1. La ricerca in vetrina
L’articolo intende proporre – sotto forma di rapidi flash – degli spunti di riflessione metodologico-teorici sul ruolo svolto da mostre, esposizioni e allestimenti visivi nel presentare i risultati dell’attività di ricerca a livello accademico. L’idea nasce da due fenomeni convergenti: il bisogno di portare avanti considerazioni e valutazioni rispetto a esperienze concrete già messe in atto[1] e la necessità di pensare a un fenomeno – quello dell’allestimento di mostre ed esposizioni – sempre più frequente negli ultimi anni nelle università europee. Fare ricerca nelle materie umanistiche significa elaborare concetti teorici e applicare metodologie all’analisi di singoli case studies e la mostra può costituire uno strumento efficace per esporre e organizzare, anche narrativamente, il percorso teorico e analitico effettuato a monte e renderlo fruibile al di fuori della comunità universitaria. L’equilibrio, difficile da mantenere ma essenziale da raggiungere, è tra esigenze di tipo scientifico e la necessità di una democratizzazione della ricerca attuata attraverso delle scelte di semplicità e chiarezza. Che cos’è dunque una mostra? Che significa pensare, progettare, allestire un’esibizione nell’ambito accademico? Quali caratteristiche rendono l’allestimento visivo uno strumento efficace per la diffusione e la comunicazione dei risultati della ricerca?
2. L’importanza dell’esempio
Progettare e allestire una mostra significa mettere insieme un percorso fatto di esempi. Gli elementi che vengono selezionati svolgono un ruolo di semplificazione di quel background teorico immaginato e progettato in origine. In questo senso una mostra può apportare qualcosa alla ricerca, perché nel cercare la strada per la diffusione dei risultati vengono migliorate, affinate, aperte delle nuove piste di analisi. Come spiega Jan Baetens nel suo articolo L’exemple, un mal nécessaire?:
un exemple doit être «choisi», ce qui signifie qu’il doit être représentatif, tant sur le plan de la qualité que sur celui de la quantité (l’exemple doit «couvrir» les éléments théorisés, sans trop faire bifurquer le regard vers des aspects autres; il faut aussi trouver le bon équilibre entre l’exemple unique, qui résiste à la généralisation, et la liste exhaustive, qui diminue l’avantage pratique de recourir à un exemple.[2]
Progettare e allestire una mostra significa dunque mettere in campo un’abilità selettiva: gli esempi devono essere rappresentativi dal punto di vista teorico senza incorrere in una eccessiva generalizzazione. Un esempio deve essere utile, deve apportare qualcosa all’argomentazione, sia per consolidare un punto teorico in sospeso, sia per sbloccare e a volte superare un punto teorico già consolidato. Questo rientra in una nuova tendenza accademica che tende ad abbandonare un approccio esclusivamente teorico e autoreferenziale, per andare nella direzione di un pubblico più ampio, portando in campo anche esempi pratici e concreti. Possiamo interpretare il percorso creativo della mostra come un’attenta e accurata selezione di esempi utili al sostegno di una complessa e articolata teoria. Il gruppo di ricerca MDRN dell’Università di Leuven si è mosso su questa strada nel progettare e allestire la mostra Literature as document. Visual culture of the Thirties (Leuven, Dicembre 2012) selezionando un campione di esempi stratificati dal punto di vista culturale e nazionale nel tentativo di dare concretezza e comprensibilità alle riflessioni storico-teoriche sul rapporto tra letteratura e documento negli anni Trenta.
Prendendo in prestito le strumentazioni e le terminologie retoriche potremmo immaginare la mostra come una combinazione di sineddochi visive che, attraverso il linguaggio accattivante della visualità, introducono il visitatore alla conoscenza di idee e concetti più ampi. La sineddoche è in effetti quella figura retorica che conferisce a una parola, a un’immagine, a un oggetto un significato più o meno esteso di quello che naturalmente le è proprio, per esempio nominando la parte per il tutto. Nella mostra si sceglie di esporre una piccola parte di un insieme spesso molto più complesso. Ciò non significa che un singolo elemento scelto e posizionato nella mostra possa considerarsi rappresentativo di una intera tradizione nazionale o culturale, ma è certamente una rappresentazione visiva o, come sottolineato prima, un esempio dell’idea globale che c’è dietro a quella scelta. Abbiamo detto che nel preparare una mostra si compiono delle scelte. Si selezionano una copertina, un’immagine, una frase, un libro, se non a volte il lavoro di un autore o di una intera corrente di pensiero. Si tratta in effetti di un espediente retorico. Si sceglie una parte per il tutto, ritenendo che quella parte possa essere in grado di esprimere qualcosa riguardo ai contenuti generali. Sarebbe impossibile in uno spazio limitato e delimitato dar conto della complessità dell’apparato teorico della ricerca, e ciò genera la necessità di estrapolare un elemento nella sua rappresentatività. È quanto avvenuto nella mostra Literature as document. Visual culture of the Thirties, organizzata nel Dicembre 2012 all’Università di Leuven dove, nella sezione dedicate ai testi ibridi costruiti dalla cooperazione tra elementi verbali e non verbali, si è scelto di presentare Three guineas di Virginia Woolf (1938) o Banalité di Fargue, Parry e Loris (1930), come esempi di testi letterari che incorporano documenti fotografici e che costruiscono il loro senso e significato attraverso la collaborazione tra elementi verbali e fotografici.
3. Gli oggetti: un nuovo modo di scrivere la storia letteraria?
Una mostra cerca di pensare e immaginare degli oggetti nel loro insieme, mentre li classifica. E cos’è questo se non esattamente ciò che fa la ricerca nel momento in cui si confronta con nuovi oggetti, nuovi mondi e nel momento in cui accosta tra di loro diversi problemi e soluzioni?
Allestire un’esibizione significa scegliere, prendere, accostare, sistemare, installare degli oggetti e creare con essi un percorso di contenuti. Forse è possibile pensare a una nuova modalità di scrittura della storia letteraria partendo proprio dagli oggetti, dai suoi prodotti, da ciò che è tangibile, prima ancora che dalla successione di avvenimenti e fatti storici. Ciò consentirebbe di dare maggiore concretezza e materialità alla storia letteraria.
Le operazioni di scelta e classificazione e la costruzione di un percorso – operazioni necessarie per l’allestimento di un’esibizione – costruiscono un tassello della ricerca, un preciso segmento considerabile anche come un frammento di storia letteraria. Il gruppo MDRN dell’Università di Leuven nel volume Modern times. Literary change[3] ha sviluppato un nuovo approccio funzionalista alla moderna storiografia letteraria e ha introdotto metodi alternativi per rapportarsi con le scritture europee e le loro molteplici storie, funzioni, mediatizzazioni.
Uno degli assi portanti di questo approccio funzionalista è l’idea per cui si possa partire anche dagli oggetti, discorsi e pratiche per costruire la storia letteraria:
Modern literature is a cultural form in permanent evolution. While there are numerous ways to describe the basic building blocks involved in the process of literary change, we propose to view literature as constituted of objects, discourses, practices and media.[4]
Gli oggetti letterari sono principalmente testi, intesi nel senso più ampio del termine. Questi oggetti cambiano continuamente e anche differenti edizioni dello stesso testo possono essere considerate come nuovi oggetti, perché anche se il lay-out e i font rimangono inalterati, è il contesto che cambia e di conseguenza anche il loro significato e la loro funzione (Baetens, 2013).
Gli oggetti letterari non possono essere separati da tutti i tipi di discorsi che li riguardano, che li valutano e che li giudicano. Nominare, classificare e raggruppare testi significa anche dar loro una posizione all’interno della storia letteraria. Inoltre la letteratura è costituita di pratiche, di alcuni atti ed esperienze individuali e collettive che accompagnano il dialogo tra oggetti e discorsi.
Esibizioni e mostre ci danno efficacemente conto di questa materialità della storia letteraria e della capacità che la letteratura ha di muoversi tra oggetti, pratiche individuali e sociali e tutti i discorsi che ne scaturiscono.
4. Mostra come semiosfera
In termini semiotici possiamo definire una mostra come un’organizzazione in cui dialogano e si armonizzano segni diversi o, per citare Lotman, come una «semiosfera»,[5] un insieme dei segni che appartengono a uno spazio chiuso all’interno del quale si possono realizzare processi comunicativi ed elaborare nuove informazioni. La mostra può essere considerata come un organismo unico, uno spazio semiotico complessivo che nella sua unitarietà rende significativo il singolo atto segnico (testo, frammento di linguaggio, ecc.). Per esemplificare il concetto di «semiosfera» Lotman immagina proprio la sala di un museo o di una mostra nelle quali vengono esposti oggetti appartenenti a secoli diversi, inscrizioni in lingue note e ignote, istruzioni per la decifrazione, un testo esplicativo redatto dagli organizzatori, gli schemi di itinerari per la visita della mostra, le regole di comportamento per i visitatori. La semiosfera può essere intesa sia in senso globale (l’intero spazio della significazione, cioè in definitiva una cultura), sia in senso locale e specifico: possiamo parlare di un determinato spazio semiotico, per esempio un museo come una forma che organizza e in cui si stratificano concrezioni di senso diverse, attraverso architettura, opere, oggetti, supporti, segnaletiche, testi esplicativi, comportamenti di curatori, impiegati, custodi, visitatori.[6] Espressioni di soggettività autonome che in questo spazio entrano in contatto e in relazione, si traducono reciprocamente, a volte entrano in conflitto, o si limitano a coesistere. Danno vita a un insieme dinamico. La mostra Literature as document. Visual culture of the Thirties ha presentato diversi oggetti, appartenenti a numerose nazioni e aree culturali stratificate e diversificate, creando uno spazio chiuso coerente e omogeneo che è possibile leggere e fruire come un testo unico, frutto dell’elaborazione della ricerca accademica. Il percorso ha previsto la suddivisione in aree tematiche, che corrispondevano alla suddivisione teorico-concettuale del materiale, più una sezione finale dedicata in modo specifico agli oggetti della vita quotidiana della middleclass europea degli anni Trenta in Europa, creando così un percorso omogeneo dal punto di vista contenutistico.[7]
Gli oggetti non entrano da soli in una mostra o esposizione, ma sono scelti, organizzati in collezioni e disposti in percorsi significanti a beneficio di un pubblico, da soggetti collettivi opportunamente delegati a questa funzione di ricerca, selezione, allestimento, valorizzazione, costruzione di rapporti di senso, comunicazione. La realizzazione di una esposizione dunque presuppone una complessa istanza produttrice, le cui tracce enunciative sono riconducibili a un progetto complessivo articolato in vari livelli di pertinenza.
5. La natura ipertestuale e sincretica della mostra
Nel meccanismo della mostra immagini e parole, talvolta video, cooperano insieme in un processo di creazione di significato. Il senso finale che il visitatore è in grado di percepire dipende sempre in gran parte da questa combinazione di mezzi espressivi. Ne deriva una definizione di mostra come testo, testo da leggere, testo da vivere, testo da interpretare, grazie alla cooperazione di linguaggi diversi che confluiscono in un prodotto univoco. La mostra dunque come testo sincretico, come prodotto della comunicazione verbo-visuale, costituito grazie all’apporto di più codici espressivi: immagini, testi verbali e suoni messi in gioco in una stessa istanza di enunciazione.[8]
La mostra si presenta come una delle situazioni in cui il linguaggio visivo svolge una funzione cruciale. L’esibizione è il luogo del vedere e del mostrare in una cultura come la nostra in cui il vedere è in stretta relazione semantica con il sapere, vedere è sapere, come sottolinea Philippe Hamon che in un saggio dal titolo Expositions. Littérature et architecture au XIXesiècle [9] evidenzia come l’esposizione comporti la preminenza dello sguardo, dei suoi specifici piaceri, degli spazi architettonici che possono venire pianificati in un percorso vincolante, presentazione di collezioni di oggetti, pratiche istituzionali e sociali ritualizzate. Dice Hamon che nella mostra c’è una ostentazione di conoscenze e saperi e quindi un esercizio accompagnatorio di un linguaggio esplicativo e designativo-descrittivo:
chi dice esposizione dice preminenza dello sguardo, dei suoi specifici piaceri e dispiaceri, dice spazio architettonico pianificato leggibilmente per un percorso più o meno vincolante, dice presentazione razionale di collezioni di oggetti, dice pratiche istituzionali e sociali ritualizzate, e dice anche ostentazione di un sapere e quindi esercizio accompagnatorio di un linguaggio esplicativo, da una parte (l’esposizione spiega), designativo e descrittivo dall’altra (l’esposizione mette in mostra oggetti etichettati e designati).[10]
Dall’altro la mostra è anche esplicazione, perché il lettore/spettatore si muove tra immagini statiche o immagini in movimento, che deve essere in grado di interpretare. In questo processo di analisi e comprensione la parte linguistica – il pannello esplicativo – e l’immagine cooperano nel processo di costruzione del significato.
L’attenzione del ricercatore che prepara una mostra non dovrebbe tralasciare di conseguenza l’importanza della spiegazione contenuta nel pannello che svolge un ruolo essenziale: crea un percorso, spiega, orienta, riduce l’ambiguità insita nella polisemia dell’immagine e rinforza i significati portati in campo dalla parte visiva.[11]
L’immagine o l’oggetto esposti hanno tanti significati potenziali. Come sottolinea Barthes ogni immagine è polisemica, poiché implica, al di sotto dei suoi significati una «catena fluttuante» di significati, che il lettore può in parte scegliere e in parte ignorare. Spetta al linguaggio letterale il compito di selezionare, tra i tanti possibili significati insiti in quello iconico, quello corretto o più idoneo. Allo stesso tempo il linguaggio letterale svolge una funzione di rinforzo, perché coopera con quello visuale nella costruzione del significato. È un’azione di integrazione che il pannello e l’immagine o l’oggetto esposti mettono in campo: il visitatore non potrebbe capire il senso dell’immagine all’interno del contesto espositivo senza il supporto del pannello e allo stesso tempo il pannello preso singolarmente non avrebbe alcun senso. È la combinazione tra diversi elementi a costruire il significato. Per quanto riguarda l’aspetto visivo, nella mostra Literature as document. Visual culture of the Thirties si è scelto di esporre soprattutto copertine di libri, affidando agli elementi paratestuali il compito di far comprendere al lettore/recettore il senso del percorso creato. Quell’insieme di elementi verbali e non verbali definiti da Genette[12] paratesto svolge il ruolo di agevolare la ricezione e il consumo del testo, presentandolo, rendendolo presente e collegandolo ai propri fruitori. La scelta è caduta in larga parte sulle copertine per un motivo specifico. Per spiegarlo possiamo usare le parole di Giovanna Zaganelli quando dice:
Ragioneremmo per difetto se ci limitassimo a considerare la copertina un puro involucro che contiene al suo interno l’anima intellettuale del volume (ma di già porteremmo in campo una serie di temi legati alla grafica, al formato, all’immagine e così via, oltre che alla non secondaria funzione di conservazione del prodotto) dato che in realtà essa comporta un quadro molto più complesso: identifica il libro, lo colloca in uno spazio editoriale, intrattiene una relazione con il contenuto del testo, spesso si rapporta agli intenti letterari dell’autore (non solo quando è egli stesso a suggerirla o strutturarla) e rappresenta uno spazio comunicativo fonte di informazioni per il lettore che può percorrerla, percepirla, identificarla e guidare il suo sguardo fino alla quarta.[13]
La copertina è sembrata in molti casi la scelta più opportuna per assolvere a quella funzione di esemplificazione teorica nell’ambito della ricerca accademica di cui parla Jan Baetens.
6. Il bisogno di narrazione
Come ci è stato ben spiegato da alcuni studi cognitivi[14] ciascun individuo ha un innato bisogno di narrazione. Narrare è un modo per costruire se stessi, la propria identità, la propria realtà. Non si tratta di un passatempo piacevole, ma uno dei meccanismi piscologici fondamentali a disposizione dell’individuo e dei gruppi sociali. Narrare, ovvero raccontare storie su se stessi e sugli altri, è uno dei modi più naturali e precoci di organizzare l’esperienza e la conoscenza:
È soprattutto attraverso le nostre narrazioni che costruiamo una versione di noi stessi nel mondo, ed è attraverso la sua narrativa che una cultura fornisce ai suoi membri modelli di identità e di capacità d’azione.[15]
Mostre ed esibizioni mettono in atto un processo narrativo nel momento in cui costruiscono un percorso e rendono visibile e tangibile l’idea che sta dietro alla narrazione. Sia nella fase di allestimento che in quella di fruizione, la mostra è in grado di assecondare un bisogno di narrazione insito in ognuno di noi: la progettazione di un percorso di visita prevede così una serie complessa di scelte che costituiscono senza dubbio un’operazione narrativa e contribuiscono alla costruzione di una realtà e alla concretizzazione delle idee che stanno dietro il percorso di ricerca. Con la mostra si stabilisce un punto di partenza e un punto di arrivo e si suggerisce un percorso; dopodiché ogni visitatore compie delle scelte (seguire quel percorso, evitare quel percorso, crearne di nuovi). Ogni soggetto/visitatore può decidere di attivare un proprio percorso narrativo differente che si snoda secondo modalità autonome. Ciò che può fare l’organizzatore è suggerire un principale percorso di visita che interpreti le sue intenzionalità narrative, e in cui ognuno è nelle condizioni di assecondare e sviluppare un bisogno di narrazione, trasgredendo il percorso predeterminato e creandone uno nuovo. Ogni visitatore porta con sé un bagaglio di esperienze, capacità, interessi che lo guideranno nel suo percorso.
7. Dalla visita alla navigazione
Quando passiamo dalla mostra reale alla mostra online l’idea della narrazione in qualche modo cambia: il percorso non è più fisico, ma virtuale. L’idea di un percorso è ovviamente ancora presente ed è creato da un sistema di gallerie, di frecce, di diagrammi e link, nonché dalla disposizione degli oggetti in un determinato ordine. Il percorso non si esaurisce in quello della mostra: si moltiplica grazie alla presenza di una moltitudine di altri percorsi possibili. Nell’esibizione online la contiguità fisica è rimpiazzata da potenziali link interni.
Nella mostra online[16] il percorso è costruito dai link che invitano – talvolta forzano – il lettore a una interazione con il testo, a prendere una posizione rispetto a esso, facendo delle scelte e connettendo parti diverse. L’autore di una mostra online crea link e connessioni e cerca in questo modo di guidare il percorso del lettore. Si creano dei punti di partenza e dei punti di arrivo.[17] Il visitatore di una mostra reale – così come il visitatore di una mostra virtuale – è abituato a seguire dei percorsi e sviluppa delle aspettative perché sa che il punto di arrivo è una prosecuzione e una spiegazione del punto di partenza e si aspetta di essere guidato in modo efficace in questo percorso.
I link esterni permettono allo spettatore di riferirsi a illustrazioni, a testi letterari, ad analisi e critiche che gli consentono letteralmente di ‘andare più lontano’, di uscire fuori del testo per esplorare nuovi mondi e possibilità.
Anche l’allestimento delle mostre cambia notevolmente e il passaggio dalla mostra reale a quella virtuale – così come è avvenuto per il caso della mostra del gruppo MDRN – prevede una ristrutturazione, un ripensamento, un riselezionamento dei materiali. Mentre nella mostra fisica sono stati realizzati dei pannelli generici che illustravano i contenuti organizzandoli per blocchi, nella mostra online si è scelto di andare in profondità e di affidare a colleghi, studiosi, ricercatori, un approfondimento su alcuni aspetti e un’attività di ricerca sul singolo oggetto letterario. Si è riusciti in questo modo a creare un percorso in cui alcuni singoli elementi, rappresentativi di tendenze più ampie, fossero messi ‘sotto l’occhio del riflettore’ facendone esempi emblematici di tendenze molto più ampie.
Dunque si può immaginare un percorso complementare in cui mostra reale e mostra virtuale si integrino per illustrare, attraverso il linguaggio della visualità, i contenuti teorici della ricerca accademica e che li organizzino per metterli poi a disposizione dello studente, del ricercatore, o anche del semplice visitatore interessato. Questo tipo di comunicazione verbo-visuale si adatta in maniera particolarmente efficace alle nuove abitudini di lettura e di fruizione narrativa sempre più multimediale, facendo riferimento a una molteplicità di sensi e contribuendo così a una assimilazione particolarmente efficace dei contenuti della ricerca.
1 Il gruppo di ricerca MDRN (www.mdrn.be) di cui fanno parte le autrici di questo testo ha realizzato numerose esibizioni: Literature as document. Visual culture of the Thirties; De fotoroman in alle staten - The Photo Novel Inside Out - Le roman photo dans tous ses états; Écrivains: modes d'emploi. De Voltaire à bleu Orange, revue hypermédiatique.
2 J. Baetens, L’exemple, un mal nécessaire?, «MethIS», 4, 2011, p. 144.
3 J. Baetens et alii, Modern Times. Literary Change, Leuven, Peeters, 2013.
4 Ivi, p. 13.
5 Y. M. Lotman, “O semiosfere”. Sign Systems Studies (Trudy po znakovym sistemam), vol. 17, 1984, pp. 5–23.
6 Per un approfondimento sul tema si veda I. Pezzini, Semiotica dei nuovi musei, Roma-Bari, Laterza, 2011.
7 Per il dettaglio si vedano le voci dedicate alle singole sezioni nella Galleria Testi da leggere, testi da guardare: i discorsi della letteratura attraverso le immagini negli anni Trenta, a cura di Sarah Bonciarelli, Anne Reverseau, Carmen van den Bergh pubblicata su questo stesso numero di «Arabeschi» inserire link.
8 Cfr. A. Greimas, J. Courtés, Sémiotique. Dictionnaire raisonné de la théorie du langage, Paris, Hachette, 1979.
9 P. Hamon, Esposizione: architettura e letteratura nel XIX secolo 1989, trad. it. di M. Di Puolo, Bologna, CLUEB, 1995.
10 Ivi, p. 15.
11 Cfr. R. Barthes, Rhétorique de l'image, «Communications», 4, 1964, pp. 40-51.
12 G. Genette, Seuils, Paris, Seuil, 1987.
13 G. Zaganelli (a cura di), Letteratura in copertina. Collane di narrativa in biblioteca tra il 1950 e il 1980, Bologna, Logo Fausto Lupetti, 2013, p. 9.
14 Cfr, J. Bruner, Actual Minds, Possible worlds, Cambridge, MA Harvard University Press, 1986.
15 J. Bruner, La Cultura dell’educazione, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 12.
16 Si veda ad esempio la mostra allestita dal gruppo di ricerca MDRN nel sito litteraturesmodesdemploi.org.
17 C. Legris, C. Bitoun, L’analisi dei siti Internet, in A. Semprini (a cura di), Lo sguardo sociosemiotico. Comunicazione, marche, media, pubblicità, Milano, Franco Angeli, 2001.