In quell’archeologia della domotica che è The Electric House di Buster Keaton (1922), le meraviglie della casa elettrificata progettata da un botanico scambiato per ingegnere agevolano al massimo gli svaghi del suo proprietario. Il tavolo da biliardo si dispone da solo al gioco, un braccio meccanico estrae i libri dagli scaffali, il movimento di una leva riempie e svuota la piscina, la colonnina degli alcolici sale spontaneamente dal pavimento, pronta per gli ospiti. Il quadro elettrico alla parete è già un computer, l’antenato di un monitor di controllo che il vero ingegnere riprogramma per far sì che la casa si rivolti contro i suoi abitanti. In cucina, la domestica è diventata l’operaia di una surreale catena di montaggio, che è la prima ad incepparsi con l’atto di boicottaggio. La lavapiatti, macchina del futuro [fig. 1], è connessa a una cinghia di trasmissione che ripone le stoviglie pulite nelle scansie e serve in tavola inviando le portate attraverso un trenino elettrico, mentre la domestica completa il processo con piccoli gesti ripetitivi, finché il sistema si inceppa.
Lo sviluppo di questa storia, un apparente lieto fine, si trova nei titoli di testa di La donna perfetta (The Stepford Wives, Frank Oz, 2004), tratto dal romanzo femminista di Ira Levin (La fabbrica delle mogli, 1972). In questo montaggio di film anni Cinquanta, casalinghe euforiche danzano in abito da sera nelle loro cucine moderne con scansie rotanti e aspirapolveri potenti, e tutti gli automatismi funzionano alla perfezione mentre bionde mogli canterine cuociono manicaretti in forni modernissimi. Questo mito del lavoro femminile come danza spensierata che termina in salotto, davanti alla televisione, è stato sfatato da molto cinema d’autore, basti citare i film di Chantal Akerman; allo stesso modo la smart house è ormai protagonista di molte distopie fantascientifiche, che interpretano l’automatizzazione come forma di animazione della casa ed esplicitazione della sua agency oscura e ambigua. Complice della moglie perfetta di cui aspira a prendere il posto, oppure braccio armato del marito che vuole inconsciamente tenere prigioniera la consorte, la casa automatica viene presentata dal cinema contemporaneo secondo due immaginari contrapposti che trasformano e riscrivono il mito dell’elettrotecnica come strumento di liberazione della donna dalla schiavitù del lavoro in casa.
1. Trappole mediatiche
La prima conseguenza dell’efficientamento della vita familiare è la modernizzazione dell’immaginario del lavoro casalingo e la ridefinizione – anche attraverso i media – del ruolo sociale della donna.
La casa moderna si incentra sui media che la strutturano rinegoziando soprattutto le dinamiche di relazione tra esterno e interno (Colomina 1998, p. 164). Pensiamo per esempio alla lettura ironica che fa Jacques Tati in Mon Oncle: la sorella di M. Hulot, casalinga borghese ossessionata dall’ordine e dalla pulizia, diventa – grazie alla casa automatizzata e trasparente – non solo regina di quello spazio ma anche presentatrice della sua esibizione (Colomina 1998, p. 131), vera e propria protagonista dello spettacolo. Le spassose gag in cui alla vicina e agli amici vengono illustrate con cura – e dimostrate sul campo – le mirabolanti funzioni della nuova casa (come il ‘rivoltatore’ automatico di hamburger che correda l’avveniristica cucina [fig. 2]) illustrano con ironia fino a che punto l’automazione contribuisca a una nuova messa in scena dello spazio rappresentativo della famiglia borghese e, parallelamente, vada nella direzione di uno spostamento del ruolo della donna dalla dimensione di ‘angelo del focolare’ verso quella di ‘signora della casa’ (Vitta 2008, pp. 235-247).
È un fatto che tra gli anni Cinquanta e i Sessanta si assista a un massiccio investimento merceologico nell’immaginario del domestico che, proprio attraverso la presenza degli elettrodomestici e dei mezzi di comunicazione di massa, trasforma la casa in un cruciale centro di ri-mediazione e diffusione di un nuovo modello di moderna casalinga, un modello che presenta però non pochi aspetti contraddittori. Interessante rispetto al sedimento di questo passaggio storico, è per esempio una bizzarra commedia Disney della fine degli anni Novanta: Pat. La mamma virtuale (Smart House, 1999, LeVar Burton). La casa intelligente espressamente evocata dal titolo originale, capace di soddisfare ogni richiesta dei suoi occupanti, è dotata qui di un’identità femminile alla cui funzione materna e governativa dello spazio familiare si rifà il sottotitolo italiano del film. E non è un caso che il giovane protagonista, per ‘istruire’ la mamma virtuale sulle nozioni necessarie a ricoprire il ruolo di perfetta housekeeper, carichi nella memoria del computer alcune sit-com degli anni Cinquanta che propongono madri casalinghe al colmo della performatività.
Come machine à habiter, ottimizzata e iper-funzionale, la casa diventa dunque, a partire dagli anni Cinquanta, un fondamentale snodo non solo dell’immaginario, ma anche dello sviluppo economico e politico delle società occidentali. Si pensi per esempio al noto confronto tra Nixon e Chruščëv avvenuto nel luglio del 1959 durante la visita all’American National Exhibit di Mosca. In questa occasione, passata alla storia come ‘The Kitchen Debate’, il presidente americano insiste proprio sull’automazione della casa e sul conseguente miglioramento della vita quotidiana delle donne per dimostrare la sostanziale superiorità del sistema capitalistico rispetto a quello comunista. Nella trascrizione pubblicata dal New York Times il giorno successivo alla trasmissione tv dell’incontro, si legge infatti: «Americans are interested in making life easier for their women… What we want to do is make easier the life of our housewives». Questa idea di casa meccanizzata, come strumento per migliorare le condizioni del lavoro casalingo e dunque la qualità della vita, sembra riconoscere alla donna degli anni Cinquanta un nuovo statuto garantito dalla diminuzione della fatica, dall’efficienza della prestazione e dal conseguente guadagno di tempo, ma al contempo innesca un ambiguo processo rispetto al suo ruolo sociale: piegato dall’ideologia politica, l’apparente empowerment la relega infatti all’ineludibilità delle sua mansioni casalinghe (Pink 2004, p. 83). Si pensi, per esempio, alla nota serie di Carosello lanciata dalla nascente industria della plastica Moplen con protagonista Gino Bramieri. Il titolo della serie, Quando la moglie non c’è, introduce ogni sketch del comico milanese che si cimenta goffamente con il lavoro domestico ed esordisce con la battuta «Quando la moglie non c’è devo fare tutto da me…». Il nuovo ruolo della moglie (l’attrice Wilma Casagrande) viene riconosciuto dal marito sottolineando il suo impegno professionale (è un architetto, termine usato naturalmente al maschile), ma anche ammettendo la fatica che comporta il lavoro domestico. Tuttavia la donna viene riposizionata nel suo ruolo ‘naturale’ non appena varca la soglia di casa e si trova a dover soccorrere il marito pasticcione: «Architetto sì ma pur sempre una donna». Lo spot si chiude allora con le immagini di una ragazza che, indossando un grembiule, esibisce i moderni e rivoluzionari oggetti da cucina realizzati in materiale plastico che ottimizzano il lavoro casalingo ma che, di fatto, ne richiamano il carattere eminentemente femminile [fig. 3]. Questo piccolo esempio sembra sottolineare come il riconoscimento della novità non vada disgiunto, di fatto, da un richiamo al carattere tradizionalmente centripeto dell’abitare femminile (Vitta 2008, pp. 85-91), che in qualche modo incastra la donna nel suo ruolo tradizionale e la riporta là dove ‘deve’ stare.
Che gli anni Cinquanta e Sessanta rappresentino un passaggio chiave nel senso di questa nuova tensione tra interno ed esterno della casa, lo mostra bene anche Matthias Müller nel suo celebre Home Stories, inscenando l’impossibilità della donna di varcare davvero la soglia. L’artista tedesco sceglie infatti proprio la ripetizione ossessiva dell’inattuabilità di questa azione come immagine della stereotipizzazione dell’assoggettamento della donna allo sguardo voyeuristico maschile nel melodramma di quegli stessi anni Cinquanta e Sessanta. Una sostanziale impossibilità che sembra essere ripresa in forma più violentemente conflittuale – recependo anche la diversa sensibilità dell’epoca – dalla fantascienza del decennio successivo. Lo vediamo per esempio in un film come Generazione Proteus (Demon Seed, Donald Cammell, 1977), che declina il mito dell’automa e del robot offrendo una distopica rappresentazione proprio del tema della casa automatica. Si tratta di una variazione della casa infestata che, invece di essere posseduta da spettri e fantasmi, viene qui infestata da un’intelligenza artificiale tanto sofisticata da assumere una ‘golemica’ soggettività autonoma. La protagonista femminile del film è una psicoterapeuta infantile (Julie Christie) che in casa ‘lavora’ (lì riceve i suoi pazienti) e ‘vive’ servita dal maggiordomo elettronico, che manovra i vari dispositivi della sontuosa dimora, e da una domestica in carne e ossa, disturbata dalla presenza della futuribile strumentazione [fig. 4]. A dominare ovunque, oltre ai dispensatori di cibi e bevande su ordinazione, ai bracci meccanici e alla voce robotica che esce dalle consolle di controllo, sono schermi e telecamere che seguono ogni movimento della donna. Ed è prendendo possesso dei sistemi informatici della dimora che Proteus, l’intelligenza artificiale sviluppata dal marito di Susan, vuole attuare il suo piano: controllare la mente e il corpo di lei per fecondarla e rendersi finalmente reale. Al di là dello sviluppo narrativo del film che accoglie le istanze dell’epoca interessate alla dialettica tra organico e inorganico, è interessante come la casa mediatizzata e mascolinizzata stabilisca con la donna libera ed emancipata una relazione di unica e assoluta prevaricazione, cercando di riportarla proprio all’interno delle mura domestiche. Utilizzando la strumentazione meccanica e tecnologica di cui la casa è dotata, ma soprattutto le telecamere e gli schermi presenti ovunque, Proteus cerca infatti di manipolare Susan, imprigionandola nella casa per ricondurla al suo ruolo ‘naturale’ di madre. Per isolarla il tiranno elettronico utilizza le immagini che provengono da fuori ri-mediandole sugli schermi interni della casa e facendole agire come strumento ricattatorio: prima la piccola paziente in attesa alla porta che Proteus minaccia di uccidere, poi il giovane aiutante del marito destinato a soccombere alla sua furia, infine gli stessi ricordi di Susan che la riportano al dolore per la perdita della figlia [fig. 5].
L’estrema conseguenza della progressiva agevolazione del lavoro femminile sembra essere dunque la completa sostituzione della donna con la casa ‘vivente’, insieme strumento di controllo del marito e incarnazione della donna stessa.
2. La casa agente
In Ricordi pericolosi (The Entire History of You, 2011, Brian Welsh, Black Mirror, stagione 1 episodio 3), uno dei più popolari episodi della serie televisiva Black Mirror, la fragile relazione coniugale fra i protagonisti viene mediata e compromessa da una tecnologia futuribile chiamata ‘Grain’ e basata su un impianto retroauricolare che trasforma gli occhi in videocamere e, al bisogno, il cristallino in uno schermo su cui proiettare quanto registrato. La vita in playback può essere un modo per rivedere in solitudine, dentro la testa, le proprie esperienze, ma può essere anche uno spettacolo da condividere con gli amici in casa, inviando i ricordi visivi su un grande schermo a parete verso cui si polarizza lo spazio del salotto. Il medium futuribile si integra in modo nuovo con gli spazi della casa, al punto che essi non sono più governati e amministrati da chi li abita, ma al contrario sorvegliano e intrappolano i soggetti connettendosi ai loro sensori. Attraverso il Grain, Liam, il marito, può provare il tradimento della moglie Ffion, archiviato nel suo microchip come tutto il resto della vita della donna, ma è la casa, e in particolare il dettaglio di un quadro alla parete [fig. 6], a restituire il senso di quell’azione. Mai mero sfondo o cornice delle identità, la casa esercita da sempre capacità agentiva (Baschiera e De Rosa 2020, p. 3), creando una mappa di rapporti fra generi e generazioni e articolandoli rispetto allo spazio esterno. I media che entrano nello spazio domestico rinforzano queste strutture e «inquadrano il nostro senso della casa» (Silverstone 2002, p. 154), generando soglie virtuali e confini, richiedendo posizioni e gesti molto specifici, sempre intrecciati con i ruoli di genere costruiti dalla società. Ma quel che si rappresenta in Black Mirror è una forma di violenza domestica del tutto nuova, nella quale il marito usa la tecnologia come dispositivo di controllo e sorveglianza della moglie, che se ne serve in modo più passivo. Liam cerca di oggettivare i sentimenti di Ffion, ad esempio proiettando in salotto estratti della serata trascorsa con gli amici per focalizzare le espressioni della donna e dedurne il flirt con l’ex amante. Oppure, dopo che la moglie lo ha abbandonato, usa i ricordi per ‘sovrapporre’ al divano vuoto il corpo della donna che lo abitava, come in un dispositivo di realtà aumentata. Non siamo lontani dagli orizzonti attuali della domotica, che il pensiero femminista ha guardato fin dall’inizio con preoccupazione proprio per lo squilibrio fra i generi che rischia di reintrodurre (Berg 1992). Le smart house si basano sull’integrazione sempre più radicale di media e impianti ‘intelligenti’, cioè che si autoregolano connettendosi alle reti informatiche e di comunicazione, e per questo producono potenzialmente un gender clash: l’alta tecnologia, che è parte integrante dell’identità maschile, viene messa al servizio della casa, spazio di governo del femminile. Questo conflitto di domini non è in sé negativo, anzi, potenzialmente innesca forme di rinegoziazione delle identità; tuttavia, si associa all’evidente rimozione della casa come ambiente che genera un tipo di lavoro ancora in gran parte richiesto alle donne, immaginando che essa sia abitata da soggetti a riposo, alla ricerca di svago e relax. Le smart house investono sulla sicurezza, il comfort, il risparmio energetico e l’intrattenimento. L’alleggerimento del lavoro che la vita in casa richiede non è un obiettivo dell’innovazione domotica (che in questo campo è ferma ai robot per pulire il pavimento), mentre lo è la capacità di accogliere il suo abitante risparmiandogli il gesto di regolare le luci, la temperatura, di monitorare gli spazi e avere sotto controllo la disponibilità di alimenti e tutto ciò che desidera. L’intelligenza artificiale che prende corpo nella casa è un’estensione del maschio che si riprende pieno controllo dei suoi spazi, anche se si manifesta come una suadente voce di donna che risponde alle sue richieste confermando un’idea del femminile ausiliario e al servizio delle necessità maschili (Strengers e Kennedy 2021). Diversamente dalle precedenti filosofie di innovazione della casa, la domotica non si racconta come ricerca di alleggerimento e ottimizzazione delle condizioni del lavoro domestico. Abbiamo visto come questa preoccupazione storica sia stata una trappola ideologica, tuttavia, l’improvvisa sparizione di questo problema dall’agenda, e il suo occultamento all’interno di un immaginario upper class è altrettanto discutibile.
Con l’avvento della cultura digitale e la sua esponenziale accelerazione legata alla svolta pandemica, la casa connessa e aperta non sull’esterno, come accadeva con la televisione, bensì su altre case, come avviene con l’uso delle piattaforme, diventa un costrutto socio-tecnico nuovo. Trovare spazi di libertà e riprogettazione del femminile all’interno di questo nuovo senso del domestico significa ridistribuire i flussi di un doppio lavoro: la manutenzione quotidiana della casa e il lavoro svolto davanti al computer. La progettazione delle smart house dovrebbe integrarsi con la riflessione sullo smart working, un tipo di lavoro che implica la costruzione di una doppia visibilità, di sé stessi e della propria casa. L’introduzione del metaverso probabilmente offuscherà le nostre case (come già facciamo quando su Zoom virtualizziamo lo sfondo attorno al nostro primo piano), spostando la questione dalla progettazione dello spazio reale che finisce per caso nell’inquadratura a quella dello spazio virtuale che lo simboleggia. Infine, se l’articolazione di reale e virtuale diventerà una preoccupazione primaria della domotica, la questione di genere subirà una nuova torsione, e la fluidità di ruoli e identità, stanti le molte possibilità offerte dall’avatarizzazione, introdurrà nuovi temi di riflessione.
*Le autrici hanno collaborato all’ideazione del testo e suddiviso la stesura come segue: il paragrafo 1 è di Chiara Borroni, il paragrafo 2 di Barbara Grespi.
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