1. Parole parole parole
Sul finire degli anni Settanta, mentre spettacolo e apprendimento continuavano ad essere presenti nel palinsesto televisivo, anche in dosi rilevanti, la tv italiana – diretta verso quella che Umberto Eco definì nel 1983 «neotelevisione» – affiancò ad essi altri due cardini: quello dell’ospitalità e quello del commercio, dotati di uno stretto contatto con la quotidianità dello spettatore. Nascono e si sviluppano così trasmissioni costruite appositamente sulla messa in scena e sulla attivazione di questi due campi larghi: i talk show per la prima e le vendite promozionali e aste televisive per il secondo.
Il ‘salotto’ e il ‘negozio’, rispetto allo schema di generi precedente, non creano suddivisioni spaziali forti, anzi tendono a facilitare la compenetrazione fra chi agisce e chi assiste e ad allargare (Casetti 1998, pp. 39-61). Il genere risponde bene alle caratteristiche di un programma che consente di offrire e di rappresentare personaggi e storie molto diversi, oltre a configurarsi come ‘salotto’ televisivo dove estendere racconti, discussioni e affabulazioni da poltrone o divani.
Si tratta di un nuovo modo di intendere lo spazio televisivo che le donne, ad esempio, hanno occupato anche per mettere in atto rivoluzioni più o meno sottili di svelamento della maschera sociale, a partire dallo stereotipo dell’angelo del focolare.
Il talk deve la sua fortuna a una natura ibrida e meticciata, che lo rende molto diverso dal varietà tradizionale: mentre quest’ultimo si compone in grande parte di attrazioni come musica, balletti e performance, il talk show si nutre di parole, conversazioni e storie, e può esprimere una capacità di narrativizzazione della società contemporanea molto più accentuata. Infatti il talk show ha il suo elemento forte nella conversazione, la forma con cui si esprime quella tendenza alla narratività che è tipica della neotelevisione (Monteleone 2009; Menduni 2016).
Tre poltrone color aragosta, un orologio a cucù, una ‘vera’ finestra dalle persiane verdi, simbolicamente aperta sul mondo, è il 18 ottobre 1976 quando, alle 22:30 in punto, si accende il lumicino rosso della telecamera e Maurizio Costanzo è vicino alla finestra: «Buonasera a tutti, questo è Bontà loro». Niente musica per un programma povero, essenziale, in linea con gli obiettivi e le ragioni della Rai appena riformata. Gli americani spettacoli di questo genere li chiamano talk-show: spettacoli di parole. In Italia però non c’è mai stato niente di simile, e la novità ha il sapore di una vera e propria scommessa.
Che cosa c’è dentro? Uno spicchio di vita quotidiana, gli ospiti e, soprattutto, un padrone di casa che si chiama Maurizio Costanzo, che il pubblico (ri)conosce soprattutto per gli anni dell’esperienza radiofonica: trasmissioni di successo, programmi a continuo contatto con la gente, con le parole e le storie. Proprio come quelle che Bontà loro in quell’autunno televisivo si proponeva di offrire al pubblico. Si va in onda in diretta, e anche questa è una bella novità. Con i primi tre ospiti, che sono il ‘re’ del tele-sceneggiato Anton Giulio Majano, un idraulico romano, e Miss Cinema (Annie Papa), con Sandro Forconi, il cameraman piazzato dietro la telecamera centrale, la più indiscreta, e quella col compito più delicato di scoprire, in primissimo piano, mezze bugie e imbarazzi, confessioni verosimili e chiacchiere futili. Fuori dallo studio c’è Mimmo Scarano, il direttore della Rete Uno, il primo direttore della Prima Rete dopo la riforma. Paolo Gazzara si occupa della regia, Pierita Adami ha invece il compito più ingrato di contattare gli ospiti, provocare gli approcci, convincere gli scettici, portare in studio i riottosi, arginare gli invadenti e saper dire di no, e dopo la prima puntata non sono pochi quelli che chiedono ospitalità e ‘minacciano’ di concedersi, anche senza alcun invito (Grasso 2011).
Bontà loro [fig. 1], anche con le poltrone scomode, fu subito un successo: cinque milioni e quattrocentomila telespettatori alla prima puntata. Undici milioni e ottocentomila, praticamente il doppio, alla seconda. Si tratta di un indice record, considerando che la rubrica è di quelle destinate alla seconda serata (22:30 che diventano regolarmente le 22:45), che il genere televisivo al quale appartiene è assolutamente nuovo e che, soprattutto, è una scommessa lunga in partenza: ben settanta puntate (Grasso 2011; Menduni 2016). Nomi celebri e assoluti sconosciuti, gente famosa e ordinary people, affollavano la lunga pista dei primi duecento ospiti: Luciano Lutring insieme a Lea Massari e al ‘nasochirurgo’ Lionello Ponti, Nordio con il prete Don Quinto e Marcello Mastroianni, Giorgio Amendola con Fiorucci e la Sandrelli, Nilde Jotti con Fulvia Franco e il conte Nuvoletti, Zeffirelli con il questore Macera e con la scrittrice femminista Guiducci quando, un lunedì sera, è in scaletta Andreotti e l’antiterrorismo perquisisce anche il cucù; con la Marzotto scatta invece qualche piccola provocazione che al termine della puntata si scusò per il suo comportamento, «forse, Contessa, ho peccato un po’ di maleducazione».
Proprio grazie a Maurizio Costanzo approdò a Bontà Loro anche Sandra Milo [fig. 2], in quella che lei stessa dichiarò essere stata una delle serate più importanti della sua vita. Da lì in poi arrivarono gli anni di Mixer con Gianni Minoli, di Piccoli Fans sulla rete socialista della televisione pubblica. Il pubblico venne letteralmente conquistato dalla trovata e dalla novità di un genere destinato a durare. Da Bontà loro a fine 1977 derivò Acquario (con un solo ospite e l’acquario in primo piano), che nel 1979 diventa Grand’Italia, con i tavolini come al caffè concerto, gli aperitivi, i cocktail, lo spettacolo, il gelato e anche qualche torta alla panna in più. Dal mercoledì sera delle torte in faccia, bizzarra trovata di Marina Punturieri, allora Lante della Rovere, quella di far spettacolo con la torta in faccia a Costanzo durante un’intervista a Marco Pannella [fig. 3]. Subito dopo il gesto il conduttore sbottò «Non bisognerebbe mai invitare le duchesse in trasmissione». E infatti non la invitò mai più, né le ha parlato per oltre 13 anni.
2. No Women, no Panel
Li chiamano manel, un neologismo entrato nell’edizione 2017 dell’Oxford Dictionary che deriva dall’espressione inglese all-men panels ed è usato per designare convegni, comitati, dibattiti, trasmissioni radiotelevisive in cui ci si dimentica dell’esistenza delle eccellenze femminili persino quando il tema riguarda le donne. È una delle questioni spinose di cui si è presa coscienza negli ultimi anni grazie al potere aggregante del Web tra utenti con gli stessi interessi, e che ha portato boicottaggi di manifestazioni (famoso il caso del Festival della bellezza di Verona del 2020 tutto al maschile), o con proteste come quello per il comitato tecnico-scientifico del Covid 19 nel 2020, senza nemmeno una scienziata. Ci sono i dati che confermano come non si tratti di una sorta di assillo: la presenza femminile nella programmazione del servizio pubblico televisivo è infatti al 37%, nella parte bassa della classifica dei media di servizio pubblico europei. Le donne vengono interpellate nei programmi principalmente per raccontare le proprie esperienze personali e raramente per discutere un argomento di loro competenza professionale, solo il 22,3% degli esperti nei programmi Rai è donna. Un tema che l’attuale presidente dell’azienda, Marinella Soldi, ritiene un modo fuorviante di rappresentare la realtà, e per questo il 18 gennaio la Rai ha aderito al memorandum d’intesa partito dalla Commissione europea No Women No Panel – Senza Donne Non Se Ne Parla, che garantirà una rappresentazione paritaria ed equilibrata nelle attività di comunicazione [fig. 4].
Marinella Soldi lo ha firmato nella sede Rai di Viale Mazzini in presenza della ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia Elena Bonetti, e con i rappresentanti delle istituzioni coinvolte nella stesura del documento (fra cui molti uomini): il presidente del Cnel, Tiziano Treu; il capo della Rappresentanza della Commissione Ue in Italia, Antonio Parenti; il presidente dell’Unione delle province italiane, Michele De Pascale; la Dott.ssa Sveva Avveduto in rappresentanza del Cnr; la rettrice della Sapienza di Roma, Antonella Polimeni (in rappresentanza della Conferenza dei Rettori delle Università d’Italia); il presidente dell’Accademia nazionale dei Lincei Roberto Antonelli; i rappresentanti della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, dell’Anci e dell’Unione per il Mediterraneo. Da oggi, quindi, la Rai si impegna a inserire le donne e le loro expertises in maniera quanto più possibile paritaria nei suoi dibattiti.
3. Il caso Jebreal
Il tema della parità di genere è particolarmente vibrante nei media e in particolar modo nella televisione (compresa quella non pubblica). Ad esempio, a maggio scorso scoppiò il caso di Rula Jebreal, che rifiutò di partecipare a Propaganda Live, in onda su La7, proprio perché unica ospite donna prevista [fig. 5].
Diego Bianchi perplesso, durante la diretta affermò: «Noi abbiamo anche vinto il Diversity Award, un premio che dice che questa trasmissione è la più figa di tutte nel rappresentare tutte le diversità di genere, etnia, lingua, provenienza. Questo è il racconto che cerchiamo di fare da otto anni» [fig. 6]. Poi aggiunse: «La prima cosa che ci viene in mente quando chiamiamo qualcuno è chiamare quella persona perché è competente. La sensibilità cresciuta porta a fare ragionamenti e qualche volta forse avremmo scelto anche delle donne perché donne e non perché forse le più brave su determinati argomenti. Rula Jebreal non l’avevamo chiamata perché è una donna, ma perché data la situazione e la sua storia ci sembrava la persona migliore per aiutarci a portare un punto di vista».
Come sottolinea il monitoraggio della rappresentazione della figura femminile nella programmazione televisiva Rai eseguito ogni anno dall’Osservatorio di Pavia, le donne continuano a essere sottorappresentate tra i politici ospiti delle trasmissioni (18%), tra i portavoce di associazioni, aziende, enti, istituzioni e partiti (22%) e tra gli esperti (25%). Queste percentuali così basse, come specifica la sintesi del rapporto, non sono legate soltanto alla scarsa presenza femminile nei rispettivi settori, ma anche a «qualche retaggio di antichi pregiudizi contro la competenza femminile: nelle professioni sanitarie, così presenti in tv durante la pandemia (solo il 27,2% sono donne), nello sport (solo il 25,7% di atlete), e persino nella scuola, dove le insegnanti rappresentate sono solo il 35,5% malgrado la presenza maggioritaria nella pratica professionale». Questi dati sono stati confermati da un’altra grande indagine a livello mondiale, il Global Media Monitoring Project, che con particolare riferimento alla presenza di donne nei talk show conferma complessivamente a livello internazionale la cosiddetta ‘regola del terzo’: una donna ogni due uomini nella programmazione degli altri servizi pubblici europei. Due elementi meritano una particolare attenzione: la necessità di raccontare il presente secondo i personaggi che la società fa emergere (e per il 63% sono uomini); gli uomini presenti nelle trasmissioni non soltanto sono di più, ma anche mediamente più anziani.
Permangono tuttavia squilibri sensibili quanto alla posizione sociale delle donne presenti o rappresentate in particolar modo nei ‘salotti’ televisivi. La presenza femminile è maggioritaria solo nei ruoli familiari (68,3% del totale di questa tipologia) e rilevante in particolare fra le professioni specifiche dei media, come conduttrici/giornaliste-conduttrici (42,7%) e celebrity (37,6%); ma è inferiore al 20% tra il personale politico, ministri e governanti (19,4%), tra funzionari e diplomatici (19,7%), tra le professioni di tipo tecnico (ingegneri, tecnici e informatici 17,9%) e nelle forze dell’ordine e militari (17,3%). Pur tenendo conto delle esigenze di rappresentazione di settori nei quali, nella realtà, la presenza delle donne possa essere ancora in parte limitata, sembra esistere ancora qualche retaggio di antichi pregiudizi contro la competenza femminile.
4. Conclusioni
Le ricerche finora condotte sulle donne in televisione hanno messo in evidenza la presenza di alcuni stereotipi femminili secondo due modalità principali: da un lato la televisione concorre a diffondere molti stereotipi diffusi nell’opinione popolare, veicolandoli senza sfidarli o criticarli; dall’altro la televisione concorre a rafforzare tali stereotipi attraverso rappresentazioni di genere di per sé non stereotipate ma che risultano tali nel flusso comunicativo che le reitera costantemente. Per esempio la donna madre non è di per sé uno stereotipo, così come l’uomo medico; continuare a rappresentare, nei servizi dei Tg dedicati alla diffusione dell’influenza, donne in qualità di madri di bambini affetti dal raffreddore di stagione a fianco di uomini medici esperti di diagnosi e terapia per la cura dell’influenza significa privilegiare una rappresentazione della società tradizionale che associa le donne al ruolo materno e gli uomini a quello professionale, piuttosto che una rappresentazione più moderna di una società dove molte donne svolgono la professione medica e molti uomini si dedicano alla cura dei figli.
La figura dell’opinionista è in generale ricoperta da uomini: a interpretare eventi o temi di cronaca o di attualità, fornendo al pubblico una chiave di lettura sono prevalentemente professionisti maschi adulti, che hanno acquisito una certa autorevolezza, anche mediante la loro notorietà televisiva, su questioni non necessariamente pertinenti ai loro ambiti di competenza. Più rappresentati dalle donne sono invece i ruoli della gente comune, portatori dell’opinione popolare, del ‘senso comune’, di cui anche le donne sono ritenute ‘autorevoli’ rappresentanti, oppure i ruoli dei testimoni, portatori dell’esperienza vissuta, della biografia personale: in entrambi questi ruoli televisivi le donne presenziano numerose, a volte in misura superiore agli uomini. Insomma, il ‘salotto’ televisivo si rivela per la rappresentazione di genere il luogo dove, per dirla con Virginia Woolf, «è molto più difficile uccidere un fantasma che una realtà».
Bibliografia
F. Casetti, Tra me e te. Strategie di coinvolgimento dello spettatore nei programmi della neotelevisione, coll. VQPT, RAI Libri, 1998.
A. Grasso, M. Scaglioni, Che cos’è la televisione. Il piccolo schermo fra cultura e società: i generi, l’industria, il pubblico, Milano, Garzanti, 2003.
A. Grasso, Storia critica della televisione italiana, Milano, Il Saggiatore, 2019.
A. Grasso, Storia della Televisione Italiana, Milano, Garzanti, 2004.
E. Menduni, Televisione e radio nel XXI secolo, Roma-Bari, Laterza, 2016.
F. Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia: Un secolo di costume, società e politica, Venezia, Marsilio, 2001.