Paesaggi sonori nel Bildungsroman di Goliarda Sapienza*

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L’articolo approfondisce l’esperienza sonora della scrittrice Goliarda Sapienza (Catania, 1924-Gaeta 1996) attraverso la narrazione restituita dai suoi tre romanzi ‘di formazione’:Lettera aperta, Il filo di mezzogiorno eIo, Jean Gabin. Ricostruita nella relazione con gli spazi della casa, del quartiere e della città, e negli anni della giovinezza (1924-1941), questa esperienza si rivela un marcatore d’identità narrativa, perché attesta vicinanze e distanze, inclusioni ed esclusioni, disparità e uguaglianze, modi di stare e dare ‘senso’ al mondo della scrittrice. L’esperienza sonora diventa quindi uno strumento di conoscenza, una chiave di lettura delle pratiche sociali di Goliarda, intese sia come rapporto con la comunità sia come relazioni interpersonali intrecciate nei vari ambiti della sua vicenda giovanile.

The paper examines in depth the sound experiences of Goliarda Sapienza (Catania, 1924-Gaeta 1996) through three of her coming-of-age stories: Lettera aperta, Il filo di mezzogiornoand Io, Jean Gabin. Reconstructed in the relationship with the spaces of her house, district and town, and during the years of her youth (1924-1941), these experiences appear to be a marker of identity narrative, because they depict affinities and dissimilarities, inclusions and exclusions, disparities and equalities, behaviours and other ways of giving ‘meaning’ to the writer’s microcosm. So far, the sound experiences become an instrument of knowledge, a key through which interpret Goliarda's social practices, considered both as a relationship with her community and as interpersonal relationships intertwined in the various areas of her life.

 

«Noi nati cittadini col vizio velenoso sì, ma magnifico della rapidità, delle insegne luminose, dei teatri e dei cinema sempre aperti, dell’urlare dei rivenditori, delle radio a tutto volume, delle sirene del porto e chi più ne ha più ne metta, non ci possiamo accontentare a lungo della pace dei campi (se pace è) e della lentezza dei cervelli. In città!».

Goliarda Sapienza, Io, Jean Gabin.

 

 

Ormai da tempo il tema del ‘paesaggio sonoro’ è al centro di una sfaccettata attività di ricerca con importanti sviluppi, anche in Italia, nei vari ambiti dei saperi umanistici. A distanza di più di venticinque anni dal pioneristico studio di Raymond Murray Schafer[1] che ha messo al centro l’esperienza acustica come elemento distintivo per la comprensione del ‘paesaggio sonoro’ l’indagine punta a interpretare le modalità secondo cui siffatta esperienza segna il tempo della vita umana e si modula in modo differente nei vari contesti storico-sociali e culturali delle città.[2]

In tale prospettiva, quest’articolo vuole approfondire l’esperienza sonora della scrittrice Goliarda Sapienza (Catania 1924-Gaeta 1996) attraverso la narrazione restituita dai suoi tre romanzi cosiddetti ‘di formazione’: Lettera aperta, Il filo di mezzogiorno e Io, Jean Gabin.[3] Ricostruita nella relazione con gli spazi della casa, del quartiere e della città, e negli anni della giovinezza (1924-1941), questa esperienza si rivela un marcatore d’identità narrativa, giacché attesta vicinanze e distanze, inclusioni ed esclusioni, disparità e uguaglianze, modi di stare e dare ‘senso’ al mondo della scrittrice. L’esperienza sonora diventa quindi uno strumento di conoscenza, una chiave di lettura delle pratiche sociali di Goliarda, intese sia come rapporto con la comunità sia come relazioni interpersonali intrecciate nei vari ambiti della sua vicenda giovanile.

 

1. La Civita

 

La Civita, grande quartiere! Che dico, grande città nella città dove tutto ti poteva accadere e dove tutti trovavano il modo d’imbrogliare, rubare, creare, competere, e anche guadagnarsi il pane onestamente se onesti si nasceva…. Grande Civita dalle straduzze tagliate nella lava, colma di personaggi vivi, acuti e saettanti fra teste di meduse, draghi alati, leoni, elefanti anch’essi scolpiti nella lava ma vivi della vita muta e perenne della scultura (JG, pp. 48 e sg).

Poche ma significative parole servono a Goliarda Sapienza per scolpire la topografia urbana entro cui si compie la sua fanciullezza a Catania negli anni compresi i tra il 1924 e il 1941, ossia tra l’anno di nascita e quello del definitivo trasferimento a Roma per completare la formazione attoriale all’Accademia di Arte Drammatica diretta da Silvio D’Amico. Nessun artificio retorico impiega per delimitare i confini in cui rivivere i ricordi dei suoi primi diciassette anni di vita: la Civita (da civitas) traccia i contorni della parte sudoccidentale del territorio catanese, la zona più antica, quella che per bellezza e imponenza era risorta come una fenice dall’horribile tremuoto del 1693. Di essa è parte lo storico quartiere di San Berillo, che nel tempo della sua fondazione trasse il nome dalla presenza al suo interno di una chiesa sacramentale intitolata a Berillo (I secolo d.c.), primo vescovo di Catania secondo una tradizione non del tutto accertata.[4]

Il quartiere si sviluppa in maniera spontanea sin dalla seconda metà del ’700 grazie all’insediamento di ceti meno abbienti che scelgono di abitare questa zona perché limitrofa all’area nobiliare della città. A metà ’800 esso si lascia descrivere come «una stradina di transito principale attorno a cui si innestano a lisca di pesce stradine secondarie o vicoli ciechi lungo i quali si dispongono case terrane aggregate a schiera in origine confinanti con la campagna coltivata».[5] Ciò perché la Catania ottocentesca è cresciuta in modo disordinato attorno ai principali assi viari, e in modo altrettanto scomposto si è formato San Berillo, ingrandendosi a dismisura per la compenetrazione in esso di una vasta zona prospiciente il mare che accoglie la rete ferroviaria. Contiguità col porto e con la ferrovia svolgono quindi un ruolo fondamentale nel processo di sviluppo economico di questa parte della città. Per densità di abitanti (12.000 rispetto una popolazione urbana complessiva pari a 80.000), agli inizi del ’900 il quartiere assume una posizione di primissimo piano nella configurazione dello spazio urbano catanese, giacché risulta caratterizzato da un tessuto sociale alquanto diversificato restituito dal radicamento di una popolazione dedita ai mestieri più diversi: dalle manifatture artigianali e produttive (fabbriche, di reti, di scarpe, di tessuti), a quelle commerciali (farmacie, dolcerie), ma anche di malaffare (per via della presenza dei più noti casini della città regolamentati dal Governo Crispi come attività economiche nel 1888).[6] Aree caratterizzate da estrema povertà e aree abitate dal ceto medio-borghese dispiegano quindi l’immagine architettonica scomposta di una porzione della Catania post-bellica, in cui bassifondi si alternano a palazzi costruiti a più piani.

 Una foto di Goliarda Sapienza bambina © Archivio Sapienza-Pellegrino

In questa geografia urbana affonda le radici, nonché il senso, lo scenario che fa da sfondo all’«autobiografia delle contraddizioni»[7] di Goliarda Sapienza. La formazione giovanile della scrittrice si compie infatti «fra le mura di una casa-oasi di luce nelle tenebre fasciste, e nei vicoli di San Berillo di Catania», in un’atmosfera familiare ‘eccentrica e allargata’ segnata dalla presenza di due figure genitoriali ingombranti (Peppino Sapienza e Maria Giudice, rispettivamente un avvocato attivista socialista e una delle prime donne sindacaliste italiane) e dei numerosi fratelli e sorelle nati da precedenti relazioni dei due genitori.[8]

In un ampio orizzonte memoriale Goliarda si racconta e racconta attraverso i suoi occhi il territorio che abita; la sua narrazione si costituisce in ‘pregnante configurazione simbolica’ di un quartiere che vive in perfetta simbiosi con tutte le parti che lo costituiscono. Un racconto che si sviluppa come un percorso dentro e fuori i reticoli della Civita,[9] «che accoglie l’impetuosa recherche del suo tempo catanese, dove prendono corpo e si conservano i suoi ‘vissuti’»,[10] ma anche la sua preziosa esperienza sonora.

 

 

2. Tra spazi interni ed esterni, silenti e sonori

Nel flusso di ricordi della scrittrice il soundscape si definisce attraverso la dialettica tra spazi interni ed esterni e l’alternarsi di scenari silenti e sonori; si costruisce altresì come esperienza di vita negli spazi aperti dei vicoli di S. Berillo e in quelli chiusi delle botteghe e dell’abitazione familiare. Quest’ultima è sita al numero 20 di via Pistone, in uno dei tanti palazzi a più piani che si contrappongono alle case basse del vecchio quartiere. Nella strutturazione interna l’appartamento corrisponde al modello di casa borghese, con la sequenza di stanze che culminano in un salone centrale nel quale si colloca il pianoforte, strumento principe della cultura musicale ottocentesca e dell’esemplare educazione degli italiani all’arte dei suoni. Nel riemergere discontinuo della memoria, Goliarda ambienta spesso azioni e modi di essere nella stanza del pianoforte; essa diviene pertanto un «luogo» funzionale all’attivazione di un dispositivo spettacolare, un ideale palcoscenico[11] su cui inscenare una delle tante forme del suo talento da enfant prodige:

 

Ho l’impressione di avere a casa mia sempre ascoltato. Non mi ricordo di avere aperto bocca, se non per piangere, gridare cantare, quando loro me lo chiedevano per divertirli. Mi mettevano in mezzo alla stanza del pianoforte. Arminio suonava ed io dovevo ballare, cantare o fare l’imitazione della cantante di varietà che avevamo visto la sera prima (LA, p. 24).

 

La casa di giorno è immersa in un totale silenzio, in questo background acustico quasi sempre Goliarda dà voce a se stessa e a coloro che abitano gli spazi dell’appartamento: i fratelli e le sorelle, la madre nella stanza in cui vive isolata, il padre nello studio, la domestica in cucina. Questi incontri appaiono decisivi nel delineare pratiche familiari che corroborano le sue narrazioni sonore, lasciando emergere alcune sostanziali esperienze di ‘ascolto’ imbastite principalmente attraverso il rapporto col fratello Arminio nel ruolo d’indiscusso interlocutore/musicista: Arminio «che al liceo si annoiava e si decise per la musica. […] In soli due anni è il primo al conservatorio di Palermo» (JG, p. 32);[12] Arminio che accompagna «col violino un suo amico al pianoforte» (JG, p. 56); Arminio che «scioglie le sue lunghe dita sulle corde della chitarra» (JG, p. 103); Arminio che sogna di approdare in una Creta arcaica per mettere in salvo «con i suoi studi […] lunghi pifferi, chitarre arcuate e sottili come esili lune […] condannati alla distruzione» (JG, p. 102); Arminio che accompagna al pianoforte Goliarda bambina interprete della celebre Casta diva di Bellini (LA, p. 82).

Sempre nel silenzio si lascia cogliere la vita pulsante notturna di casa Sapienza, quando nel buio dei ricordi essa s’accende come una «nave in festa» (JG, p. 55). Quella della festa e del ballo è una metafora ricorrente nella rievocazione visiva dei ricordi giovanile; al medesimo significato figurale ricorre per descrivere, ad esempio, il negozio di scarpe dello zio Giovanni «lucente di specchi e lampadari […] più che una bottega sembra un salone da ballo» (JG, p. 26), ma anche l’abitazione di famiglia che di notte si trasforma da muta scatola diurna in lucente e chiassoso «salone da ballo»: «di giorno tutti i componenti sparivano nelle loro cellette a sbrigare i fatti loro […] Di notte c’era sempre una scusa per fare baldoria» (JG, p. 55). Il «fare baldoria» notturno d’altronde appartiene di diritto all’attivismo anarchico e antifascista che contrapposto al quieto ‘vivere borghese’ contraddistingue il modus vivendi dei Sapienza («la gente attiva, piena di vita, magra e scattante, insomma antifascista, dorme poco e non si annoia mai», JG, p. 55).

L’immagine della casa come un «battello pieno di luci e musica» racchiude il ricordo delle serate conviviali sonorizzate dal «vociare gioioso accompagnato spesso da qualche strumento»; ricomposta negli scampoli memoriali di una bambina che ama osservare il mondo degli adulti, essa offre innumerevoli dettagli per contestualizzare convenzioni e modalità della sociabilità del tempo: i contorni della festa si racchiudono nel ricordo dei «tanti signori disposti elegantemente in gruppi a parlottare sottovoce o muti, la testa ripiegata, intenti ad ascoltare i musicisti»; o delle sorelle Olga e Musetta scoperte a flirtare con «uno spilungone che smarrito fra tanto bendidio non sapeva decidersi su quale delle due affondare i denti affamati»; o del rito dell’applauso zittito per «non disturbare la musica» quando ancora non giunta a compimento l’esecuzione musicale (JG, pp. 56-57).

Il salone, il pianoforte, il ballo: quale immaginario sonoro oggettivizza[13] Goliarda nel suo Bildungsroman? Quando la scrittrice descrive i bagliori sonori notturni della casa è probabile che lasci emergere aspetti della cultura musicale primonovecentesca intessuti intorno a propaggini aggiornate dell’antica Salonmusik, la socialità da salotto incardinata intorno al pianoforte per il piacere di ascoltare i grandi successi delle scene liriche, delle romanze da camera, dei ballabili, delle canzoni di moda diffuse dalla radio. Forme dell’intrattenimento salottiero di derivazione ottocentesca forgiano il gusto e la sensibilità dei catanesi nello scorcio di tempo compreso tra le due guerre, se dai bauli polverosi appartenuti alle famiglie dell’alta e media borghesia etnea emergono sempre più spesso spartiti di romanze da camera, barcarole, serenate, valzer, mazurke, stornelli.[14] Le tendenze musicali del ventennio fascista sono radicate nel gusto dell’intrattenimento fin de siècle, un’arte fatta in casa, espressione spesso di sublimi aspirazioni e quotidiane frustrazioni, organizzata negli spazi interni degli appartamenti, nel salone destinato al pianoforte, alle feste, alle letture e alle recite amatoriali. Il salotto rappresenta così lo spazio performativo nel quale attecchisce la cultura musicale domestica, corroborata dall’editoria specializzata che mette in campo i tanti ballabili, canzoni al ritmo di tango, ma anche di two step, fox-trot, resi celebri dai mezzi di diffusione di massa.[15]

 J.R. Lacalle, Amapola, Roma, Franchi, copertina, G III 251 (786) Autori vari, Tango e two step album, Berlino, Roehr, copertina, G IV 113 (786)

 

Non stupisce pertanto scoprire che della specifica educazione all’ascolto di Sapienza è parte un repertorio di celebri canzoni che, rimodellato attraverso l’azione performativa della memoria, a sprazzi emerge in alcuni episodi della sua giovinezza: Goliarda ricorre alla danza e al canto per drammatizzare i tanti pomeriggi trascorsi ‘fuori di casa’, nei cortili di San Berillo in compagnia delle amiche/‘personagge’ (Nica, Anna, Teresa, Grazia, Nunziata, Sara, la ricciolona); ne sono parte l’invito di Nica a ballare insieme il tango («.. arricordati ca ancora u tangu m’hai a ’nsignari», JG, p. 47) e l’intonazione dei celebri refrain tratti da canzoni di successo che suggellano la recita del finto matrimonio («sola più sola, in questa solitudine, col pianto in gola», LA, pp. 94-95) e del gioco/funerale in compagnia dell’amica/sorella («Ramona, tu brilli come il sole d’oro, Ramona tu sei la luce del mio cuor. Sei tanto bella che tutto è bello intorno a te. Ramona ti voglio per me», LA, p. 120).[16] Sono tutte prove di quell’«apprendistato performativo»[17] attraverso cui Sapienza si riappropria del proprio vissuto nel dare senso al suo temps perdu. Sullo sfondo di un background della Civita/San Berillo tutt’altro che silente, denso com’era di suoni e di rumori, «dell’urlare dei rivenditori, delle radio a tutto volume, delle sirene del porto»; è il «quartiere insonne» dalle insegne colorate, «i lampioni smaglianti, il brusio vitale di voci, gesti, sguardi» (JG, pp. 115-116).

 

 

3. Tra colto e popolare

Se è pur vero che la Bildung di Goliarda Sapienza si costruisce nella casa e nei vicoli di San Berillo, altrettanto importante appare l’esperienza messa a frutto nel frequentare con assiduità i luoghi deputati alla produzione e al consumo culturale che la città offriva nel vasto spazio urbano della Civita. Un’altra buona parte del paesaggio sonoro che fa da sfondo alla sua narrazione autobiografica si lascia delineare attraverso una mappa di esperienze sinteticamente racchiuse in una pagina di Lettera aperta:

 

Mi portavano sempre a teatro, al cinema ed anche all’opera, loro. Mio padre all’opera dei pupi. Mi portavano sempre, tanto che non mi ricordo quando fu la prima volta (LA, p. 25).

 

Netta appare la diversità delle scelte in capo alla famiglia che si polarizzano intorno alla diade colto/popolare: teatro cinema e opera (ossia melodramma) sono appannaggio della madre e dei fratelli, l’opera dei pupi del padre. Nel segno dell’educazione paterna Goliarda impara a esperire il mestiere del puparo nella bottega di Peppino Insanguine, per poi raccontare e recitare le storie per dare senso alla realtà che la circonda; nella cornice degli insegnamenti materni, invece, cresce aperta ai linguaggi artistici della modernità, imparando a valutare di essi le potenziali implicazioni sociali nell’apertura a un pubblico quanto più allargato possibile («il cinema col tempo diventerà un mezzo formidabile per diffondere cultura e progresso, Goliarda […]» – le avrebbe detto la madre - «cultura e progresso non ai soliti, pochi privilegiati, ma a masse intere di popolo», JG, p. 8).

In questa altalenante dialettica fra tradizione e innovazione, tra consumi colti e popolari, si forgia il carattere performante della scrittrice. Goliarda Sapienza frequenta il teatro sin da bambina, recita copioni di altri, impara a fare tutte le parti come il puparo: interpreta indifferentemente la scena finale di Malia, i dialoghi di Cavalleria rusticana, le battute di Jean Gabin nel Porto delle nebbie; su palcoscenici ristretti (come quello del commendator Insanguine), su altri più allargati, ma ideali giacché modellati dal ricordo di teatri, arene e sale cinematografiche allestiti a suo tempo nella Civita per «dare gioia e cultura» ai catanesi (JG, p. 83).[18]

Nel gioco di finzioni non estranea appare la musica, a volte evocata come cliché da sottofondo, altre volte improntata a «drammaturgie sonore»[19] che quasi sempre prendono corpo all’Opera (con la maiuscola!), ossia nelle atmosfere avvolgenti del massimo teatro della città che in una vasta area giustapposta al quartiere di San Berillo troneggiava nella Civita.

 Una cartolina del centenario belliniano © Museo Bellini di Catania

Il Teatro Massimo Bellini, conquista tarda della ‘grande Catania’, avamposto architettonico della massiccia urbanizzazione dello spettacolo che negli anni catanesi di Goliarda avrebbe vestito la città etnea come la ‘Milano del Sud’: inaugurato nel 1890 con la rappresentazione di Norma di Bellini, sarebbe stato affiancato dal 1900 in poi dal Teatro Sangiorgi, uno spazio multifunzionale nel quale si allestivano generi di spettacoli (dal melodramma, all’operetta, al varietà) e dall’Anfiteatro Gangi, un’arena capiente 5000 posti inaugurata il 27 maggio 1922.[20] È pertanto verosimile presupporre recite operistiche e forme di spettacolo più leggero, come riviste e varietà, nella mappa dei consumi culturali familiari. Lo confermano gli squarci memoriali di Goliarda: un immaginario contrappunto è articolato intorno ai ricordi di celebri melodrammi, dal coro del Nabucco legato alle qualità vocali di uno dei tanti fratelli («nei cori Ivanoe era imbattibile con la sua voce di basso profondo, sembrava di essere all’Opera quando lento e solenne dal fondo del palcoscenico parte “Va’ pensiero”…» JG, p. 46), a Norma di Bellini che «conosce da sempre» (FM, p. 123). Nel composito immaginario ‘operistico’ che riaffiora, s’intreccia altresì la relazione di transfert dell’io narrante della scrittrice con l’eroina belliniana dalla statura esemplare, il personaggio ‘enciclopedico’ (donna madre-amante-sacerdotessa-guerriera) che la sollecita a compiere sulla scena di memoria i diversi ruoli per «diventare una donna» (LA, p. 30).

 Gina Cigna in una foto di scena nei panni di Norma © Museo Bellini di Catania

Norma, d’altronde, è titolo d’eccellenza a Catania, ricorre in tutte le più celebri stagioni del Teatro Massimo Bellini: da quella inaugurale (1890) a quella appositamente dedicata ai festeggiamenti del primo centenario dell’opera (1931) a quello della nascita di Bellini (1935), che il regime fascista volle commemorare in modo altisonante il 17 gennaio 1835 con l’allestimento di Norma interpretata da Gina Cigna:[21]

 

chissà quanta gente ci sarebbe stata la sera all’opera. Tutti i palchi pieni: e la Norma, la Norma di Bellini, la conoscevo ormai così bene che Arminio aveva detto che ero ancora in braccio alla donna di servizio e già battevo il tempo della sinfonia, quando lui la suonava (LA, p. 80).

 

Con le sue eroine altere e disperate, sconfitte e vittoriose, il melodramma avrebbe continuato a nutrire di certo il fervido immaginario della Goliarda attrice di cinema e di teatro, ma anche le sue scritture teatrali, se è probabile che a riemergere in una delle sue pièces sia proprio il Cherubino mozartiano, ambiguo e palpitante nelle sue acerbe carni per l’affanno causato da due signore.[22]

E nel sedimentare dei ricordi rievocati dall’immenso sforzo del «dovere tornare indietro per andare avanti» (FM, p. 15), il suono di ogni applauso avrebbe infine fatto riaffiorare in lei l’immagine del grande teatro della Civita avvolto nella luce sfavillante di luci e stucchi, ma condito dall’amara consapevolezza di appartenere a un tempo ormai inesorabilmente perduto:

 

Sempre l’applauso evoca in me stucchi, ori, lampadari sfavillanti, velluti rossi. L’Opera! il teatro.
Quanto tempo è che non ci vado (jg, 59).

 

 

* Questo articolo nasce come primo contributo al progetto di ricerca finanziato dall’Università di Catania dal titolo OPHeLiA - Organizing Photo Heritage (in) Literature and Arts, che si è concentrato sull’analisi di uno specifico caso studio dedicato alle stratificazioni visive, performative, musicali e letterarie dell’antico quartiere San Berillo di Catania. L’articolo offre alcune riflessioni preliminari sulla particolare qualità delle informazioni relative al soundscape del quartiere tratteggiate dalle narrazioni di Goliarda Sapienza. Desidero ringraziare le amiche, nonché colleghe e componenti del gruppo OPHeLiA, Stefania Rimini e Maria Rizzarelli per l’incoraggiamento e i tanti suggerimenti nella messa a punto definitiva del testo.

 

 


1 M. Schaffer, Il paesaggio sonoro [1977], trad. it. di N. Ala, Milano, Ricordi-Unicopli, 1985.

2 Sulle diverse sfaccettature del concetto di soundscape a partire dalla disamina di Schaffer, cfr. A. Y. Kelman, ‘Rethinking the Soundscape. A critical Genealogy of a Key Term’, Sound Studies, Senses and Society, 5/2, 2010, pp. 212-234.

3 Lettera aperta e Il filo di mezzogiorno sono stati pubblicati da Garzanti rispettivamente nel 1967 e nel 1969; Io, Jean Gabin, sebbene uscito postumo, va ricondotto agli anni di scrittura dell’Arte della gioia completato da Goliarda Sapienza nel 1976. Nel corso dell’articolo si farà riferimento alle seguenti edizioni: Lettera aperta, (d’ora in poi la), Palermo, Sellerio, 1997; Il filo di mezzogiorno (d’ora in poi fm), Milano, Baldini&Castoldi, 2015; Io, Jean Gabin (d’ora in poi jg), Torino, Einaudi, 2018.

4 Cfr. G. Zito, Storia delle Chiese di Sicilia, Roma, Libreria editrice vaticana, 2009, p. 357.

5 Cfr. G. Dato, La città di Catania. Forma e struttura (1693-1833), Roma, Officina, 1983, p. 57. Nel racconto delle sue gite col padre, anche Goliarda ricorda che zone non urbanizzate non distavano dalla Civita: «Poi con lui andavamo in campagna. Oh, non credere ch’andavamo lontano, non c’era tempo per andare lontano e poi allora bastava uscire dalla Civita, attraversare la città di marmo e mattoni che subito si trovavano i campi di grano, le colture verdi» (jg, p. 52).

6 Cfr. M. Palermo, Alla ricerca dell’identità perduta, in Urban cultur maps. Condividere, partecipare, trasformare l’urbano, a cura di A. D’Urso, G. Reinam, B. Reutz-Hornsteiner, F. Ruiz Peyré, Catania, CUECM, 2013, pp. 95-108.

7 Per la ri-scrittura dell’infanzia e dell’adolescenza di Goliarda Sapienza rinvio agli studi più recenti: M. Andrigo, ‘L’evoluzione autobiografica di Goliarda Sapienza: stile e contenuti’, in G. Providenti (a cura di), «Quel sogno d’essere» nell’opera di Goliarda Sapienza. Percorsi critici su una delle maggiori autrici del Novecento italiano, Roma, Aracne, 2012, pp. 117-130; Ead., ‘Goliarda Sapienza Permanent Autobiography’, in A. Bazzoni, E. Bond, K. Wheling-Giorgi (eds. by), Goliarda Sapienza in Context. Intertextual Relationships with Italian and European Culture, Madison, Fairleigh Dickinson University Press, 2016, pp. 181-197; M. Rizzarelli, Goliarda Sapienza. Gli spazi della libertà, il tempo della gioia, Roma, Carrocci, 2018.

8 Cfr. A. Pellegrino, ‘Postfazione alla prima edizione’, in G. Sapienza, Le certezze del dubbio, a cura di A. Pellegrino, Torino, Einaudi, 2013, p. 167.

9 Per la lettura dello spazio della Civita nell’opera di Goliarda, cfr. A. Carta, ‘Finestre, porte, luoghi reali e spazi immaginari nell’opera di Goliarda Sapienza’, in «Quel sogno d’essere» di Goliarda Sapienza, a cura di G. Providenti, Roma, Aracne, 2012, pp. 261-276.

10 M. Farnetti, ‘Introduzione’, in G. Sapienza, Lettera aperta, Torino, Einaudi, 2017, p. IX.

11 Cfr. F. Mazzocchi, ‘Goliarda Sapienza e La rivolta dei fratelli’, in S. Rimini, M. Rizzarelli (a cura di), Un estratto di vita. Goliarda Sapienza tra teatro e cinema, Lentini (Siracusa), Duetredue (I quaderni di Arabeschi), 2018, p. 54.

12 Il conservatorio di Palermo è rievocato dalla scrittrice anche nell’episodio di addio alla cameriera Tina, costretta ad allontanarsi dalla famiglia per tornare in campagna; le lacrime di Tina suscitano in Goliarda il ricordo dell’immagine di Santa Cecilia racchiusa nella tela «appesa all’ingresso del conservatorio di Palermo» (jg, p. 79).

13 Riprendo il termine ‘oggettivizzare’ dalle suggestioni di un passo del Ritratto di Goliarda Sapienza di Angelo Pellegrino: «Anche la sua narrativa è in parte un atto politico, in fondo riflette sempre i movimenti sociali e psichici della società storica» (si legge in calce a Io, Jean Gabin, Torino, Einaudi, 2017, p. 161).

14 Un cospicuo fondo musicale costituito da canzoni, ballabili, liriche da camera degli anni trenta e quaranta del ’900, proveniente da lasciti e donazioni, si trova oggi custodito nell’Archivio del Museo civico belliniano.

15 Cfr. M.R. De Luca, ‘D’un teatro e dei suoi maestri, di Bellini e del salotto musicale catanese’, in G. Giarrizzo (a cura di), Catania. La città moderna, la città contemporanea, Catania, DSE, 2012, pp. 104-105.

16 Nel caso di Ramona si tratta della celebre canzone tratta dalla colonna sonora di una delle tante riprese, quella del 1936, dell’omonimo film diretto da Edwin Carewe (nome d’arte del regista e attore cinematografico Jay Fox) che nella versione muta del 1928 aveva avuto quale interprete principale la famosa attrice Dolores del Rio.

17 Cfr. su questo particolare aspetto, M. Rizzarelli, Goliarda Sapienza. Gli spazi della libertà, il tempo della gioia, pp. 56-57.

18 Esula da questo articolo l’analisi delle implicazioni teatrali e cinematografiche delle scritture di Goliarda per cui rinvio ai riferimenti bibliografici contenuti negli studi specifici rubricati nel già citato volume Un estratto di vita. Goliarda Sapienza fra teatro e cinema.

19 Per un approfondimento del concetto di «drammaturgie sonore» si rimanda a V. Valentini, Drammaturgie sonore. Teatri del secondo Novecento, Roma, Bulzoni, 2012.

20 Una sintesi della storia del teatro musicale catanese si legge in M.R. De Luca, D’un teatro e dei suoi maestri, di Bellini e del salotto musicale catanese, pp. 97-99. Giova ricordare il ruolo di primo piano svolto a Catania dalla programmazione del Teatro Sangiorgi che negli anni trenta e quaranta del ’900 avrebbe ospitato attori come Giovanni Grasso, Angelo Musco, Raffele Viviani, Ettore Petrolini, Salvo Randone, artisti di varietà come Totò, Renato Rascel, Nino Taranto, Wanda Osiris, Josephine Baker.

21 V. Ricca, Il centenario della Norma. Bellini. Impressioni e ricordi […], Catania, Giannotta, 1932, pp. 14-15. Cfr. il fascicolo dedicato alla Stagione lirica centenario belliniano 1835-1935, Catania, s.e., 1935: dell’eccezionale programmazione del 1935 furono parte anche gli allestimenti delle opere Beatrice di Tenda (1 gennaio), I Capuleti e i Montecchi (5 gennaio), I Puritani (25 gennaio).

22 Mi riferisco qui a un’ipotesi, da sviluppare, relativa al personaggio di Cherubino della pièce di Sapienza Due signore e un cherubino: mi pare possibile rintracciare in questa dramatis persona i tratti dell’omonimo personaggio mozartiano presente nelle Nozze di Figaro, nel quale confluisce l’immagine di una delle tante sfaccettature dell’amore che il compositore salisburghese dispiega nella sua opera, ovvero quella dell’amore adolescenziale, palpitante, sessualmente indefinito ma per questo motivo quanto mai attraente: cfr. L. Bentivoglio-L. Bramani, E Susanna non vien. Amore e sesso in Mozart, Milano, Feltrinelli, 2014.