Festival #inequilibrio22 - Teatro/danza/musica (Castiglioncello/Rosignano Solvay, 25 giugno - 7 luglio 2019)

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Dal 25 giugno al 7 luglio si è svolta la ventiduesima edizione del Festival Inequilibrio diretta da Angela Fumarola e Fabio Masi, che, ospitando quaranta creazioni tra danza, teatro e musica, ha proposto al suo pubblico molteplici visioni del contemporaneo. La manifestazione è diventata, così, terreno di relazione tra artisti e spettatori dopo aver sostenuto, durante tutto l’anno, progetti di ricerca che hanno trovato nelle sedi di Fondazione Armunia un luogo fisico ed un’occasione d’incontro. Risultato di questa operazione è stata la costituzione di uno spazio collettivo aperto al confronto fra le generazioni che hanno segnato alcune tra le più significative tracce d’autore dell’ultimo trentennio.

Da questa sinergia di forze creative è scaturita un’antologia di temi uniti dallo spazio e dalle emozioni che nella cornice festivaliera ha offerto agli spettatori occasioni rare da vedere tutte insieme, andando oltre il ruolo di ‘vetrina’ destinata ai giovani e presentando i lavori di autori, performer, danzatori e creatori con una consolidata carriera alle spalle, ma sempre animati da una costante tensione verso il futuro. In particolare – seppure partendo dai grandi temi dell’oggi quali l’emarginazione, la migrazione e la ridefinizione dei confini (interiori ed esteriori) – l’arte teatrale ha indagato a fondo il ruolo dell’attore, dello spettatore, del testo drammatico nella contemporaneità e nel dialogo con i media e le nuove tecnologie.

Il Festival si è svolto, in primis, nella sede tradizionale del Castello Pasquini per sconfinare poi ‘altrove’: pinete, piazze, strade, giardini privati, persino scogli e spiagge. Non solo spazi ‘deputati’ al teatro dunque, ma anche natura e siti urbani hanno ospitato trame, storie, visioni di artisti, seguendo una politica immersiva, che ha coinvolto totalmente spettatori e passanti casuali; attraverso parola, musica e corpo sono emersi infatti mille nodi del contemporaneo, che hanno stimolato costantemente il pubblico ad una riflessione attiva.

Il programma, denso e articolato, ha presentato alcuni maestri e maestre della danza e del teatro con lavori preparatori o spettacoli finiti, restituendo la duplice visione del processo e del prodotto, entrambe colte nel valore creativo che risiede proprio nella loro labilità, irripetibilità, precarietà. Alcune anteprime di produzioni sono nate dalle residenze di Castiglioncello, ma con uno sguardo sempre rivolto all’esterno, ‘in-equilibrio’ tra stanzialità e movimento, radicamento e migrazione, oriente e occidente. La direzione artistica ha definito, all’interno del libretto di sala, queste creazioni: «eventi unici, creazioni site e human specific, preziosi riti del silenzio», che si sono conclusi «con un cammino verso il mare a ricordarci che, anch’esso come il cielo non ha confini». Mare che sempre di più, anche in questi giorni, diventa terreno metaforico di scontri e contrasti, dividendo l’opinione pubblica sul terreno caldo delle politiche migratorie.

La rassegna si è aperta nel segno della poesia, ma in tono scherzosamente apocalittico, proponendo in prima nazionale l’ultimo lavoro di un protagonista del panorama teatrale italiano degli ultimi cinquant’anni, Giuliano Scabia con la sua Commedia della fine del mondo (regia di Giuliano Scabia con Silvia Aquilini, Mario Baldeschi, Paolo Borsa, Daniela Castellini, Carlo Cellai, Sonia Coppoli, Elena d’Agostino, Silvia Frino, Fabio Granchi, Elisa Lazzeri, Adriana Natania, fernando Pellegrini, Monica Pietrasanta, Manuela Salvadori, Aloisio Sciortino, Ombretta Torti. Ideazione costumi: Lia Morandini. Realizzazione costumi: Carla Sassetti. Scene: Laboratorio Scenografico Armunia. Produzione: Armunia. Prima Nazionale: martedì 25 giugno, Anfiteatro del Castello Pasquini, Castiglioncello). Il poliedrico drammaturgo, attore, scrittore, regista, professore universitario ha messo in scena infatti, per la prima volta, dopo un breve laboratorio svolto con attori volontari e non professionisti, un episodio del suo ultimo romanzo Il lato oscuro di Nane Oca (Einaudi 2019). Giovanni detto Nane e soprannominato Oca (per motivi poco chiari, ma legati alla follia amorosa), protagonista della sua piccola saga favolosa e picaresca, dopo numerose avventure e peripezie ambientate nel favoloso mondo rurale del Pavano Antico, vuole provare il lato oscuro del mondo, salvo cercarne poi l’antidoto. L’episodio rappresentato riguarda la vicenda della Fantastica Compagnia Dilettantistico Amatoriale che arriva nella Pavante Foresta per rappresentare la tremenda tragedia comica intitolata La fine del mondo, con dinosauri, destino, meteorite, uccello del malaugurio e persino autore in scena.

Sotto un titolo antifrasticamente altisonante, la commedia è in realtà una farsa tragica in otto brevi atti introdotta da un prologo in cui lo stesso Scabia in camicia rossa, affiancato da un giovane che squaderna davanti agli spettatori la carta geografica del Pavano Antico, mostra la collocazione della Foresta, racconta la trama e presenta i personaggi.

  G. Scabia, La Commedia della fine del mondo, @Arianna Frattali

La recita filodrammatica ha come oggetto una delle tante storie contenute nel romanzo: la favola dei Dinosauri (detti Dini) a cui viene annunciato da un eremita topino l’avvicinamento di un meteorite che porrà fine alla loro civiltà.

Al suono di strumenti di una piccola banda improvvisata, i personaggi entrano goffamente in scena indossando i costumi di Lia Morandini realizzati da Carla Sassetti con il laboratorio scenografico di Armunia: si tratta in realtà di pesanti impalcature che impediscono del tutto o quasi i movimenti, costringendo gli attori a giocare la loro partita in teatro sul campo del gesto, trovando il proprio dinosauro, meteorite, uccello del malaugurio o topolino attraverso un lavoro fisico di deformazione del corpo. Poiché secondo Scabia, in un’intervista rilasciata a frammentiRivista.it «il gesto è musica», la recita si configura sin dall’inizio come un’orchestra che suona e la componente musicale attraversa lo spettacolo nella sua interezza, disegnando una complessa partitura fisica e linguistica.

  La Commedia della fine del mondo, @AriannaFrattali

Un pannello che si apre e si chiude alle spalle degli attori delinea in stile astratto e stilizzato dettagli d’ambiente, costituendo un semplice ma colorato fondale: la foresta, il vulcano, il cielo, uno per ogni atto. Parlando una lingua ‘dinica’, melting pot di inflessioni e dialetti diversi, i dinosauri increduli di fronte al proprio destino discutono così, in maniera confusa e talvolta incomprensibile, strategie di sopravvivenza che si riveleranno inutili. Solo l’insignificante topino scamperà alla fine alla distruzione del meteorite, esemplificando la ‘morale della favola’: non sempre serve essere grandi per sopravvivere agli accidenti della sorte. Sopravvive invece il rito teatrale officiato da un maestro come Scabia, opponendosi alla caducità del reale e lasciando tracce di poesia che si ripetono sulla scena come una danza antica e sempre nuova che ha il sapore dell’eterno.

Sotto il segno della danza, la Prima traccia di Pelléas e Mélisande Michele Abbondanza e Antonella Bertoni con Eleonora Chiocchini, Cristian Cucco, Michele Abbondanza. Musiche: A. Schönberg, Pelleas E Melisande Op. 5. Video: Jump Cut. Disegno luci e direzione tecnica: Andrea Gentili. Organizzazione: Dalia Macii. Amministrazione e ufficio stampa: Francesca Leonelli. Produzione: Compagnia Abbondanza/Bertoni, musicata da Arnold Schönberg, recupera lo studio del gesto e dell’espressività del corpo a partire proprio dalla musica. Terza parte di «Poiesis» 2017/2019, di cui fanno parte La morte e la fanciulla ed Erectus, il lavoro è stato presentato in anteprima negli spazi del Teatro Solvay nella sua prima fase del processo creativo. Si conclude dunque con Schönberg, dopo Franz Schubert e Charles Mingus, un progetto in cui è la partitura musicale a dettare la direzione del lavoro, perseguendo l’utopia di dare corporeità ad un suono visivo e «provando a far diventare l’unità dell’opera, anche unità coreografica e drammaturgica» (M. Abbondanza, A. Bertoni, presentazione di Pelléas et Mélisande nel libretto di sala).

Pelléas et Mélisande è un dramma simbolista dello scrittore belga di lingua francese Maurice Maeterlinck, scritto nel 1892, che ha come argomento un amore proibito seguito da un tragico finale: Pelléas et Mélisande si amano nonostante la donna sia moglie del fratello di Pelléas, Golaud e la vicenda non avrà esito felice. Il lavoro coreografico di Abbondanza-Bertoni coinvolge quindi tre danzatori (due uomini ed una donna), articolandosi in cinque quadri, cinque atti di una tragedia in cui il gesto trascrive la musica sulla scena, supportato da proiezioni video che ‘dipingono’ un grande velario dietro il quale si muovono i corpi.

  M. Abbondanza, A. Bertoni, Pélleas et Mélisande, @AriannaFrattali

Questi ultimi, dialogando fra loro e con le proiezioni, disegnano un fitto ricamo di gesti coreografici che trascrive fisicamente le note musicali, andando a connettere nella trama di un testo performativo ancora in fieri ma già ben congegnato: narrazione, corporeità, musica e visione.

Sulla linea di una scrittura corporea che traduca visivamente una suggestione letteraria si muove anche il Circo Kafka di Roberto Abbiati e Claudio Morganti, studio in cui si rappresenta una vera e propria stanza di tortura psicologica ben allestita nella claustrofobica Sala del Camino del Castello Pasquini (da Il processo di Franz Kafka. Con Roberto Abbiati e la partecipazione di Johannes Schlosser. Regia di Claudio Morganti. Musiche a cura di Claudio Morganti e Johannes Schlosser. Produzione: Teatro Metastasio di Prato). Qui siamo al centro di un incubo kafkiano che vede protagonista il personaggio di Joseph K., immerso tra i feticci e gli oggetti accatastati di una vita. In una sorta di stanza-deposito da circo, un uomo come tanti viene prelevato improvvisamente da forze di polizia che, dopo averlo accerchiato nel suo letto, lo conducono a processo. La gestualità e la vocalità inceppate di Roberto Abbiati – quasi un manichino posseduto da oscure presenze e voci dell’inconscio – restituiscono i contorni di un incubo che può colpire chiunque, nella sua angosciosa banalità: trovarsi al centro di una vicenda giudiziaria incomprensibile a chi la subisce, mentre «nel circo degli animali impagliati la giustizia si diverte» (da libretto di sala) in una farsa che assume, ancora una volta, connotati tragici.

  R. Abbiati, Circo Kafka, @Daniele Laorenza

Si configura come un incubo da ‘camera-chiusa’ anche la straordinaria performance di Elena Cotugno per Medea per strada di Teatro dei Borgia, in cui viene rivisitato il ruolo di Medea nella contemporaneità: qui si tratta di una prostituta rumena sfuggita al suo amante/carceriere, dopo essersi vendicata di un tradimento di lui con l’uccisione dei due gemelli nati dal loro rapporto (con Elena Cotugno. Progetto scenografico: Filippo Sarcinelli. Ufficio stampa: Antonietta Magli. Comunicazione: Margherita Cristini. Amministrazione: Delia Tondo. Distribuzione: Paolo Gorietti. Grafica: Željka Kovačić e Roberto D’Introno. Fotografie di scena: Marcello Norberth e Luca Manfrini. Produzione: Teatro dei Borgia). Progettato per sette spettatori caricati su un furgone anni Ottanta, lo spettacolo itinerante accompagna il piccolo gruppo lontano dal centro, sulle vie della prostituzione, mentre una stravagante e ciarliera passeggera, salita ad una fermata con tacchi e parrucca, si mette progressivamente a nudo, fisicamente e psicologicamente, cambiando abiti e tono della conversazione.

  E. Cotugno, Medea per strada

La sua storia assume, durante il breve viaggio di quasi un’ora, i contorni del mito cui rimanda il titolo della pièce scritta dalla Cotugno con Fabrizio Sinisi: la vicenda di una straniera in fuga dopo aver commesso un orribile delitto per amore. Più che uno spettacolo, si tratta di un’esperienza che coinvolge gli spettatori e l’attrice, conducendoli lontano dai luoghi consueti, ai ‘margini’ della società. Là dove opera un capitale umano sommerso e schiavizzato dai vizi e dalla follia del nuovo mondo selvaggio (l’Italia) che – ben lontano da assumere i connotati della terra promessa – tradisce puntualmente tutte le aspettative di una vita migliore.

Nel segno del tradimento e della marginalità va in scena anche In exitu di Fortebraccio Teatro, dove la fisicità camaleontica e tormentata di Roberto Latini, vero e proprio capro espiatorio del ‘sacrificio’ sulla scena, incarna Gino Riboldi, tossicodipendente che si prostituisce in Stazione Centrale a Milano per recuperare una dose e, con essa, una promessa di mondi nuovi (dall’omonimo romanzo di Giovanni Testori. Adattamento, interpretazione e regia: Roberto Latini. Musica e suono: Gianluca Misiti. Luci e direzione tecnica: Max Mugnai. Scena: Luca Baldini. Produzione: Compagnia Lombardi Tiezzi). Il testo è tratto dall’omonimo romanzo di Giovanni Testori e sfida le convenzioni linguistiche, smontando grammatica e sintassi attraverso accostamenti arditi che fondono turpiloquio e testi sacri e trovano espressione nella pirotecnica phoné di Latini. Il pubblico, frastornato dalla violenza delle sonorità e delle luci, non può che assistere all’agonia allucinatoria di Gino, che muore per un pugno di banconote sparpagliate sul palco ingombro di materassi.

  R. Latini, In exitu, @AriannaFrattali

In una sorta di Quem queritis contemporaneo, si cerca così il corpo del Cristo/Riboldi nella gigantesca palla da tennis/astronave/sepolcro gonfiabile che campeggia in scena alla fine di tutto, ma ogni resurrezione sembra ormai impossibile in una società letteralmente posseduta dagli oggetti materiali o immateriali.

Rimane la catarsi, forse, intesa come la possibilità per chi partecipa al rito del teatro di intuire nel congegno rappresentativo spaccati di verità che si concretizzano attraverso il meccanismo della ripetizione, incarnandosi nel corpo dell’attore. Se si può individuare un fil rouge che unisca il lavoro di artisti – anche così diversi per modalità espressive e metodi di lavoro – che si sono avvicendati nei giorni di Festival sulla costa degli Etruschi può essere proprio questo: la messa in gioco dello statuto della rappresentazione in toto, con la speranza di verificarne ancora potenza e validità.