarla via. Ché possa lasciare aperta la porta in modo che nessuno debba più provare paura» (Loher 2005, pp. 139-140, traduzione mia). Loher richiama l’idea di verità veicolata dal racconto di Barbablù per svuotarla della sua forza attrattiva mortifera.

Il medico Felix Schaad, il Blaubart del racconto omonimo di Frisch (1982), dopo dieci mesi di carcere preventivo e un processo per omicidio ha perso tutto: onore, stima, pazienti, identità. Sposato sette volte e sospettato di aver ucciso la sesta ex moglie, viene ribattezzato dalla stampa col nome dell’uxoricida fiabesco. Così era solita chiamarlo in modo vezzeggiativo anche la sua settima moglie. Schaad è il maggiore indiziato: oltre alla donna uccisa, è l’unico ad avere la chiave del di lei appartamento (e luogo del delitto). Viene però assolto e il racconto comincia a processo concluso. Si tratta di un lungo monologo che prende forma a partire dal presente del pensiero del personaggio, in un’alternanza continua tra ricordi del processo (domande, risposte, testimonianze), riflessioni sull’oggi, ricordi personali di un tempo ormai remoto, sogni. Ripercorrere la memoria del processo porta Schaad a oggettivare se stesso: prende così consapevolezza di un senso di colpa indefinito che lo ha sempre accompagnato, scopre importanti amnesie e, alla fine, si dichiara colpevole. Indotto dal processo, intraprende una ricerca di verità su se stesso, che sfocia in una (involontaria) falsificazione: nel frattempo, infatti, il vero omicida è scoperto, e lo statuto di Schaad passa da (presunto) carnefice a (reale) vittima (del sistema giudiziario, della stampa, di se stesso). Ma la vittima ha ormai interiorizzato la colpa: se essere Barbablù restituirebbe al personaggio un’identità (seppur terribile), il testo gli nega questa ‘facile’ soluzione. Detto con la metafora della fiaba: aprire la porta di Barbablù senza essere Barbablù significa comunque vivere con la macchia della sua colpa. Il testo segue la ricerca di Schaad e insieme la espone fino al punto in cui il personaggio tenta una goffa via d’uscita da questa situazione insostenibile: volontariamente si schianta con la macchina contro un albero, dopodiché, se non muore, sicuramente ammutolisce senza salvazione.

In Come mio fratello (Am Beispiel meines Bruders) Timm intende scrivere su Kurdel, suo fratello morto il 16 ottobre 1943 alle ore 20 all’ospedale da campo 623. Può scrivere di lui, arruolatosi volontario nelle Waffen-SS e attivo nella Totenkopfdivision, solo dopo che anche gli altri membri della famiglia sono morti. Scrivere per capire, infatti, significa infrangere un divieto e macchiarsi della colpa di non far riposare i morti: «I morti bisogna lasciarli in pace» (Timm 2005, p. 11), rispondeva la madre alle domande sul fratello. Incipit del testo l’unico ricordo che Uwe, di 16 anni più piccolo, ha di Kurdel: un ricordo bellissimo, rivestito di un’aura mitica grazie alla prospettiva infantile e a una particolare sensazione di assenza di gravità e di sospensione del tempo. La ricerca di verità getta ombre su quel ricordo, e più volte i tentativi di intraprenderla leggendo il diario di guerra tenuto da Kurdel e recapitato alla famiglia alla sua morte sono falliti: «Una ritirata timorosa come mi succedeva da bambino di fronte a una fiaba, la storia del cavaliere Barbablù. […] Era così angosciante, quando la moglie di Barbablù […] nonostante il divieto vuole entrare nella stanza chiusa» (ibidem). Aggiunge: «Arrivati a quel punto supplicavo la mamma di non leggere più. Solo anni dopo, ormai adulto, ho letto fino in fondo la fiaba» (ibidem). Qui, alla terza pagina di testo, Timm inserisce la citazione del passo (variante Grimm) in cui la moglie di Barbablù apre la porta, vede i corpi, lascia cadere la chiave che non riesce più a ripulire dal sangue. Oltre a rivelare al lettore che il testo che si accinge a leggere non è il ricordo di una vittima innocente né di un eroe, la citazione esprime il desiderio di verità dell’io narrante ma anche la sua paura: non più bambino, deve vedere il sangue se vuole capire il grado di consapevolezza del fratello e la sua adesione ai progetti sterminatori emblematizzati dall’insegna (teschio) della Totenkopfdivision. Ma sa che aprire la porta di Barbablù può essere un atto gravido di conseguenze, perché quella è la storia della sua famiglia, quindi anche la sua storia. Il diario, citato a frammenti, è la stanza segreta e insieme la chiave tramite la quale l’autore cerca l’accesso alla verità, che però stenta a delinearsi secondo le aspettative, tanto che il testo ruota soprattutto sulla Germania del dopoguerra e meno sul fratello, che resta comunque punto di arrivo e di partenza delle diverse riflessioni, delle ‘porte’ che lo scritto via via apre e chiude, fino a imbattersi in una porta chiusa per sempre: il fratello interrompe le annotazioni perché non vuole scrivere di cose orribili. Solo alla fine Timm rivela che quel quaderno e il suo invio alla famiglia rappresentano un mistero, dato l’assoluto divieto di tenere un diario per evitare rischi in caso di cattura da parte del nemico. Il lettore di Timm capisce così che quanto ha letto del diario è, di fatto, il prodotto di un atto di disubbidienza. Ciò basta a fare di Kurdel un disubbidiente? Timm non dà risposte, né formula la domanda che però è insita nell’andamento del testo. La ‘verità’ sul fratello resta non scritta, e il racconto si chiude con la citazione, per la terza volta, della frase finale del diario: «Qui chiudo il mio diario perché trovo assurdo fare un resoconto delle cose orribili che a volte succedono» (ivi, p. 141). In qualità di chiusa di Come mio fratello, il passo rimanda implicitamente alla domanda di verità da cui il testo è originato. Ma il percorso di Timm non è assurdo: se anche la verità non è definibile, la sua ricerca è necessaria e comporta di accettare la complessità e la contraddizione, non per appianarle o trasfigurarle, bensì per attraversarle, sporcandosi. Come preannunciato col riferimento a Barbablù.

 

 

Bibliografia

D. Loher, ‘Blaubart – Hoffnung der Frauen’, in Id., Manhattan Medea. Blaubart – Hoffnung der Frauen, Frankfurt/M., Verlag der Autoren, 2015, pp. 65-142.

M. Frisch, Barbablu [1982], trad. it. di B. Bianchi, Torino, Einaudi, 1984.

L. Tieck, Die sieben Weiber des Blaubart. Eine wahre Familiengeschichte, herausgegeben von Gottlieb Färber [1797], Zürich, Europa Verlag, 2010.

U. Timm, Come mio fratello [2003], trad. it. di M. Carbonaro, Milano, Mondadori, 2005.