Quando nel 2004 Gabriele Frasca congedava la seconda stesura de Il fermo volere in un allora pioneristico e-book, accennava alla possibilità di una pubblicazione anche cartacea del romanzo, purché fedele all’idea di «ibrido mediale»:
ciò non vuol dire, naturalmente, che do in questo modo l’addio al mondo dell’editoria, e sicuramente non a quello delle piccole battagliere e rischiose iniziative capaci ancora di un progetto culturale «forte» e di un’idea assolutamente innovativa dell’oggetto-libro […] e neanche che rinuncio alla veste tipografica per questo romanzo (magari ve ne sarà una, anche a breve, ma secondo il principio dell’autorialità plurima e dell’ibrido mediale che attualmente mi interessa di più).[1]
Erano gli anni in cui la riflessione teorica di Frasca sulla letteratura e i suoi supporti stava per concretizzarsi nell’opera critica La lettera che muore, un attraversamento della letteratura dalle origini fino al presente che si sofferma particolarmente su quelle fasi in cui essa si è trasferita da un medium a un altro o che hanno visto nascere ibridi mediali:
quelle opere d’arte […] in cui l’incrocio fra un nuovo e un vecchio medium viene appositamente perseguito per creare un «ibrido», insomma una nuova forma che non solo, come voleva McLuhan, cospira per il «risveglio» dalla «narcosi narcisistica» determinata dal medium imperante (McLuhan 1964, p. 66), ma che si pone esplicitamente l’obiettivo di fare «nuova» comunità con i propri fruitori (e, per l’appunto, modificandoli, nell’attesa che, attraverso tale metamorfosi, acquisti coscienza di sé il «popolo che manca»).[2]
L’umanità, connessa alle sue protesi mediali, giace assopita, da sempre. In qualsiasi epoca «ogni nuovo incrocio mediale fra un contenitore più maneggevole e un trasmettitore più agile dell’informazione non genetica […] tende ad assorbire completamente (fino allo stupor) il sensorio umano, ingenerando quella sensazione di rapimento sonnambolico che Marshall McLuhan descriveva con la figura (dell’alienazione) di ‘Narciso come narcosi’».[3] Gli ibridi mediali hanno così una vocazione politica e cospirativa. La qualità composita dei loro supporti permette di ricreare artificialmente quei momenti di passaggio da un medium all’altro in cui, stando a Marshall McLuhan, l’uomo acquista consapevolezza dello stato di narcosi al quale il medium diventato obsoleto lo costringeva. Non limitandosi «a rappresentare, magari allegoricamente, la trasformazione in atto nelle modalità di trasmissione dell’informazione non genetica», ma mostrando «innanzi tutto una faccia riflettente con la quale guardare, e narrare, proteiformi gli stessi fruitori, educandoli in tal modo a riposizionare i sensi»,[4] gli ibridi mediali si pongono come opere in grado di non disperdersi nell’ «inarrestabile chiacchiericcio in cui siamo immersi».[5]
Non sono enigmi a chiave che una volta risolti pretendono di trasmettere al fruitore la conoscenza della verità, ma «macchine per il riposizionamento dei sensi»,[6] funzionanti grazie all’assetto percettivo che impongono. L’interpretazione del loro significato, almeno nel senso di messaggio riconducibile al contenuto, fallisce sistematicamente, perché costretta a fronteggiare una diffrazione di ipotesi ermeneutiche tutte ugualmente valide. Quando Spirit, lo strampalato detective protagonista de Il fermo volere, mette in guardia il suo aiutante Ebony sui rischi dell’interpretazione infinita, è una marionetta che recita le convinzioni letterarie dell’autore: «interpretare non aiuta a ritrovare il senso, ma a marcire un evento col marcio di dentro».[7]
La forza degli ibridi mediali risiede principalmente nella loro forma. Il contenuto è riducibile alla «stessa sbobba, andata a male, per tutti».[8] Il racconto originale di caratteri e personaggi è un’illusione smentita dalla tradizione. Se le trame, esautorate dalla serialità, già dal principio della cultura possono dirsi consunte, è sul «piano della percezione» che l’artista, grazie alla consapevolezza degli strumenti estetici che utilizza, manifesta la propria visione del mondo:
tocca spesso ai prodotti dell’arte «presentire» quanto è in effetti già presente; l’artista consapevole, o appena smaliziato, è portato per forza di cose a riflettere sui suoi stessi materiali, sulla loro consistenza e sulle modalità del loro impiego (McLuhan M., McLuhan E. 1988, p. 136), e dunque a osservare e valutare, insomma a deterritorializzare, «le percezioni dominanti all’interno di un ambiente naturale, storico e sociale» per riterritorializzarle sul «piano della percezione» (Deleuze, Guattari 1991, p. 204).[9]
L’interpretazione data da Frasca dell’opera di Philip Dick vale allora quanto una dichiarazione di poetica:[10]
era per rivelarci come mettere in funzione il congegno che l’autore ci ha convocati: perché, insomma, sarà stata proprio questa l’intima motivazione per cui ha continuato a mettere insieme percetti e affetti, fra le mille incertezze gli errori, le ossessioni deliranti e tutte quelle cose «troppo grandi», e «intollerabili» che ha visto, e che ha vissuto, come tutti. Non aveva intenzione alcuna di divertirci, le parole e i loro mondi possibili erano soltanto un’esca, e dunque, parrebbe aggiungere, chi desidera solo parole svuotate e mondi gonfiati a meraviglia si accomodi pure altrove […] Voleva darci un sandwich, sperava che ce ne nutrissimo, e che magari imparassimo a dimenticare quel narcisistico rinchiuderci nel «nostro» passato, e nell’immaginario bell’e pronto che sempre lo comprende, che ci impedisce di sussultare a quanto chiede a ciascuno di noi l’oggi.[11]
«I piccoli eventi della storia, di ogni storia»[12] non conterebbero se non fossero materiale di rivestimento e di imbottitura per confezionare ibridi mediali.[13] È la guarnizione del «pacco»,[14] la scelta della sua forma e dei suoi materiali a convertire «un inutile elenco di fatti»[15] in un potenziale strumento di rivoluzione. L’ibridazione garantisce che la decodifica del fruitore si inceppi di fronte all’anomalia, che è la sola, proprio come nella vicenda di Spirit, in grado di rimettere in moto un’esistenza intorpidita:
Il fatto era che a Spirit non era mai accaduto di avvertire un tale trambusto, né mai era stato prima di allora costretto a sottostare a forze che si qualificavano come contraddittorie. Da ciò, d’altra parte, e ci si domanda chi altri mai lo potrebbe, non aveva tratto alcun beneficio dialettico. A tanto era bastato quell’incontro: un attimo e, pfff, altro da ciò che era. E se pure avesse voluto, dopo tale sconvolgimento, e non chiamiamolo amore perché altrimenti dovremmo declinarne le patologie, operare di restauro sul suo animo, o quantomeno tentarci, Spirit non aveva più la benché minima idea di come fosse stato prima che Moira Mori, vale a dire ciò che Moira Mori aveva fermentato, lo inducesse a chiedersi come era stato. Già, come era stato, prima?
Dopo l’incontro con Moira Mori, Spirit si era sentito finalmente attraversato dai nervi, e anche da tutto il resto […].[16]
La metamorfosi de Il fermo volere è la ricerca di un assetto mediale dell’opera letteraria effettivamente in grado di assurgere alle «implicazioni politiche»[17] che Frasca attribuisce da sempre alla propria letteratura. Con la pubblicazione nel 2005 della nuova edizione cartacea, il cambiamento è vistosissimo. Saldato al fumetto di Luca Dalisi, Il fermo volere diviene un’opera ‘anfibia’.[18] Per quanto lo scarto tra le due opere sia clamoroso, il passaggio da romanzo a ‘fumanzo’ è in realtà il progressivo complicarsi e perfezionarsi di un ibrido mediale, la messa a punto dell’ordigno. La storia delle revisioni de Il fermo volere è il racconto di un’evoluzione che attraversa non soltanto due stesure, ma anche tre diversi assetti mediali.
L’edizione del 1987, cartacea, si poneva verso il suo fruitore come un ibrido di scrittura e oralità. L’«uso debole della scriptio continua» (l’autore non andava «mai a capo») veniva adottato per «costringere il lettore a tirar fuori la voce»,[19] contaminando le sue abitudini di «uomo tipografico»[20] con quelle di fruitore dei media elettrici, abituato invece alla trasmissione orale dell’informazione non genetica.[21] Era una forma ibrida che Frasca aveva già adottato nel 1984 per la raccolta di versi Rame e che sarà la vera costante di tutta la sua produzione letteraria successiva, in quanto motivazione profonda della ripresa metrica adottata: «la nascita del ‘metro’ come medium altro dal linguaggio-medium […] è dunque paragonabile all’introduzione della scrittura, in quanto da un lato liberò il linguaggio dal suo compito selettivo e informativo […] e dall’altro diede il via alla progressiva estroflessione dei mezzi per la trasmissione del sapere».[22] Come la metrica è sintomo di oralità ed espediente che struttura il discorso sottraendolo alla sciatteria del chiacchiericcio quotidiano, lo stesso si può dire per l’indiretto libero che attraversa Il fermo volere e più in generale le opere in prosa di Frasca. Metrica e indiretto libero sono produttori di stile,
«il miglior agente della memoria nelle opere della cultura, e il solo che valga nelle manifestazioni del linguaggio», al punto tale che la «funzione stilistica» si rivela immediatamente come una «funzione mnemonica», così come «l’assenza di stile di un testo che si vuole contingente al più alto grado, come è il caso delle finzioni dei bugiardi, paralizza le operazioni della memoria» (Weinrich 1994, pp. 154-155).[23]
Fondere oralità e scrittura non vuol dire, però, tendere verso un parlato pseudo-autentico: «ogni simulazione della lingua ordinaria», infatti, non sarebbe altro che la «volontà di sottrarsi alla memoria».[24] Invece la letteratura che ambisce a restare nella mente del lettore, orale o scritta che sia, non può e non deve privarsi delle «sottili intelaiature sintattiche» necessarie per «“scegliere” e “ripiegare” il dicibile acché possa “dispiegarsi” nel lettore»,[25] imponendo «un ritmo al pensiero».[26]
Il fermo volere del 2001 galleggia su tutt’altro medium: su quel libro elettronico che qualche anno dopo avrebbe dimostrato di poter competere con la pagina stampata. Frasca riflette sulle differenze tra i due media e modifica l’impostazione tipografica. Immaginando i modi di fruizione del nuovo medium indotti dai suoi «bianchi oramai così brillanti» e «la forma ridotta, e verticale, della pagina luminosa», decide di «pertinentizzare le pause»[27] e di ristabilire gli a capo. In questa edizione si intrecciano le modalità di fruizione legata al supporto cartaceo e alla pagina elettronica,[28] percepita dall’autore come innovativa. Ma è solo l’ibridazione più vistosa. Nel romanzo serpeggia un altro medium: il cinema. Si susseguono nella nuova stesura citazioni di brani musicali. Poche parole per ognuno e talvolta qualche commento da rivista specializzata: «E dopo i Talking Heads di due anni prima, era giunto il basso ombelicale di Malka Yoyo Spigel e la nenia medio-orientale di Samy Birnbach. Got to find. Peace of mind. Got to find. Morpheus secrets».[29] Sono sirene che chiedono al lettore di fare eco, di canticchiare i versi, riportando in vita l’atmosfera di quel 1982 in cui sono ambientate le vicende. Non si tratta semplicemente di un omaggio al citazionismo post-moderno, ma del tentativo di mutuare dal cinema il sonoro. L’elemento, cioè, che stando alle parole di Toni Giusti, il lungimirante regista presente nel romanzo Dai cancelli d’acciaio, è «la potenza spirituale del cinema»,[30] perché «l’occhio può fare quello che vuole con la luce, ma il suono scende e ti imbratta il cuore».[31]
Fagocitate tutte le altre ibridazioni, Il fermo volere del 2005 è indubbiamente un ibrido mediale molto articolato. Letteratura, cinema, musica, fumetto e rispettivi modi di fruizione sono tutti coinvolti in questo «caso esemplare».[32] Oltre al volume ibrido, fumetto e romanzo, l’opera amplifica l’impatto delle citazioni musicali grazie alla presenza di un cd intitolato Merrie Melodies (come i cartoons della Warner Bros in cui comparivano i Looney Tunes) composto da tredici pezzi a cui hanno lavorato lo stesso Frasca per i testi e il compositore e musicista Steven Brown[33] per le musiche.
La veste tipografica scelta per il volume separa nettamente il fumetto dal romanzo: nella pagina sinistra il primo, in quella destra l’altro, secondo la consuetudine delle traduzioni con testo in lingua originale a fronte. Le due narrazioni procedono in parallelo, ma non sono una la scimmia dell’altra. Sono simbionti. Traggono vantaggio dalla loro prossimità, sfruttando l’altrui potenziale per far fronte alle proprie debolezze costitutive. Le vignette di Dalisi possono perciò procedere nell’afonia, simili a molte tavole che compongono i graphic novels di Will Eisner, dato che dialoghi e pensieri dei personaggi sono espressi dall’indiretto libero della pagina destra. D’altra parte ciò non vuol dire che nelle vignette domini il silenzio. Come una sorta di rumorista, infatti, Dalisi fornisce un ricco ventaglio di suoni onomatopeici, racchiusi nei balloons o sparsi intorno ai personaggi.[34] Un contrappunto di rumori conferisce carattere mimetico alla chirurgica ma indiretta descrizione di Frasca:
E quando Spirit, facile all’esasperazione, gli aveva allentato il solito spintone, che quasi il ragazzo finiva lungo per terra, e questi, per non cadere, incespicando qua e là, aveva finito per piantarsi con tutto il suo peso giusto sul piede destro del detective, che aveva a sua volta ululato oooh e s’era messo a saltellare sull’altro piede, bene, nessun appiglio o argine di sorta, in specie se di materiale scadente come i tavolini, i portariviste e le sedie tutt’intorno, avrebbe potuto sostenere il piegarsi e lo scontorcersi degli astanti, al punto che la ricezione aveva risuonato di tonfi violenti e stridori spaventosi, non ultimi gli strilli ribolliti via dalle viscere della proprietaria che avrebbe detto, raccomandandosi alla Santissima Vergine, essere entrati, fumanti e tutto, i tori di Pamplona.[35]
Parola e immagine restano competenze separate. Il gioco delle parti è regolato da una generale polarizzazione di linguaggi. Accade così che persino quando il fumetto di Dalisi è chiamato a mostrare il pensiero di un personaggio (per esempio il gatto nel balloon del guardiano a p. 14, oppure a esprimere la bestemmia «Dio càncher»)[36] di un uomo in procinto di cadere,[37] sono sempre utilizzate immagini.
Immagini in bianco e nero. Perché fornire il colore a Il fermo volere è compito del romanzo. Sono le parole di Frasca a neutralizzare la differenza cromatica tra il fumetto di Dalisi e l’originale di Eisner e a confermare la corrispondenza tra l’abbigliamento dello Spirit di Civitacentri e di quello di Central City:
E avevano difatti, mentre duravano le contrattazioni, riso sinceramente del detective, del cappello floscio e di quella balorda mascherina; e avevano cordialmente sghignazzato del retrodatato taglio della sua giacca, per non parlare dei pantaloni, a loro volta color carta da zucchero, e di quella cravattina stretta stretta rossa e nera.[38]
Ed è sempre dalle parole di Frasca che emerge il colore scelto per l’abbigliamento di Moira Mori, tutt’altro che casuale:
Spirit aveva lentamente portato gli occhi all’altezza desiderata, scorgendo oltre il ligneo orizzonte della scrivania l’ottusità di cosce appena corrette da un timido minuscolo panno verde elettrico, l’assordare di seni che severamente mettevano in forse la pazienza dei bottoni di una camicetta bianca spruzzata di azzardati pentagonali fiori verde scuro.[39]
Per quanto minimo, il colore «verde elettrico» dell’abito è un dettaglio rilevante. Tinta dell’intero guardaroba di Moira Mori (escluso l’intimo «perlopiù nero»), persino di quello indossato sotto le mentite spoglie di Regina Casella (nella foto ritrovata da Ebony indossa «bikini di un verde elettrico che sembravano destinati a sfilacciarsi per poi esplodere»),[40] il verde rappresenta una variante rispetto alla stesura del 1987, dove il «minuscolo panno» era nero e la camicetta picchiettata di fiori neri dalla forma (contrariamente alla nuova stesura) imprecisata. Il verde è il cordone che lega Moira e un altro personaggio, estraneo al mondo di The Spirit ma non a quello del Frasca lettore di fumetti e del «gotico, ambiguo, sessuofobico Batman».[41] Si tratta di Poison Ivy,[42] uno degli antagonisti femminili di Batman, conosciuta nelle traduzioni italiane anche come Edera Velenosa. Poison Ivy ha molto in comune con Moira. Sono incarnazioni della sensualità incontenibile. Ninfe che uccidono grazie alla loro bellezza. Se il bacio velenoso di Poison Ivy è il suggello mortale a un’implacabile opera di seduzione, lo sguardo di Moira s’infiltra nella memoria di chi la guarda, cancellandone «il fermo volere» e il libero arbitrio:
E poi, da quale di quei due, quei due che erano uno, o meglio da quale di quelle due metà, la signorina Mori continuava a guardarlo, o almeno a guardare quell’altra metà, o metà di una metà, che si sentiva guardata? Spirit, del resto era fin troppo consapevole di avere cominciato a condursi come sperava che sarebbe piaciuto alla signorina Mori che si muovesse. Non era così? Sì. Tanto valeva, allora.[43]
Gli occhi di Moira sono «finestre oblunghe»[44] come quelli di Poison Ivy. Ma quando si chiudono sotto le palpebre coperte d’ombretto, sono gli occhi languidi di Jessica Rabbit, la femme fatale suo malgrado di casa Disney: «Io non sono cattiva, è che mi disegnano così». E Moira, la cui somiglianza con Jessica si fa impressionante una volta indossate le mentite spoglie di Regina Casella, con i lunghi capelli a coprire l’occhio destro,[45] è anche lei vittima di un condizionamento esterno. Psicotropo nel suo caso:
Trasognava già la prossima oramai resurrezione del padre, non dalla sedia certo, ché un vegetale lo era diventato sul serio, ma dal discredito. L’affermazione della sua teoria sarebbe stata dirompente, e la sua parola avrebbe ripreso a propagarsi per il mondo. E, chi poteva mai dirlo, magari questo gli avrebbe regalato il fremito che l’avrebbe risvegliato. Papà. Quante volte ne aveva favoleggiato con Saro, ma sempre e soltanto dopo la prima pasticca, quando già tutti i colori del mondo le fiorivano sotto le palpebre.[46]
Ma Moira non è Poison Ivy e nemmeno Jessica Rabbit. È l’edera, la pianta di Bacco atavicamente legata alla libidine. Come l’edera si radica nella mente di Spirit e come una «muffa»[47] (non a caso verde) ne parassita l’esistenza, costringendolo al crollo finale:
No, non aveva avuto senso la commedia, quella mascherata, rinascere Spirit. Perché lo aveva fatto troppo tardi, quando la voglia s’era disgiunta dal volere. Era prima che avrebbe dovuto intervenire, come la gelata col germoglio. Per lui era finita, ma forse avrebbe ancora potuto fare qualcosa per il ragazzo. Povero Ebony.[48]
Una volta creato l’ibrido non conta più l’innegabile precedenza del romanzo di Frasca sul fumetto di Dalisi: l’occhio del lettore non può fare a meno di cadere sulle vignette, non può ignorare del tutto il fumetto che procede accanto al romanzo e, viceversa, non può apprezzare pienamente la vicenda senza leggere le pagine di Frasca. È chiamato, invece, ad osservare l’impossibile congruità delle due narrazioni, a saggiarne le divaricazioni, a integrare i dettagli che emergono asimmetricamente da una delle due parti.
Accade così che nella splashpage di Dalisi che accompagna il momento in cui Spirit è a cena con Ebony e gli impartisce gli ammaestramenti fondamentali per ogni detective, il protagonista sia rappresentato tre volte
Accanto alla sua rappresentazione nel tempo presente emergono le diffrazioni che alludono alle sue avventure di investigatore. Tuttavia c’è un contrasto tra le due narrazioni. Sulla pagina di Frasca proseguono gli insegnamenti di Spirit per Ebony, così astratti e magniloquenti da toccare l’oscurità semantica e sfidare la soglia d’attenzione dell’interlocutore:
L’abbraccio con cui si congiungevano prove e movente era fatto di nebbia; e il provente, questo formidabile caglio, non era altro che ombra, sì, l’ombra che chi indaga staglia sul caso. Non il corpo, non la mente. L’uno spossa, l’altra inganna. Nel succedersi di tanti abbagli, quanti sono quelli nei quali siamo immersi, occorre farsi della consistenza delle ombre. Non possiamo corrompere il mondo con la corruzione del nostro corpo. Né bruttarlo con la melma della nostra mente. Chiaro, no?[49]
Dalisi, invece, ritrae il protagonista come l’intraprendente eroe di un poliziesco. Compare così da una parte nei panni di Sherlock Holmes con tanto di apocrifo deerstalker a quadri e lente di ingrandimento, dall’altra armato di pistola, nella posa di un detective cinematografico, più affine a James Bond che allo Spirit tutto scazzottate di Will Eisner. Più che essere congruenti con la reale immagine di Spirit, tali rappresentazioni si adeguano alla proiezione, da «mitomane»,[50] che Spirit ha delle proprie vicissitudini. Anziché la realtà, nella tavola di Dalisi prende forma il travestimento che Spirit ha fatto calzare al mondo: «Ebony? Dowland? In realtà tali da quando Spirit era Spirit e prima Tizio, Caio, Pincopallino, o più propriamente Geoffrey l’uno e l’altro Salvatore, o Turi, Dolano, da Modica, commissario capo di Civitacentri, e padre di Elena, innamoratissima di Spirit».[51]
D’altra parte ciò che avviene in questa singola illustrazione è vero più estesamente per l’intero fumetto di Dalisi. Il fumetto, infatti, non è la rappresentazione della vicenda di Spirit, ma è in concreto la realtà filtrata dalla «linearità del suo ingegno»,[52] la realtà che Daniele Beretta ha trasformato nello «scorrere sensato delle vignette, pagina dopo pagina».[53] Le vignette di Dalisi simulano «quei riquadri mascherati di giustizia nei quali aveva ricondotto la sua esistenza, come per semplificarla in un nuovo mondo in cui tutti gli elementi non potessero che combaciare, un volume sull’altro, fino a farsi solo superficie».[54] Il fumetto che il lettore sfoglia è lo stesso in cui il protagonista de Il fermo volere crede di agire, lo stesso che Moira Mori è intenta a leggere in alcune tavole di Dalisi.[55] Si riverbera nel fumetto il gioco di superfici e piani di realtà ideato da Frasca; quello che consente a Spirit di mascherare con la sua versione posticcia un mondo che è già predisposto ad accoglierla. È l’assurda onomastica del ‘mondo reale’ in cui vive Spirit a rivelare le regole del gioco. I nomi sono già una traduzione e una parodia di quelli inventati da Will Eisner che lo Spirit di Frasca utilizza per mascherare il mondo: Daniele Beretta è un’arguta traduzione di Danny Colt; allo stesso modo il commissario Dolano, che nell’originale era Dolan; Civitacentri, la città dove vive lo Spirit di Frasca, traduce Central City. Quel «gioco del doppio o triplo immaginario, e del loro smottare l’uno sull’altro» della stesura del 1987, nella quale era mantenuta l’onomastica americana dell’originale di Eisner e che Frasca aveva bollato come non «perfettamente riuscito»,[56] nell’edizione del 2005 si accentua vistosamente, anche perché ribadito dal fumetto di Dalisi, che rinterza il paradosso insito nel mascheramento di Spirit, e dal cd Merrie Melodies, che si vuole sia stato «registrato e missato, nel maggio del 1992, da Giò “Speedy” Ratto presso il Blind Music Studio (Civitacentri)»,[57] cioè da un discografico che vive nella città inesistente di Spirit.
Procedendo al ritmo dell’immaginazione di Spirit, talvolta il fumetto di Dalisi giustappone nella stessa tavola passato e presente, realtà e pensiero. Il racconto visivo assume allora tratti onirici: eventi che hanno portata esclusivamente metaforica o che si riferiscono alla sola immaginazione dei personaggi sono rappresentati concretamente. La lettera s’incarna in luogo del referente alluso. Quando Spirit precipita nel Darro, cadendo nel tranello di Moira Mori e Saro Buono, Dalisi non esita a disegnarlo come se fosse incappato in una vera trappola: una falla nel pavimento dissimulata da una tappeto.[58] Un’immagine che è la variazione di un’altra vignetta nella quale Spirit è rappresentato letteralmente intrappolato nella metaforica «tela di ragno»[59] dei suoi antagonisti.[60] Qualcosa di simile accade per la signorina Sgàrberi, «infermiera professionale […] regolarmente stipendiata per le cure mediche di cui abbisognava» il dottor Mori, padre di Moira: nelle vignette che la ospitano il dettaglio grottesco della sua capigliatura è eluso: «chissà poi, sotto quella cuffietta, da quanto tempo non si faceva uno shampoo». Dalisi preferisce rappresentarla, invece, materializzando l’insulto rivoltole da Spirit («quella scopa»),[61] con i capelli, quindi, in un’improbabile acconciatura che ignora le leggi di gravità.[62] Lo stesso Spirit non sfugge alla metamorfosi imposta dall’interpretazione letterale, e per questo parodica, operata da Dalisi. È possibile ritrovarlo, perciò, miniaturizzato in piedi nel palmo della mano di Moira,[63] come a voler dire che la ragazza lo aveva in pugno, oppure nelle sembianze di un polpo consegnato dalla stessa al padre psicanalista.[64]
Agli occhi dei suoi antagonisti, infatti, Spirit non è un uomo ma una sorta di ultra-polpo, ovvero il «caso esemplare» di una teoria psicanalitica che Saro Buono cerca di dimostrare. Sulle orme del suo maestro Vitaliano Mori, psicanalista eterodosso colpito provvidenzialmente da un ictus prima che venisse radiato dalla comunità scientifica, Saro Buono intende provare come gli uomini, che al contrario dei polpi non si lasciano morire dopo l’accoppiamento ma seguitano a vivere un’esistenza imperturbata, possano anch’essi imparare a «cospirare la morte»:[65]
Lo sapeva che i polpi che [sic] si facevano morire smettendo di nutrirsi dopo aver procreato? […] Non c’è un mio paziente, gli aveva detto un giorno, né mai nessuno, che non sia in realtà un polpo sopravvissuto al sesso e alla riproduzione. È questa la resurrezione che scontiamo, e la scontiamo mettendoci docilmente in attesa, come Laio, di quello che abbiamo scansato, una volta per tutte. Sopravviviamo alla morte, e ci mettiamo buoni buoni ad attenderne un’altra, quella che ci giungerà dal figlio che avrebbe dovuto morire.[66]
A questa teoria alludono i tentacoli che calano dall’alto della già vista splashpage in cui Spirit istruisce Ebony. Distaccandosi dalla lettera del romanzo di Frasca, Dalisi fa comparire in largo anticipo rispetto alla narrazione parallela un indizio che si scoprirà essere tutt’altro che secondario e che il lettore del romanzo comprenderà pienamente solo più tardi. In ciò si dimostra provetto autore di gialli, capace di dosare con astuzia gli indizi, di saper stuzzicare le capacità investigative del lettore e, soprattutto, di aver fatto tesoro degli insegnamenti di Spirit sui dettagli che guidano le indagini:
La ragione di per sé sola, infatti, non poteva bastare perché nel loro lavoro, andava soffermandosi Spirit, non era difficile imbattersi in elementi determinati dal caso e irrazionali pertanto, del tutto o solo in parte, eventi, insomma, e come tali inclassificabili, insignificanti, e dunque unici, badasse bene, possibili portatori di senso.[67]
Oltre alle vicende di Spirit, il ‘fumanzo’ di Frasca e Dalisi racconta la storia di due diverse memorie artistiche che si confrontano durante il corso della narrazione. Il fumetto, più volte rappresentato attraverso un gioco meta-letterario in mano a Moira Mori intenta a leggerlo, pretende di essere, almeno nelle forme, una prosecuzione credibile dell’originale The Spirit, ovvero una versione apocrifa del personaggio di Eisner: Il fermo volere non sarebbe altro che il titolo di «una nuova avventura dell’ingegnoso Spirit», come recita il sottotitolo. Un numero speciale in cui le parodistiche vicende del detective di Eisner giungono al parossismo e trasformano l’«eroe solare, raffigurato in una somma leggerezza» e «protagonista di storie scanzonate»,[68] nella consapevole, e perciò terribilmente amara, parodia di se stesso.
Il sostrato letterario del romanzo di Frasca è invece diverso. A essere continuata, o meglio ripresa, è la vicenda di Alonso Quijano alias Don Chisciotte. Daniele Beretta è il suo discendente novecentesco, la cui lettura «intensiva»[69] non è più dedicata al genere seriale che occupava la biblioteca dell’hidalgo, il romanzo di cavalleria, ma ai suoi corrispettivi novecenteschi e contemporanei, il fumetto e il poliziesco:
Prototipo a suo modo perfetto dell’allora soltanto a venire lettore, egli comprava difatti più di quanto leggesse, e le appetitose novità superavano di gran lunga il suo interesse per le conclusioni sia il tempo che era solito dedicare alla lettura. Erano romanzi gialli per lo più, e tantissimi fumetti, ma non mancavano autentici capolavori della più sobria letteratura adolescenziale. Vi erano volumi, però, che non soltanto Spirit riusciva a ultimare quanto addirittura a rileggere, e persino più di una volta; essi rappresentavano, a sua detta, l’imprescindibile fase teorica del suo complicato, estenuante, cervellotico lavoro.[70]
Le differenze tra le due parti dell’opera non hanno sempre una grana così grossa. Talvolta è nel dettaglio minuto dei richiami letterari che Dalisi mostra di deviare dal testo di Frasca per arricchirlo con innesti dalla propria memoria artistica. Nel fumetto che accompagna il discorso di Spirit sull’importanza dell’ordine per un detective, Dalisi divide la pagina in vignette molto piccole, ognuna delle quali inquadra uno degli oggetti catalogati da Spirit.[71] Non è una scelta neutra. Dalisi sta citando Sin city di Frank Miller (1981), sta ricordando il momento in cui Marv ricapitola gli oggetti di cui ha bisogno per l’omicidio che si appresta a commettere.[72] E se in Miller la giustapposizione delle vignette serve a trasmettere la meticolosità del personaggio nella ricognizione dei suoi oggetti, in Dalisi ha anche un’altra funzione. Serve a collegare due personaggi che condividono, sebbene con un grado diverso di consapevolezza, il destino dell’omicidio e le modalità con le quali lo commetteranno: come Marv farà lentamente a pezzi il cannibale Kevin, così Spirit si ritroverà, autore inconsapevole del delitto, accanto al cadavere del suo aiutante mutilato:
Era Ebony. Supino, schiacciato dai panni zuppi, la testa come mollemente arrovesciata, l’espressione contratta negli occhi sgranati, quasi scrutassero il bastione dell’Alcazaba, il labbro superiore a mostrare i denti. A sinistra, dove un tempo il braccio distendeva nell’avambraccio, un moncherino gocciolante. E poi, nello stesso lato, sulla coscia, un po’ sopra il ginocchio, un taglio profondo, ma la rotula aveva resistito, e reggeva ancora un po’ appesa la gamba.[73]
A volte basta una vaga allusione per innescare la memoria visiva di Dalisi: «I confratelli, uhm, gli amici, quegli uomini che sapevano cosa significasse vigilare sui destini della razza, non l’avevano mai abbandonato, a partire da sua eccellenza, quell’uomo straordinario».[74] Quando Dalisi è chiamato a ritrarre una loggia di massoni, accanto alla rappresentazione tradizionale dei suoi membri, con mantelli e cappucci a punta, decide di aggiungere qualche dettaglio inconsueto: così prende parte alle cerimonie una schiera di partecipanti coinvolti in pratiche sessuali sadomasochistiche, affiancata dalla tradizionale maschera veneziana del medico della peste.[75]
Non è un caso. Per dare corpo alle parole di Frasca, Dalisi sta evocando l’inquietante confraternita del film Eyes wide shut di Stanley Kubrick. Pochi tratti di penna sono sufficienti per riportare alla memoria le orge, il cupo rituale accompagnato dalla litania pasquale intonata al contrario e scandito dai colpi del bastone con cui l’officiante batte sul pavimento, i volti dei partecipanti coperti dalle maschere veneziane, i corpi indefiniti sotto i tabarri, le voci contraffatte. A differenza di Frasca, che per trasmettere al lettore la sinistra presenza della loggia allunga la sua ombra attraverso brevi accenni e riferimenti vaghi, Dalisi cerca di raggiungere un analogo risultato accentuando la concretezza dell’immagine. Come a voler dire che l’inquietante atmosfera di Eyes wide shut vale almeno quanto la più fine reticenza.
Qualcosa di simile avviene anche quando Saro Buono fa riferimento all’avvento di un non meglio precisato «regno dell’ordine»:
Pubblicare quel testo, farlo circolare dappertutto, e dare inizio al regno dell’ordine, finalmente, sarebbe stato tutt’uno; in tanti ne erano consapevoli […] Quell’opera non apparteneva al dottore, e neanche a lui che l’avrebbe portata a compimento; quell’opera era di tutti. Su quel testo sarebbero state forgiate le nuove generazioni.[76]
Le parole di Saro Buono evocano il ricordo di altri poteri, di altri regni dell’ordine, di altre promesse di pace. Dalisi ne circoscrive il numero. Ne sceglie due e li rappresenta mettendo a confronto i loro monumenti, simboli di libertà. Per sostituire con un’immagine nitida l’alone che le parole di Saro Buono emanano, la memoria di Dalisi divaga verso un’altra storia, esterna a Il fermo volere, ma non estranea. Dalla sua tavola emergono un busto di Mussolini, su cui è incisa la parola «Libertatum», e una statua della libertà che impugna un microfono e ha gli stessi occhi scrutatori di Moira Mori.[77]
Asse e Alleati si fronteggiano. È lo scontro tra potenze che Frasca ha trattato nel suo saggio La scimmia di dio. Una guerra il cui esito è indifferente, perché non può che produrre una cultura «dove non esistono ideologie alternative», ovvero la «falsa pacificazione dell’omologazione».[78] Quindi più che la storia di uno scontro, l’immagine di Dalisi narra quella di un avvicendamento che promette di essere sempre ulteriore. Il microfono impugnato dalla statua della libertà non è altro che il testimone che l’Asse ha passato agli Alleati alla fine della Seconda guerra mondiale, lo scettro «dell’autoritarismo tecnologico di tipo nazista»[79] che chiunque deterrà il potere dovrà sempre sfoggiare. Lo sguardo di sfida che il monumento americano lancia alla mandibola prominente italiota non promette la libertà, ma un’epoca di più sottile sottomissione.[80]
1 G. Frasca, Vent’anni di fermo volere, Napoli, D’if, 2002, pp. 27-28.
2 G. Frasca, La lettera che muore. La “letteratura” nel reticolo mediale, Roma, Meltemi, 2005, p. 90. La nota bibliografica di Frasca si riferisce a M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare [1964], trad. it. di E. Capriolo, Milano, Il Saggiatore, 1995. La citazione priva di rimando bibliografico si riferisce a G. Deleuze, Critica e clinica [1993], Milano, Cortina, 1993, p. 16.
3 G. Frasca, La lettera che muore, cit., p. 89.
4 Ivi, p. 90.
5 Ivi, p. 245.
6 Ivi, p. 90.
7 G. Frasca, L. Dalisi, Il fermo volere, Napoli, D’if, 2004, p. 49.
8 Ibidem.
9 G. Frasca, La lettera che muore, cit., p. 82. Le due note bibliografiche di Frasca si riferiscono rispettivamente a M. McLuhan, E. McLuhan, Laws of Media. The New Science, Toronto, University of Toronto Press, 1988, e G. Deleuze, F. Guattari, Qu’est-ce-que c’est la philosophie, Paris, Minuit, 1991.
10 Giovanni Maffei nel suo saggio Io ho letto Dai cancelli d’acciaio scrive: «molte cose che Frasca dice dei romanzi di Dick le potremmo dire dei romanzi di Frasca». Si può aggiungere che tali considerazioni possono essere estese a tutte le sue opere. Cfr. G. Maffei, Io ho letto Dai cancelli d’acciaio, in P. Giovannetti (a cura di), Il compagno d’acciaio, Roma, Sossella, 2011, p. 38. L’e-book è scaricabile presso il sito della casa editrice www.lucasossellaeditore.it
11 G. Frasca, La lettera che muore, cit., pp. 314-315.
12 G. Frasca, Santa Mira. Fatti e curiosità dal fronte interno, Firenze, Le Lettere, 2006, p. 195. La prima edizione è stata pubblicata presso Cronopio, Napoli 2001.
13 Federico Francucci ha notato questo aspetto nelle sue considerazioni sulla poesia di Frasca. Cfr. F. Francucci, Nient’altro che cantare. Su Prime e la poesia di Gabriele Frasca, in Id., La carne degli spettri, Pavia, Edizioni O.M.P., 2009, pp. 66-67: «Gli elementi biografici, psicologici, culturali, non sono l’oggetto o l’argomento, ma soltanto il ‘materiale da costruzione’ che la poesia utilizza, la sua stoffa […]. La poesia inquadra e lavora porzioni di questo flusso naturale e artificiale per dar loro consistenza e renderle riconoscibili».
14 G. Frasca, La lettera che muore, cit., p. 315.
15 G. Frasca, Santa Mira, cit., p. 195.
16 G. Frasca, L. Dalisi, Il fermo volere, cit., p. 91.
17 G. Maffei, Io ho letto Dai cancelli d’acciaio, cit., p. 58.
18 La collana in cui l’opera è uscita per l’editore D’If si chiama proprio Gli anfibi.
19 G. Frasca, Vent’anni di fermo volere, cit., pp. 23-24.
20 G. Frasca, La lettera che muore, cit., p. 112.
21 La scriptio continua era una pratica scrittoria tipica delle epoche pre-tipografiche, consistente in una scrittura priva di spazi e di altri segni interpuntivi, e «legata a una concezione della lettura che privilegiava la declamazione dei testi letterari ad alta voce» (H.J. Martin, Storia e potere della scrittura [1988], Roma-Bari, Laterza, 1990, p. 73). Per una trattazione più ampia della questione cfr. ivi, pp. 40, 47-78.
22 G. Frasca, La lettera che muore, cit., pp. 41-42.
23 Ivi, p. 169. Il passo riguarda «L’ossessione stilistica flaubertiana» (ivi, p. 165). L’indicazione bibliografica di Frasca di riferisce a H. Weinrich, Il polso del tempo [1992], a cura di F. Bertoni, Milano, La Nuova Italia, 1999, pp. 137-155.
24 G. Frasca, La lettera che muore, cit., p. 169.
25 Ibidem.
26 Ivi, p. 170.
27 Ibidem.
28 Analizzando il Don Chisciotte nel capitolo de La lettera che muore intitolato La macchina degli spropositi, Frasca ha dimostrato di concepire l’ibrido mediale anche come opera in cui si fondono due modi diversi di fruizione del testo. In quel caso particolare, sulla scorta di un’interpretazione di Weinrich, erano messe a confronto le abitudini percettive del lettore intensivo e quelle del cronologicamente successivo lettore estensivo. Cfr. G. Frasca, La lettera che muore, cit., pp. 107-131 e H. Weinrich, I lettori del Don Chisciotte, in Id., Il polso del tempo, cit., pp. 89-105.
29 G. Frasca, L. Dalisi, Il fermo volere, cit., p. 129.
30 G. Frasca, Dai cancelli d’acciaio, Roma, Sossella, 2011, p. 118.
31 Ivi, p. 530. Per la questione del suono nel cinema si rimanda anche a G. Rondolino, D. Tomasi, Manuale del film: linguaggio, racconto, analisi, Torino, UTET, 2011, pp. 289-330. Per una bibliografia sull’argomento cfr. ivi, pp. 400-403.
32 G. Frasca, L. Dalisi, Il fermo volere, cit., p. 201.
33 Steven Brown è insieme a Blaine L. Reininger il fondatore e il leader del gruppo sperimentale e multimediale di matrice post-punk Tuxedomoon, che esordisce nel 1977. Sul gruppo e le sue specificità musicali si rimanda a S. Reynolds, Post-punk 1978-1984 [2005], Milano, Isbn Edizioni, 2005, pp. 318-321.
34 G. Frasca, L. Dalisi, Il fermo volere, cit., p. 44.
35 Ivi, p. 45.
36 Ivi, p. 259.
37 Ivi, p. 260.
38 Ivi, p. 45.
39 Ivi, p. 31.
40 Ivi, p. 83.
41 G. Frasca, Vent’anni di fermo volere, cit., p. 9.
42 Frasca fa riferimento al personaggio in Dai cancelli d’acciaio, dove il nome ritorna come nickname utilizzato in una chat. Cfr. G. Frasca, Dai cancelli d’acciaio, cit., p. 267.
43 G. Frasca, L. Dalisi, Il fermo volere, cit., p. 145.
44 Ivi, p. 179.
45 Ivi, p. 194.
46 Ivi, p. 217.
47 Ivi, p. 91.
48 Ivi, p. 189.
49 Ivi, p. 53.
50 Ivi, p. 273.
51 Ivi, p. 59.
52 Ivi, p. 89.
53 Ivi, p. 227.
54 Ivi, p. 251.
55 Ivi, p. 36.
56 G. Frasca, Vent’anni di fermo volere, cit., p. 14.
57 G. Frasca, L. Dalisi, Il fermo volere, cit., terza di copertina.
58 Ivi, p. 286.
59 Ivi, p. 187.
60 Ivi, p. 188.
61 Ivi, p. 151.
62 Ivi, p. 150.
63 Ivi, p. 120.
64 Ivi, p. 160.
65 Ivi, p. 203.
66 Ibidem.
67 Ivi, p. 49.
68 G. Frezza, La macchina del mito tra film e fumetto, Scandicci, La Nuova Italia, 1995, p. 159.
69 Per la contrapposizione tra lettura intensiva ed estensiva cfr. supra nota 28.
70 G. Frasca, L. Dalisi, Il fermo volere, cit., p. 27.
71 Ivi, p. 62.
72 F. Miller, Sin city, «Dark Horse Presents», 1991, 51-62 (trad. it. in volume: Sin city, Roma, Magic Press, 2004, p. 164).
73 G. Frasca, L. Dalisi, Il fermo volere, cit., pp. 237-239.
74 Ivi, p. 207.
75 Ivi, p. 202.
76 Ivi, p. 201.
77 Ivi, p. 204.
78 G. Frasca, La scimmia di Dio. L’emozione della guerra mediale, Genova, Costa & Nolan, 1996, p. 66.
79 Ivi, p. 64.
80 Tutte le immagini sono tratte dal volume di Gabriele Frasca, Luca Dalisi, Il fermo volere, 2004.