Albero

di

     

Ho sempre visto il ficus come una specie di mostro arboreo: e specialmente a Palermo quello di Piazza Marina, di cui forse anche prima, ma sicuramente nel racconto Porte aperte mi è avvenuto di scrivere. Un pauroso emblema della violenza e dell’imprevedibilità della natura: forse perché a Palermo in Piazza Marina, sta a fronte di quel palazzo in cui tragiche memorie si assommano dell’umana violenza: la violenza dell’anarchia baronale, la violenza del Sant’Uffizio dell’Inquisizione, la violenza dell’amministrazione della giustizia del regno d’Italia.

L. Sciascia, Nota a Ficus (1988)

Sciascia ammira molto Bruno Caruso, pittore che ha assunto gli alberi come proprio modello iconico divenendo un interprete privilegiato di questo soggetto. Non a caso le pagine più belle che l’autore di Racalmuto scrive sugli alberi sono ispirate proprio dalla visione delle acqueforti di questo artista. A colpire maggiormente l’immaginario dello scrittore ci sono prima di tutto i Ficus di piazza Marina che Caruso aveva disegnato e inciso riproducendo con perizia i fusti contorti. Il groviglio di quelle radici attira l’attenzione di Sciascia forse perché gli ricorda il labirinto in cui si perdevano spesso i suoi pensieri e così mentre l’artista si muove con acidi e bulini per riprodurre l’albero sulla lastra metallica, l’inchiostro dello scrittore con uguale violenza lascia il proprio segno nero su bianco, creando un gioco simbiotico di scambi tra i disegni e le parole (importante a tal proposito è lo scritto introduttivo alla cartella I grandi giardini intitolato Gli alberi di Bruno Caruso, che Sciascia scrive nel 1968). Gli alberi di Caruso fanno scaturire nella mente di Sciascia una serie di ricordi e riflessioni, perché sono stati piantati di fronte al palazzo che a Palermo aveva ospitato le carceri inquisitoriali, in cui si erano consumate le atroci violenze del Sant’Uffizio. Per questo il suo immaginario li trasforma in figure mostruose, cresciute da semi di dolore, portatrici di una pesante memoria. Quegli alberi sono effigi dell’efferatezza della storia e delle violenze, che in quei luoghi si sono consumate, e che adesso sembrano dimenticate dagli abitanti di Palermo intenti a godere della frescura senza ricordare il lezzo delle carni che lì erano state bruciate.

Ben altre riflessioni invece suggerisce allo scrittore il carrubo nato dal pennello di Piero Guccione. Quest’albero, parte integrante del paesaggio dell’isola, i cui frutti erano stati utilizzati per le caramelle dei bambini siciliani nel dopoguerra, aveva già attirato l’attenzione di Sciascia, che nella prefazione al libro di fotografie di Giuseppe Leone La contea di Modica, denuncia il rischio della scomparsa della specie che offre sereno riparo ai contadini. Tuttavia, a differenza degli alberi immortalati dal fotografo, quelli rappresentati dal pittore sono carrubi alati, mozzati e feriti dal vento, dipinti con una tavolozza cupa, che a Sciascia ricordano l’immagine di una sconfitta e divengono il simbolo del profondo disamore dell’uomo per lo spazio che lo ospita. I tronchi spezzati sono per lo scrittore e per il pittore il emblema e la metafora di una Sicilia offesa, nella quale si consuma la separazione tra l’uomo e l’albero «bello a vedersi». Scrittura e pittura qui sembrano convergere e toccarsi in unico punto.