Marco Ferreri nella corte pasoliniana

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  • «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini →
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Pasolini e Ferreri sono accumunati da una vena nichilista, da una rivolta incessante contro le istituzioni statali, religiose, morali, politiche e culturali, che si manifesta attraverso la messa in scena di situazioni e atti estremi. In Porcile (1969) Ferreri entra in una sorta di passerella simbolica tra i corridoi e le stanze della villa settecentesca di Stra, immergendosi in uno stilizzato balletto di presenze emblematiche che partecipano a una specie di carnevale ideologico e filosofico. Il contributo propone un’analisi dello stile recitativo di Ferreri nel ruolo del tedesco Hans Günther all’interno del secondo episodio del film, e insieme elabora un’attenta riflessione sull’utilizzo di Pasolini dei suoi personaggi cinematografici, intesi come ‘strumenti’ vividi e singolari di un pensiero che si mette in gioco in termini di parabola estrema.

Pasolini and Ferreri share a nihilistic vein, an incessant revolt against state, religious, moral, political and cultural institutions, which manifests itself through the representation of extreme situations and acts. In Porcile (1969) Ferreri enters in a kind of symbolic parade through the corridors and rooms of the 18th-century villa in Stra, immersing himself in a stylised ballet of emblematic presences participating in a kind of ideological and philosophical carnival. The contribution proposes an analysis of Ferreri’s acting style in the role of the German Hans Günther within the film’s second episode, and at the same time elaborates a careful reflection on Pasolini’s use of his cinematic characters, understood as vivid and singular ‘instruments’ of a thought that expresses itself in terms of extreme parable.

Fin dall’inizio della sua esperienza di regista Pasolini non si è limitato a intrecciare costantemente i corpi popolari della borgata con quelli degli attori professionisti. Una delle particolarità più significative nella sua scelta degli interpreti riguarda il ricorso continuo ai volti o alle voci degli amici e conoscenti scrittori, poeti, giornalisti, critici letterari, registi, artisti, intellettuali di varia provenienza. Si tratta quasi sempre di ruoli da non protagonisti, che immettono dentro il film un’aura particolare, facendo vibrare sia le corde della poetica pasoliniana sia quelle legate al sentire e all’immaginario di un determinato momento storico. Si comincia con l’apparizione di Elsa Morante dentro un carcere, mentre legge un fotoromanzo in Accattone (1961), e di Paolo Volponi vestito da prete in Mamma Roma (1962). Si finisce con le voci di Giorgio Caproni, Marco Bellocchio e Aurelio Roncaglia che, in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975-1976), doppiano rispettivamente gli attori Giorgio Cataldi e Aldo Valletti e il giornalista-scrittore Umberto Paolo Quintavalle. In mezzo si pone una vera e propria sfilata di personaggi e di voci della cultura, dell’arte e dello spettacolo: Giorgio Bassani, Alfonso Gatto, Enzo Siciliano, Francesco Leonetti, Natalia Ginzburg, Giorgio Agamben, Gabriele Baldini, Domenico Modugno, Carmelo Bene, Julian Beck, Cesare Garboli, Giuseppe Zigaina e tanti altri, fra cui Orson Welles che interpreta in maniera emblematica il ruolo del regista in La ricotta (1963).

Non esistono documenti o testimonianze – almeno a mia conoscenza – capaci di ricostruire il rapporto tra Pasolini e Ferreri e le ragioni della chiamata di quest’ultimo a interpretare il tedesco Hans Günther nel secondo episodio di Porcile (1969). Si possono formulare delle ipotesi, che hanno soltanto il valore delle suggestioni non suffragate da risvolti oggettivi. Pasolini e Ferreri si sono certamente incontrati o rincontrati al festival veneziano del 1968, prendendo parte alla contestazione, insieme a Zavattini, Maselli ed altri, e dovendo poi rispondere di reato alla Pretura di Venezia. Ferreri nel luglio-agosto del 1968 ha già girato Dillinger è morto e si appresta a cominciare la lavorazione dell’apocalittico Il seme dell’uomo (1969), mentre Pasolini porta alla contestata mostra di Venezia il suo Teorema (1968), per poi mettersi a girare tra la fine del 1968 e l’inizio del 1969 sia Porcile sia Appunti per un’Orestiade africana (1970). L’autunno del 1968 è anche dedicato alla sua prima e unica regia teatrale di Orgia (che debutta il 27 novembre 1968 allo Stabile di Torino). Le riprese di Porcile avvengono rapidamente in due periodi distinti: nel novembre del 1968 per il primo episodio, ambientato prevalentemente sull’Etna in un tempo indefinito, antico, metastorico; nel febbraio del 1969 per il secondo, che si svolge nella Germania contemporanea e viene girato nella villa Pisani di Stra, in Veneto. All’epoca Ferreri sta raggiungendo con Dillinger è morto – che esce nel gennaio 1969 e viene presentato a Cannes nel maggio dello stesso anno – il suo momento di massimo apprezzamento come autore della contestazione radicale all’ordine della società contemporanea, sempre più tecnologica e massificata. Pasolini, chiamato dalla rivista Cinema & Film a votare i migliori film del 1968, lo cita insieme alle opere di Straub, Ponzi, Bertolucci, Tati, Welles e Godard. Dal canto suo, negli anni precedenti, Ferreri ha eletto tra i migliori film del 1966 e del 1967 rispettivamente Uccellacci e uccellini ed Edipo re.

Dopo il periodo spagnolo, alla fine degli anni Cinquanta, Ferreri ha cominciato la sua carriera di regista in Italia quasi contemporaneamente a Pasolini, venendo, come lui, perseguitato dalla censura statale e da quella dei produttori per le sue storie ‘abnormi’ e grottesche a cui la critica dell’epoca fatica ancora a dare un sigillo autoriale. Al di là dello stile, Ferreri e Pasolini sono accumunati da una vena nichilista, da una rivolta incessante contro le istituzioni statali, religiose, morali, politiche e culturali, che si manifesta attraverso la messa in scena di situazioni e atti estremi. Nel 1974 Pasolini dedicherà un’intensa analisi a La grande abbuffata – che la critica mette spesso in relazione al suo Salò –, sottolineandone la «calma aprioristica alla “De Sade”» nella rappresentazione dei gesti dei personaggi e il registro simbolico e metafisico capace di suscitare «una contestazione assoluta, che mette in scacco “globalmente” la logica del reale» (Pasolini 1974).

Il contrasto continuo tra una natura irraggiungibile e una storia distruttiva alimenta sempre più, con il passare del tempo, le loro opere centrate sull’ontologia della fisicità contro i processi dell’ordine economico-sociale e del pensiero razionale. Entrambi, inoltre, rifuggono da una poetica naturalistica, aprendosi costantemente a una dimensione simbolica che, nel caso di Ferreri, si radica nell’estetica del grottesco e, in quello di Pasolini, va sempre più connotandosi come un procedimento che l’autore stesso cerca di definire in termini di elitarismo, impopolarità, gesto intellettuale, artistico e, insieme, filosofico, impregnato di umorismo e di distacco, programmaticamente «inconsumabile». In Porcile la dimensione grottesca rappresenta una componente apertamente plasmata dalla piega intellettuale del discorso. L’impressione è che la presenza di Ferreri e del suo attore preferito Ugo Tognazzi, chiamato a interpretare il personaggio di Herdhitze e la logica del neocapitalismo trionfante, risponda perfettamente ed esalti questa misura discorsiva, sempre più orientata verso le forme dell’allegoria del corpo costretto nei meccanismi annientatori della società dei consumi.

La coppia Ferreri-Tognazzi finisce per apparire anche come un segnale di condivisione da parte di Pasolini del cinema che i due hanno portato avanti fino a questo momento, centrato sulle limitazioni, le aspirazioni e le perversioni grottesche della sessualità. Tutte le pièces teatrali che Pasolini scrive in questi anni hanno infatti al centro emblematiche aberrazioni e deviazioni sessuali.

Nella chiave simbolica di Porcile ogni personaggio è una sorta di corpo-vettore, chiamato più che a interpretare se stesso, come avveniva con i non-attori delle borgate, a portare in scena un’idea, un gesto, un comportamento e, soprattutto nell’episodio moderno, un discorso. C’è un continuo «distacco del personaggio da se stesso» (Brunetta 1969). Similmente a quanto succede nella pièce teatrale omonima che funge da copione (Pasolini 1979 e Pasolini 2001), il personaggio si presenta come un «veicolo vivente del testo», secondo quanto Pasolini afferma nel suo Manifesto per un nuovo teatro, dove invoca un attore che sia un «uomo di cultura» e che «dovrà rendersi trasparente sul pensiero: e sarà tanto più bravo quanto più, sentendolo dire il testo, lo spettatore capirà che egli ha capito» (Pasolini 1968). L’origine teatrale del secondo episodio di Porcile si manifesta, oltre che in questa supremazia data alla parola, nel modo in cui Pasolini costruisce le sue inquadrature, basate su una frontalità prospettica e una simmetria nelle posizioni e nei movimenti dei personaggi che rimanda continuamente all’impostazione di una tavola pittorica o a una coreografia da palcoscenico, in opposizione al primo episodio del film, pressoché muto e tutto consumato in esterni, con una macchina da presa, un paesaggio e dei corpi che hanno una mobilità e una visibilità più intensamente e fenomenologicamente cinematografiche. Si ha una costante opposizione tra le forme congelate e cristalline della storia moderna e quelle cangianti e mosse dell’episodio barbarico, immerso in un paesaggio selvaggio e infernale. L’alternanza delle immagini e delle scene tra il primo e il secondo episodio confonde comunque, come è stato sottolineato, la purezza cinematografica del primo e l’impostazione teatrale del secondo, producendo un incontro e uno scontro tra due scenari capaci di introdurre sempre nuove significazioni e facendo slittare i diversi personaggi e i differenti tempi e spazi gli uni dentro gli altri, come in un sogno e in una proiezione psicoanalitica dove si intrecciano conscio e inconscio, razionalismo e irrazionalità, storia e natura (Viano 1993).

Ferreri sembra entrare in una sorta di passerella simbolica tra i corridoi e le stanze della villa settecentesca di Stra, immergendosi in uno stilizzato balletto di presenze emblematiche, che partecipano a una specie di carnevale ideologico e filosofico, in cui i figli «disubbidienti» e quelli «né disubbidienti né obbedienti» sono significativamente affidati alle icone dei giovani francesi protagonisti della nouvelle vague quali Jean-Pierre Léaud e Anne Wiazemsky, o direttamente immersi, come Pierre Clémenti, in storie di ribellione e contestazione.

Ferreri appartiene naturalmente al mondo dei padri, insieme ad Alberto Lionello che interpreta la parte del vecchio capitalista Klotz e a Tognazzi che rappresenta, invece, il neocapitalismo [figg. 1-2]. A dimostrazione dell’unione fortissima tra comico e racconto allegorico, già instaurata da Pasolini negli anni precedenti con il ricorso a Totò, il ruolo di Klotz avrebbe dovuto essere impersonato da Jacques Tati (Pasolini 1988).

La chiave comica sembra essere all’origine anche della scelta di Ferreri e Tognazzi che, dentro o fuori il loro sodalizio, ne mostrano costantemente il risvolto tragico. Sia nei suoi film sia nelle sue apparizioni pubbliche, Ferreri è un provocatore, sempre pronto a prendere la strada della risata dissacrante e dell’eccesso. In Porcile diventa una sorta di burattinaio del proprio indocile corpo, ridotto a un supporto disciplinato della voce. Subito dopo la sua entrata in scena, dove lo cogliamo in figura intera dentro un totale della stanza della villa [fig. 3], comincia a raccontare, immobile su una sedia, la storia del criminale nazista Hirt-Herdhitze, che Pasolini mutua direttamente dal libro Medicina disumana. Documenti del «Processo dei medici» di Norimberga pubblicato da Feltrinelli nel settembre 1967. La macchina da presa lo inquadra prevalentemente in mezza figura, mezzo primo piano [fig. 4] e primo piano [fig. 5], ora ponendoglisi davanti, con angolazioni sia dal basso sia dall’alto, ora riprendendolo di profilo [fig. 6], in continui controcampi – talvolta incuranti della grammatica corrente – con il suo interlocutore, che è il vecchio capitalista Klotz, di cui è il collaboratore-informatore. Alla fissità dei personaggi che recitano seduti [fig. 7] si oppone il movimento instabile della macchina a mano, che caratterizza la maggior parte dell’episodio ed è capace di portare all’interno della composizione teatrale della scena una chiara sottolineatura cinematografica. Mentre il montaggio tende a farsi sempre più rapido, la seconda parte del colloquio, dopo l’interruzione prodotta da un ritorno all’episodio metastorico, è scandita ritmicamente da piccoli movimenti di avvicinamento a Ferreri che parla, alternati agli arpeggi, visti in dettaglio, delle mani di Klotz. Con le braccia sempre ferme e gli occhi che tradiscono continuamente un sorriso di compiacimento, di coscienza della dimensione rappresentativa, Ferreri sembra incarnare la parodia di un narratore di poemi epici, con un simbolico accompagnamento musicale. Il processo di rappresentazione è sempre più esibito: tutto appare perfettamente concertato, filtrato, decantato, pulito. Pasolini parla significativamente di «un modo forse un po’ freddo, un po’ angosciato, di rappresentare dei personaggi infilzandoli poi come farfalle sotto vetro» (Baby 1969). In una conferenza stampa dichiara di aver messo Lionello in carrozzella proprio per contenere la sua «irruenza teatrale» (Santuari 1969). Ma, al di là dello stile di rappresentazione, egli rievoca anche le «avventure umane della lavorazione» soffermandosi con parole fortemente pregnanti e affettive sugli attori anziché sui personaggi e sull’esperienza del set come folgorante immersione nella realtà. Ferreri, che Alberto Moravia nella recensione di Porcile definisce un’«autentica rivelazione» (Moravia 1969), viene associato da Pasolini all’«adorabile Anne Wiazemsky», come «una preziosa bestia di razza» (Pasolini 1969).

Nella sua performance si percepisce una sorta di divertito straniamento brechtiano, un distanziamento che talvolta è siglato da smorfie, anche se contenute, del viso. Solo una volta Pasolini mette in luce più da vicino la sua corporalità grottesca, ossia quando, silenzioso e in disparte, si tocca e si guarda la lingua in uno specchietto [fig. 8], ponendosi a tu per tu con la propria carne, come il distratto spettatore di una scena che si sta svolgendo davanti ai suoi occhi. Viene in primo piano in questo momento, non senza ironia, una fisicità che appare soltanto stilizzata nel corso di un episodio tutto centrato sull’allucinazione allegorica e sull’artificiale cucitura di una voce estranea al corpo parlante. Come molti altri attori pasoliniani Ferreri è, infatti, un’icona sdoppiata, che parla con una voce e una lingua che non gli appartengono. Nel film rimane soltanto l’impronta fumante del suo alito portato in evidenza dal grande freddo che invade gli spazi della ripresa.

Il doppiaggio del suo recitativo, affidato al regista teatrale e cinematografico Mario Missiroli, comporta, come ha affermato varie volte Pasolini, un costante porsi al di là di ogni attendibilità naturalistica (Pasolini 1970). Ma l’infrazione del naturalismo conduce anche all’alterazione dell’integrità corporea del personaggio, che diventa quasi un puzzle di pezzi discordanti. Così il teatro di parola, trasposto nel cinema, dà luogo a una macchina del pensiero che parla in favore dei corpi trasfigurando al contempo la loro identità, o meglio facendo percepire i termini di uno ‘smembramento’ che finisce per riguardare sia il tema (il cannibalismo, la zoofilia) sia la materia del film. Le impronte sensibili della realtà tendono a essere contraffatte in favore della supremazia di un verbum che non appartiene, in verità, ai personaggi, ma soltanto all’autore. Alla rappresentatività dei corpi e delle icone, che rimandano a un preciso e inconfondibile contesto cinematografico dell’epoca, si sovrappone un recitativo perfettamente concertato come nell’esibizione di un’orchestra. I personaggi sono gli strumenti, per quanto vividi e singolari, di un pensiero che si mette in gioco in termini di parabola estrema. Al di fuori della «chiacchiera» naturalistica e dell’«urlo» che per Pasolini caratterizzano rispettivamente il tradizionale teatro borghese e le sperimentazioni dell’avanguardia (Pasolini 1968), la parola diventa esplicitamente l’emanazione e il sigillo dell’espressione poetica dell’autore e delle sue contrazioni riflessive e distruttive. E si tratta sostanzialmente di una parola monologante, spezzettata e reiterata in una piega dialogica volontariamente artefatta e atrocemente ironica, sempre sopra le righe, che rimbalza da un personaggio all’altro.

 

Bibliografia

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M. Viano, A Certain Realism. Making Use of Pasolini’s Film Theory and Practice, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 1993, pp. 214-235.